Utente:Alessandro Carchio/sandbox

Libro III

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Il libro terzo è il vero e proprio compimento del progetto lirico dell’autore. In questa raccolta Orazio esalta i motivi e i generi già canonici nella lingua greca e che l’autore ripropone nel linguaggio italico e latino. Nella letteratura amorosa le serenate si sviluppano in forma patetica o drammatica, invece la serenata dell’ode 10ª è simbolo dell’ironia italica e dei suoi luoghi. Altro tema della letteratura d’amore è il contrasto tra gli innamorati, Orazio lo rielabora in un dialogo diretto, semplice e bello, organizzato in tre parti distinte. Le 30 odi del libro ci offrono nozioni del mondo oraziano che non è più greco, anche in alcuni particolari della poesia amorosa dedicati a fanciulle dal cuore italico. In alcune sue odi emergono i ricordi evocati dai luoghi natali di Apulia e Lucania, dove da umile Orazio riuscì a raggiungere le vette della letteratura.

Nella maggior parte di questi suoi componimenti compaiono gli dei: Venere è avvertita presenza in tutte le sue poesie d’amore, in più il gran numero di preghiere a lei dedicate è dovuto alla devozione e alla credenza e non per pura abitudine di costume o di letteratura. Altra divinità ricorrente nei componimenti oraziani è Bacco, dio liberatore ed italico, che offre all’uomo il bene spirituale e fisico. Già dalla sua prima ode, Orazio distingue il poeta mortale e quindi comune dal suo ruolo di vate della lirica: è evidente il suo avvertire la vocazione al compito di essere poeta, ma anche il fine di trasmettere un dono ed un bene interiore al lettore. A questo punto possiamo aprire il discorso sull’ultima parte della nostra introduzione, le odi Romane, tradotte anche come “Odi ai Romani”[1]. Egli ha compreso che portare in lirica la storia di Roma significava cogliere e fermare la vicenda della romanità in ciò che ha di perenne, perciò le Odi ai Romani nascono tardi e maturano al termine del progetto lirico, col terzo libro. Esse non sono un poemetto, ma una rivisitazione lirica di qualche punto contemporaneo alla vita dell’autore da cui il suo cuore si slancia verso il sublime, sottolineando gli ideali romani che provengono dal suo animo e che non gli sono stati suggeriti da altri.

(48 vv.; alcaica)

Le Odi Romane non sono indirizzate a personaggi specifici, ma sono dirette all’intera società romana. I primi quattro versi spiegano questo nuovo significato che esse vogliono assumere e chiedono un nuovo modo di ascolto che fino ad all’ora non c’era mai stato. L’ode si struttura in due parti concettuali: la sacralità della vita e la pietas (versi 1-24); la ricchezza e la saggezza [2]; legame tra le due parti è il costume agricolo degli avi[3]. Appare sacro anche il buon governo (imperium) per il quale i popoli hanno reverenza dei re, i quali hanno referenza di Giove, sovrano della storia della natura. Appare sacra anche la necessitas, che è provvidenza e giustizia nel suo mutare. L’empio è colui che non è pius. Il senso sacro del reale e dell’esistenza è raffigurato nella vita umile dei campi; vita che può essere rovinata dall’avidità, dalla cupidigia: e le gioie della vita agricola producono da se stesse la sofferenza [4]. Passando all’uso dei beni dell’agricoltura come mezzi di arricchimento le gioie sfociano in affanni, preoccupazioni e disagi. La morale è che ricchezza non produce felicità.

