Attentato di via Rasella: differenze tra le versioni

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+ parere di Portelli sul paragone coi crimini commessi dal Regio Esercito
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Riprendendo le dichiarazioni dei membri del PCI romano, alcuni autori hanno sostenuto che la rappresaglia – nella sua stessa eventualità o comunque nelle sue modalità e dimensioni – non fu prevista dagli attentatori. Tale posizione è argomentata sostenendo che il modo di agire dei GAP non avrebbe contemplato – legittimamente<ref>{{cita|Katz 1968|pp. 236-7}}.</ref> o colpevolmente<ref>{{cita|Lepre 1996|p. 29}}: «Se i gappisti avessero esaminato le possibili conseguenze dell'attentato, avrebbero dovuto prevedere una dura rappresaglia».</ref> – un'attenta valutazione delle possibili conseguenze degli attacchi; oppure che la rappresaglia sarebbe stata oggettivamente imprevedibile. L'imprevedibilità sarebbe provata sia dall'asserita mancanza di significative reazioni agli attacchi partigiani già condotti in precedenza nella stessa Roma (a cui assimilano l'azione del 23 marzo tendendo a ridimensionare le specifiche particolarità di quest'ultima)<ref>{{cita|Battaglia 1964|p. 224}}.</ref><ref>{{cita|Katz 1968|p. 237}}: «qualsiasi azione partigiana, fra le cento compiute a Roma, avrebbe potuto avere per conseguenza l'eccidio delle Ardeatine».</ref><ref>{{cita|Portelli 2012|pp. 150-1}}.</ref>, sia dal non rinvenimento di leggi di guerra od ordinanze tedesche che, nel caso di attentati subiti per mano di forze irregolari, prevedessero rappresaglie rigorosamente nella forma dell'esecuzione di un preciso numero di ostaggi per ogni militare ucciso<ref>{{cita|Peli 2014|pp. 259-60}}.</ref>.
 