(32 vv.; alcaica)

L’autore parte da un concetto strutturale per cui la composizione dovrebbe prendere corpo dal concetto di virtus: il soggetto a cui è indirizzata questa esaltazione della virtù sono i giovani a cui Augusto indirizza il suo programma di restaurazione essendo più disponibili a recepirla. Il poeta nel mettere in versi la triplice geminazione della virtus si avvale della tecnica “pindarica” adombrativa dei silenzi in modo tale che non si trovano passaggi dalla prima parte nelle altre due. Così facendo la parte più bella e compiuta rimane la prima: la virtus come valore guerresco. La durezza della milizia educa e tempra i valori bellici. Anche la politica allena la libertà morale della virtù: dominare secondo il bene i vantaggi del potere senza soggezione al capriccio del popolo. Poi si passa a parlare del terzo volto della virtus, cioè la devozione religiosa. L’unico difetto di questo componimento è il mancato risultato d’assieme dovuto alla carenza di sviluppo e all’incompiutezza della forma, infatti non è l’ode maggiormente apprezzata dagli studiosi.

Ode III

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(72 vv.; alcaica)

Le prime due strofe sono uno dei pezzi gnomici più ammirevoli dell’autore: lo sono perché eroizzano senza forzature la gnome (cioè giustizia e costanza del proposito). Il carme si presta a una spontanea romanizzazione del soggetto e a uno slancio mitizzante della storia intenso e originale. Giunone riporta gli Dei alla fine della guerra di Troia. Il popolo dei Quiriti è sulla terra il popolo eletto degli Dei, ma c’è una condizione che vincola ciò: Troia non deve risorgere mai più. Tale divieto è un fato di cui la dea si farà custode. Il discorso si apre con un’esclamazione di dolore non di vendetta, quasi Ilio apparisse alla dea come città e come popolo, e si chiude con la desolazione della donna che ha perduto tutto. Romana e profonda è la passione del carme. È presente anche un’efficace digressione della dea sull’avidità dell’oro che sta alla base delle conquiste imperiali e mediterranee.

(80 vv.; alcaica)

La quarta ode è dedicata a Calliope musa simbolo della poesia più elevata, la poesia epica, ma in realtà il reale tema che sviluppa è romano (le guerre civili e la loro fine), e il personaggio principale è Ottaviano che ama le Muse ed è caro ad esse, ama la poesia e se ne alimenta, ama gli Dei e quello che il loro aiuto incivilisce. Un’analisi del carme come adulazione e lode non avrebbe fondamento su cui sostenersi, mentre spira l’intento di far capire il miracolo civilizzante della poesia. È un’unione di poesia e politica, di ethos e storia, di ideale dei poeti e dei governanti. L’autore ha diviso la poesia in tre parti: quella autobiografica, quella politica e quella mitologica. Delle tre la prima è la più bella [5] specialmente nella parte evocativa dei luoghi natali. Nella parte seconda [6] sembra che si annebbi la felicità strutturale della composizione. La terza parte comprende i versi 64-80. All’unione di ethos e mito, di ethos e storia conveniva come dea padrona solamente la regina del canto epico: Calliope.

(56vv.; alcaica)

Quest’ode riceve la sua motivazione dal dolore per la decadenza dello spirito militare. Le guerre erano finite, ma gli animi erano in contraddizione. Perciò nel 27 a.C. il Senato decretò a Ottaviano il titolo di Augusto. Centro del discorso di quest’ode è Attilio Regolo. Regolo è pensato dal poeta come persona tragica e unica, non invenzione di un eroismo che non ci fu. L’autore se ne serve come esempio educante. Regolo non esclude la sua colpa di comandante nel condannare la viltà dei soldati romani di Clupea, arresisi ai Cartaginesi senza lotta; viene a Roma per scontare la sua colpa, per tornare a Cartagine a ricevere la morte. Ciò che è bello è che il poeta immagina di suo ciò che non è nel racconto storico. Tutta l’ironia amara sul cuore invigliacchito dei soldati è la forte allegoria su qualunque viltà presente e serve a risvegliare il cuore degli ascoltanti ad un nuovo sentimento eroico della milizia. Il carme è autonomo e pieno nella sua poesia.

(48 vv.; alcaica)

Questa è l’ultima ode del ciclo indirizzato ai Romani. Siamo abituati ad un Orazio sereno e saggio, ma qui appare triste e tormentato. Dopo cinque odi di riflessione e fiducia, viene questa di scoramento: di cui l’autore ha forzato la cronologia ponendola all’ultimo posto del ciclo. La movenza di pretesto è la ricostruzione dei templi degli Dei per opera di Augusto; qui però non si parla di Augusto ma della colpa di incuria e di abbandono che la bufera delle guerre civili ha comportato. Colpa che nel tempo le generazioni si sono trasmessa e che poi ha leso il popolo e la patria. Da tanta oscenità l’animo fugge e balza al passato per trovare dei tempi in cui il popolo visse le virtù. Sembra irreparabile il danno che porta nella società degli uomini il passare degli anni.

Ode VII

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(32 vv.; asclepiadea terza)

Il carme è una composizione leggera e tutt’al più ravvivata dall’umorismo e dall’ironia sull’infedeltà di Gige e sulla fedeltà di Asterie, oppure riconducibile al gioco di salotto sull’ambiguità del cuore e del pianto di una donna. Invece il sorriso oraziano c’è ma fuori da qualunque giudizio morale. Il luogo dove Gige attende che passi il tempo tempestoso è Valona (in Albania); è una casa ospite dove c’è una donna ospite che può conoscere la dimestichezza di una moglie, che piange per ansia sincera. Orazio sa della corte spietata con cui il vicino Enipeo circuisce Asterie, ma Orazio conosce il significato vero di quel pianto e vuole aiutare Asterie.

Ode VIII

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(28 vv.; saffica)

Quest’ode ci offre la freschezza sincera delle cose accadute. Mecenate giungendo nel rifugio campagnolo di Orazio nella villa Sabina, lo trova impegnato, il primo giorno di marzo, la festa dei matronalia a ornare la casa come per sacro rito alla divinità che Mecenate non riesce a identificare. I fatti proseguono con l’ospite tra i versi fluidissimi e armoniosi che mantengono il lettore tra il sorriso e la saggezza. Il dio per cui si prepara il sacrificio è Bacco, salvatore per Orazio dalla caduta dell’albero marcio avvenuto esattamente un anno prima e che ora il poeta celebra per ricorrenza: ecco il motivo che Mecenate non poteva capire. C’è una salvezza migliore di quella della caduta di un albero, la quale dopo un anno si può anche dimenticare: la festa a Bacco è il ringraziamento per il suo favore e la sua protezione: è la salvezza dal quotidiano.

(24 vv.; asclepiadea quarta)

Ci sono tre parti di due quartine ciascuno: la prima quartina spetta all’uomo, la seconda alla donna; aggressivo e riflessivo l’uomo, immediata e appassionata la donna; nella terza emerge il sentimento di fondo del contrasto, che è il riaccendersi dell’antica fiamma. Per cui le prime due strofe diventano scampi di rimproveri per il mutato amore; le altre due sono l’enfasi scambievole dei due parlanti per il nuovo amore che li avvince; le ultime due strofe hanno il palpito della fiamma riaccesa. L’ode non si può definire un breve gioco di galanteria, ma è l’osservazione del cuore innamorato, la scoperta portata all’essenziale dei chiaroscuri e delle contraddizioni.

(20 vv,; asclepiadea seconda)

Questo “pianto davanti la porta” è dedicato a Lice, crudele contro il suo amatore che è Orazio. Il motivo d’amore non è dimensione poetica, l’interesse che le dà l’impronta è squisitamente letterato. Il poeta latino sceglie per l’ode la struttura per piangere la protervia di Lice, senza inimicarsela e la cala nell’ironia. Lice lascia perire Orazio sulla porta e non lo accoglie in casa almeno a difenderlo dal rigore di una notte di inverno romana. Lo spasimante ha pur la forza di mandare la donna al paese che le si addice e di liberare il fianco dal freddo e dall’acqua piovana.