Al contrario, altri autori hanno individuato proprio nella volontà di scatenare una prevedibile reazione tedesca, violenta al punto da indurre la popolazione a schierarsi attivamente contro gli occupanti, uno dei motivi che spinsero i partigiani comunisti a effettuare, nel pieno centro di Roma, un attacco che giudicano di portata senza precedenti<ref>{{cita|Andrae 1997|p. 120}}.</ref>. Formulata inizialmente per affermare la "moralità rivoluzionaria" della generale strategia dei GAP<ref>{{cita|Bocca 1996|pp. 165-6}}: {{citazione|i comunisti lo sanno bene, il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell'occupante ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie, per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell'odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce. I comunisti la ritengono giustamente necessaria e sono gli unici in grado di impartirla, subito.}} Nel formulare tale giudizio, Bocca non fa specifico riferimento all'attentato di via Rasella ma si riferisce genericamente al «terrorismo ribelle», categoria in cui include il principale attentato compiuto dai GAP romani, definendolo più avanti «il maggiore atto del terrorismo partigiano» (p. 329).</ref>, la tesi della rappresaglia cercata è stata in seguito proposta soprattutto dai loro critici, i quali ne hanno rilevato l'attitudine ad anteporre il raggiungimento dei propri obiettivi alla sorte della popolazione e dei prigionieri<ref>{{cita|Pezzino 2007|p. 170}}.</ref><ref>{{cita|Bennett 1999|pp. 137-9}}.</ref>. La prevedibilità di una dura rappresaglia sarebbe derivata da una generale notorietà della condotta degli eserciti di occupazione, compreso quello italiano, i quali in circostanze analoghe avevano già fatto abbondantemente ricorso a tale pratica su tutti i fronti del conflitto<ref>{{cita audio|autore=[[Leo Solari]]|titolo=Intervento alla presentazione del saggio di Alberto ed Elisa Benzoni|url=http://www.radioradicale.it/scheda/111306/111853-attentato-e-rappresaglia-il-pci-e-via-rasella-presentazione-del-libro-di?p=0&s=2947|accesso=12 gennaio 2018|data=30 aprile 1999|editore=[[Radio Radicale]]|minuto=49|secondo=07|citazione=[...] Non era neppure immaginabile che un'azione come quella di via Rasella non trovasse una risposta terribile. Assurdo. È incredibile che si siano susseguite versioni con le quali si pretende di non aver pensato che potesse esserci una rappresaglia. La guerra durava da cinque anni, si sapeva quali erano le feroci regole che valevano nei territori dove era in atto la guerriglia. Le avevamo applicate noi italiani, noi stessi, in Jugoslavia, non di rado con estrema durezza perché il rapporto di uno a dieci è stato applicato sistematicamente in territori occupati da noi. Per non parlare poi delle selvagge rappresaglie da noi compiute in Libia e in Etiopia. Non ci si poteva attendere che i tedeschi si dimostrassero più moderati di noi. Penso che non abbia senso negare l'esistenza di una consapevolezza dell'inevitabilità di una reazione all'attentato. Si vorrebbe attribuire ai promotori e agli autori dell'attentato un eccezionale grado di sprovvedutezza, che certamente non era concepibile in uomini come loro, alcuni dei quali ben informati sulle regole seguite dagli eserciti di occupazione nella lotta contro i partigiani. E non ha senso negare questa consapevolezza anche perché la logica [...] della lotta partigiana implica la previsione della rappresaglia. Senza l'accettazione di quella prospettiva l'azione dei partigiani non può esistere}}</ref>{{#tag:ref|{{cita|Portelli 2012|p. 400}}, osserva criticamente che i «massacri commessi dalle forze armate italiane sono spesso richiamati come giustificazione comparativa di quello delle Fosse Ardeatine [...]. Tuttavia, le atrocità italiane e alleate non vengono invocate a fini di giustizia ma ai fini di un'assoluzione generale, in una specie di gigantesca chiamata di correo».|group=N}}. Alcuni di questi autori ritengono che, anche in assenza di precise disposizioni e di proclami, fossero inoltre prevedibili sia la specifica forma assunta dalla rappresaglia (esecuzione di prigionieri), sia la sua eccezionale portata (da rapportare a quella dell'attentato). Sarebbe infatti bastato, secondo tali storici, osservare la condotta tenuta dai tedeschi nella stessa Roma nelle settimane e nei mesi precedenti, allorché, in seguito ad alcuni attentati ai danni di uno o più dei loro soldati, avevano reagito [[martiri di Forte Bravetta|fucilando a Forte Bravetta]] gruppi di una decina di prigionieri, in genere prelevati da via Tasso<ref>{{cita|Benzoni 1999|pp. 78-87}}.</ref><ref>{{cita|Staron 2007|pp. 39-43}}.</ref>.
 
Secondo altri autori, i criteri con cui i GAP condussero la lotta contro i nazifascisti furono quelli di accettare «la logica della guerra totale» attaccando «con tutti i mezzi, dovunque fosse possibile, senza farsi intimidire dalla minaccia delle rappresaglie»<ref>Cfr. {{cita|Forcella 1999|p. 172}}.</ref>. Alcuni di questi autori ammettono che i GAP debbano aver saputo che la loro azione avrebbe provocato una rappresaglia, ma respingono la tesi secondo cui la causazione di questa rappresaglia abbia costituito uno dei fini dell'attentato; secondo tali storici, la linea politica dei partigiani comunisti consisteva nell'agire nonostante la minaccia delle rappresaglie, non invece con lo scopo di causarle, considerando quindi queste ultime non già come un'opportunità bensì come un rischio che non doveva impedire la conduzione di una decisa lotta partigiana<ref>{{Cita|Broder 2017|p. 151}}.</ref><ref>{{Cita|Ranzato 2019|capitolo VI}}.</ref>{{#tag:ref|Portelli, sostenitore della tesi per cui l'eccidio delle fosse Ardeatine sarebbe stato imprevedibile, ha anche sostenuto che dalla tesi contraria, secondo cui i partigiani «avrebbero dovuto sapere che ci sarebbe stata una rappresaglia», non deriva logicamente che questi ultimi abbiano «agito con l'intenzione di provocarla». Cfr. Alessandro Portelli, ''L'uso mitico della storia: varianti delle Fosse Ardeatine'', in {{cita|Caffiero, Procaccia 2008|p. 176}}.|group=N}}.