(52 vv.; saffica)

Quest’ode nasce come stimolo inventivo da un’invenzione pindarica. Può sembrare che l’ode prenda le mosse dalla reticenza di Lide all’amore e che la mette di fronte alla sublimità umana del vero amore. Col libro terzo i motivi d’amore cominciano a diventare autonomi. Lide rimane un ritratto a sé bello e compiuto di adolescenza che si avvia all’amore.

Ode XII

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(12 vv.; ionici a minori)

Emerge la figura umana dell’innamorata, in questo caso Neobule. Infelice per i lavori domestici viene distratta dal figlio alato di Venere che la inganna e le nasconde cestello. Ma in verità è la vista di Ebro che la stranisce. Il lamento si risolve nella contemplazione e nel sospiro. Molti hanno pensato che sia uno dei primi componimenti lirici dell’autore. Neobule è tra i ritratti “italici” più belli del canzoniere.

Ode XIII

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(16 vv.; asclepiadea quarta)

Banzi è il luogo d’infanzia del poeta il cui nome deriva dalla ninfa Bandusia. Il nome della ninfa e della località bisogna supporli più antichi dello stesso celebratore. Il ricordo muove e si congiunge con un sentimento religioso, ma trova qua e là il suo accento proprio di vibrazione dalla natura e dalle cose.


Ode XIV

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(28 vv.; saffica)

Nella primavera del 24 a.C. Augusto tornava dalla Spagna vittorioso sui Càntabri: furono decretate solenni feste pubbliche, delle quali si sente parte anche il poeta. Orazio rispetta la gerarchia del giorno di ringraziamento che appartiene anzitutto alle donne che prima esprimevano parole di dubbioso augurio e che ora si esaltano in parole di felicità: non segni di una gioia qualunque, ma di una gioia che è sacra agli dei.


(16 vv.; asclepiadea quarta)

La brevità denuncia l’appartenenza al genere dell’epigramma che prende la struttura di un parallelo di lussuria tra la madre vecchia e la figlia giovane. Il piccolo componimento si appresta quindi a cogliere un intero e uno spaccato di costume realistico e vigoroso. Questa breve lirica è un esempio della pienezza d’arte cui Orazio è giunto con il libro terzo delle odi.

Ode XVI

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(44 vv.; asclepiadea seconda)

Questo componimento non va letto come un'ode gnomica, ma come una "epistola" gnomica ante litteram: l'epistola contiene spunti privati, culturali e interiori che un'ode non riesce a comunicare. In molte opere Orazio comunica il suo rifiuto della ricchezza, ma la paura di questa la può confessare solo in un componimento confidenziale e all'orecchio di un amico. L'anno di composizione di questa ode è forse quello del rifiuto al ruolo di segretario di Augusto: l'allegoria dell'abbandono della legione dei ricchi ha significato solo come rinuncia a una posizione di favore che avrebbe portato alla ricchezza. Quindi Orazio prende una posizione di onestà: egli vuole una ricchezza che non lo umilii. Orazio è ricco di un bene morale, che esige sacrificio. Contro la moneta e il suo potere corruttore non c'è scampo: dopo alcuni esempi mitologici sono presenti esempi storici, da Filippo il Macedone a quelli recenti delle guerre civili. L'elogio della parsimonia assume un significato sincero e personale che solo ad un amico si poteva comunicare.

Ode XVII

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(16 vv.; alcaica)

Per Elio Lamia la scena si sviluppa nella vigilia di una festa ed è tutta paesaggio: in una prima parte paesaggio indiretto, quadro del Garigliano e delle paludi di Marica alternato ai discorsi sugli antenati; in una seconda parte il quadro comincia fuori dalla sponda di Formia che Euro riempie di alghe, passa alle tante foglie che cadono dagli alberi, alla pioggia che inumidirà tutto e all'interno, intorno al focolare dove il vino spezzerà il rigore e il padrone di casa con l'intera famiglia farà festa al Genio tutelare.

Ode XVIII

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(16 vv.; saffica)

Quest'ode è caratterizzata dalla sua bellezza paesistica la quale assume sacra gioia festiva e fede che si abbandona alla preghiera. La presenza del Dio invade la natura, gli animali e gli uomini che sono presi nell'incanto sacro.

Ode XIX

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(28 vv.; asclepiadea quarta)

La scena di quest'ode si apre con un banchetto per festeggiare l'entrata di Lucio Licinio Murena nel collegio dei sacerdoti auguri. Ciò che importa descrivere a Orazio è un convito autunnale e le emozioni con cui egli visse tale avvenimento Qualcuno si è chiesto se questo banchetto sia veramente avvenuto o se sia solo frutto dell'immaginazione del poeta. Molta importanza assme il numero tre, che fa da cerniera ai vari prticolari riportati nel componimento: i tre vacui discorsi sulle antichità greche, le tre notizie materiali della ospitale accoglienza, i tre quadretti d'amore. Un vero e proprio esempio del concetto ideale di convito, certamente ricorrente nelle opere oraziane ma ognuno ha la propria individuazione e impronta.

(16 vv.; saffica)

Queste strofe d'amore sono un esempio di ironia di costume, dato che il fine non è quello di creare un quadro della società galante augustea, ma intendono descrivere la stravagante infatuazione degli efebi e ne è preso di mira l'esemplare più bello: Nearco. Pirro contende la conquista di Nearco alla donna che lo ama follemente e ne difende il possesso, come la leonessa Getula difende i suoi piccoli. Il rivale si prepara all'assalto, ma lei non si intimidisce e affila le sue zanne, che non lasciano speranze al rivale: avanza tra i giovani che protegge Nearco. Intanto l'arbitro dello scontro tiene sotto il piede la palma in segno di ripudio della gara mostrandosi indifferente all'uno e all'altra, infatti è occupato a far ondeggiare i suoi capelli, divino come Nireo o Ganimede. Non è una scena d'amore, ma l'esatto opposto.

Ode XXI

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(24 vv.; alcaica)

Questa non è un'ode celebrativa di Messalla per la sua vittoria sugli Aquitani e nemmeno un'ode conviviale di invito a Messalla in casa di Orazio, ma è un dono di letterato al fondatore di un circolo letterario nella Roma di Augusto. Il dono doveva essere degno della persona, e lo è, tanto da porlo accanto a personaggi celebri della saggezza, della virtù e della bevuta come Catone il censore e Catone l'Uticense: il vino fa umana anche la virtù ringhiosa, offre all'occhio altrui i segreti dei sapienti e addirittura può trasformare il povero umiliato in campione di coraggio e fermezza. L'ode all'anfora non rispetta solo l'ordito di un inno religioso e non è nemmeno un inno creato della fantasia come gioco poetico, ma esso ha un concettoche lo conduce dalla prima all'ultima strofa.

Ode XXII

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(8 vv.; ode saffica)

Questo è un piccolo componimento in cui tutto converge a celebrare la divinità di Diana nella prima strofa vengono elencati tutti gli attributi del suo nume. L'ode è una dedica-preghiera, semplice e sincera per affidarsi alla divinità.

Ode XXIII

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(20 vv.; alcaica)

Il tema fondamentale del componimento è la religione. Viene riportata ad esempio la religione di Fidile, che rappresenta l'universalità della religione che è di tutti e non è la classica devozione contadina, è il modo di fondo come la sente il cuore dei colti e il cuore del popolino. Orazio ci dimostra che il cuore di chi prega è puro.

Ode XXIV

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(64vv.; asclepiadea quarta)

In questa composizione il pathos la fa da padrone. L'abbrivo dei primi 24 versi è davvero efficace: sviluppa il confronto tra il costumesano dei barbari e quello corrotto dei Romani. Solo colui che porrà fine alla corruttela, all'avidità e alla lussuria potrà essere il padrone del mondo. a poco a poco l'ode è andata perdendo sviluppo e slancio: da una prima parte vigorosa, non si è poi svolta un'idea poetica. Questa è un'ode profondamente romana e appare un Orazio con una spiccata responsabilità di cittadino per affrontare un grande tema civile-morale. L'ode rimane senza risposta : il fallimento dell'ode è il dato di una crisi etico-storica e non di una crisi d'arte.

Ode XXV

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(20 vv.; asclepiadea quarta)

Orazio qui canta l'invasamento Dionisiaco come ingrandimento della fantasia per il canto: è un inno al Dio. Il poeta avverte questa nuova energia proveniente dal Dio e questa nuova voce, perciò cerca luoghi degni per esplicarla.

Ode XXVI

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(12 vv.; alcaica)

Il poeta è alla vigilia di appendere le armi della milizia d'amore nel tempio di Venere marina. La passione lo spinge a una preghiera: desidera che la Dea colpisca Cloe disdegnosa. La richiesta appare aggraziata e sincera.

Ode XXVII

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(75 vv,; saffica)

Questo è il componimento per il quale si trova più materiale di raffronto, nella letteratura latina Catullo [7] e Virgilio [8], nella letteratura greca invece una ballata di Bacchilide e un idilio di Mosco. . Quest'ode è una poesia di viaggio: sviluppa tre auguri di partenza, quello buono a Galatea, quello triste ai cattivi e quello mitico-erotico-patetico del ratto di Europe. Emerge il fascino del mistero, dell'ignoto, del pericolo sulla imprevedibile sensibilità femminile. Galatea vede il pericolo della stagione, ma vuole continuare a esplorare; Europe è affascinata dal toro: l'ignoto la prende e la fa innamorare, diventa donna ma continua a tormentarla il peniero della fanciulla che ormai non è più. Alla fine Venere le svela l'amore di Giove e il viaggio nell'ignote si conclude felicemente.

Ode XXVIII

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(16 vv.; asclepiadea quarta)

Il giorno della festa di Nettuno, che cadeva il 23 luglio, Orazio giunge nella casa di Lide, la sua amica citarista. Il poeta immagina l'amica nei suoi modi compassati e tendenti alla parsimonia. La lirica è la descrizione minuta e viva di un giorno di festa vissuto in una città animata e allegra dalla quale il poeta si isola.

Ode XXIX

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(64 vv.; alcaica)

L'ode pare sia l'invita a Mecenate aperchè trascorra nella villa Sabina di Orazio una pausa della contemplazione tormentata della grande Roma. Il punto di sviluppo dell'ode è il saper vivere la gioia e la semplicità delle piccole cose, saper godere della pienezza morale del poco. quest'ode è il punto d'incontro e di frizione tra l'autarchia del saggio e la pena di Orazio uomo per la nostra precarietà esistenziale.

Ode XXX

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(16 vv.; asclepiadea quarta)

Quest'ultima ode appare alta e sublime per darle un'aria commossa in seguito al grande obbiettivo conseguito. Orazio è riuscito a rendere la lirica latina degna succeditrice della lirica greca e sa di essere stato il primo a riuscire in questo progetto. Tuttavia ciò che gli è più caro è che il suo paese, il suo luogo d'origine non tacerà mai riguardo alla sua gloria di poeta.

Bibliografia

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  • Giovanni Tramice, Orazio. Odi, Libro III, Venosa, Appia 2, 1995.
  1. ^ Cfr. Giovanni Tramice, Orazio. Odi, Libro III, Venosa, Appia2, 1995, p. X.
  2. ^ Vv. 25-48
  3. ^ Vv. 21-26.
  4. ^ Vv. 29-32
  5. ^ Vv. 1-36
  6. ^ Vv. 37-64
  7. ^ lamento di Arianna
  8. ^ lamento di Didone