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(LIJ)

«...bacan d'a corda, marsa d'aegua e de sä,
che a ne liga e a ne porta 'nte 'na creuza de mä»

(IT)

«..padrone della corda, marcia d'acqua e di sale,
che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare»

Alfreddo/Sandbox
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Creuza de mä (1984) è l'undicesimo album registrato in studio di Fabrizio De André. È stato ed è considerato da parte della critica una delle pietre miliari della musica degli anni ottanta.[a]

Il disco

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Tutte le canzoni, scritte e composte da De André e da Mauro Pagani (ex PFM), sono interpretate in dialetto genovese (in realtà un genovese antico e ricco d'influenze mediterranee, infatti il disco ebbe difficoltà di comprensione linguistica persino tra gli stessi genovesi): si tratta di una scelta che andava, nel 1984, contro tutte le regole del mercato discografico e che - contro tutte le aspettative - ha segnato il successo di critica e di pubblico del disco, che ha, infatti, indubbiamente segnato una svolta nella musica italiana.

Al centro dei testi del disco ci sono i temi del mare e del viaggio, temi che le canzoni del disco contribuiscono ad esprimere anche sotto l'aspetto musicale grazie a contributi audio registrati al mercato del pesce di Piazza Cavour a Genova[1] e ai suoni di strumenti etnici dell'area mediterranea.

Il titolo dell'album e della canzone principale fa riferimento alla creuza, termine che in dialetto genovese significa sentiero o mulattiera di mare, cioè un elemento urbanistico simile al caratteristico caruggio del centro storico genovese, ma qui riferibile prevalentemente al tipico paesaggio costiero ligure, ricco di passaggi tra la spiaggia ed il primo entroterra.

La genesi

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Le esperienze precedenti

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Creuza, uno dei punti di svolta nella lunga e variata carriera di De André, giunge dopo più di vent'anni di un percorso musicale caratterizzato da innumerevoli influssi e frequenti cambiamenti di stile: dai legami con la tradizione trobadorica e francese degli esordi alle contaminazioni sinfoniche dei suoi primi concept, dall'amore per poesia in musica di Cohen ai recenti dischi di matrice angloamericana (1974/1981) frutto delle collaborazioni con Francesco De Gregori e Massimo Bubola, che lo avevano avvicinato a sonorità intimamente legate al folk anglosassone dylaniano e a stilemi blues-rock.

Tuttavia il cantautore aveva avuto esperienze con musica popolare e dialettale di tradizione mediterranea già nel 1972, quando compose le musiche dei brani in dialetto genovese A famiggia di Lippe e Ballata triste per il cantautore folk genovese Pietro Parodi; conobbe inoltre il poeta dialettale genovese Mario Tortora e si interessò alla ricerca dell'etnomusicologo Edward Neill[2] sulle tradizioni musicali liguri. Fabrizio dimostrò grande interesse per la cultura ligure, che si concretizzò in lunghi studi, compiuti tra vecchi testi e interviste agli anziani della Foce (il quartiere di Genova dove abitava Fabrizio), alla ricerca di antiche tradizioni e racconti popolari.

Attraverso le sue ricerche De André si convinse della mancanza di un vero contatto tra la musica folkloristica che allora era diffusa e la reale tradizione popolare genovese, soprattutto a causa dell'introduzione di temi musicali lombardi e piemontesi, oltre a valzer e tanghi adottati per il mercato degli emigranti in Sudamerica; proprio in relazione con le sonorità sudamericane nacque negli anni sessanta un nuovo filone compositivo che, sfruttando l'assonanza tra genovese e portoghese, utilizzava ritmi brasiliani per musicare testi dialettali, allontanando in questo senso ancor di più la musica dalla tradizione ligure.

 
Gallura, scorcio di un'insenatura

Fabrizio si persuase dunque dell'esistenza di due livelli di musica popolare: quella che chiama "musica folkloristica" in realtà è musica tesa al consumo delle classi elevate, mentre la "musica etnica" è la musica interna al popolo, realizzata per il divertimento del popolo stesso.[3]

Con il trasferimento in Gallura, presso Tempio Pausania, durante la prima metà degli anni '70, De André ebbe l'occasione di di avere una visione più ampia sulle tradizioni popolari: l'impatto della cultura sarda si manifestò nell'uso del gallurese nel Baddu tundu Zirichiltaggia (1978), dove il testo dialettale si sposa con la square dance americana[4], e in Ave Maria (1981), canto popolare adattato e arrangiato da Mark Harris in chiave rock.

Nonostante l'interesse per il patrimonio culturale popolare, probabilmente perché (a detta dello stesso De André) i tempi non erano sufficientemente maturi, Fabrizio non prese mai seriamente in considerazione l'idea di comporre un album in dialetto; decisivo in tal senso fu l'incontro fortuito con Mauro Pagani, nel 1981.

L'idea e il "cosa"

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«La cosa più importante per lui, la prima in assoluto, era la scelta di "cosa" raccontare. Non lo stile musicale, gli arrangiamenti o quant'altro, ma "dove andiamo, di chi parliamo".»

 
Barca a Djerba

Fabrizio ebbe occasione di incontrare nuovamente Mauro Pagani durante la registrazione dell'Indiano (Pagani aveva già collaborato con Faber come flautista ne La buona novella), proprio mentre Mauro registrava Sogno di una notte d'estate; nacque l'idea di un tour assieme. Mauro, dopo aver lasciato la PFM, aveva cominciato un percorso di ricerca etnico-musicale interno all'area mediterranea e in particolare mediorientale, convinto della necessità di sfruttare maggiormente le tradizioni locali piuttosto che il blues americano o la classica, soffermandosi anche sull'utilizzo della strumentazione etnica.

L'idea di un'opera "etnica" sfiorava da tempo anche Faber: nacque tra i due un progetto che intendeva staccarsi nettamente da tutte le sovrastrutture "folkloristiche" per riportarsi completamente alla struttura etnica e popolare del bacino mediterraneo, abbracciando le radici popolari "dal Bosforo a Gibilterra".

«Si è trattato della fusione del lavoro di due etnologi: Pagani quello musicale, ed io quello delle lingue. Abbiamo passato un'estate insieme a studiare, poi ci siamo visti per tre mesi nel suo studio, lui col bouzouki e io con la penna...»

Pagani e la musica

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«All'inizio del lungo viaggio di Creuza de ma l'unica cosa che ci era chiara è che volevamo fare un viaggio da sud a est. I primi pezzi furono scritti nella convinzione che sarebbero stati scritti in una lingua strana e da inventare, l'affascinante impasto di mille idiomi di un marinaio lontano da casa da troppo tempo, imbarcato da sempre su navi di ogni bandiera. Eravamo fortunati, l'idea era meravigliosa, ci offriva mille possibilità, inclusa però quella di perderci lontano, in una sorta di limbo letterario senza emozioni e senza identità.»

 
Un tipico edificio greco
Quasi un anno di lavoro
arabo? lingua?
strumenti
strumenti elettronici

Un'altra grande sfida per fu quella di riuscire a conciliare le sonorità etniche con gli strumenti elettronici come il Synclavier ("Un'intera sezione di archi ci sarebbe costatata un occhio della testa con risultati poi del tutto simili" [7]), i quali posseggono tuttavia, secondo lo stesso De André, la straordinaria capacità di "rendere, da un punto di vista visivo, quello che invece sei costretto solo ad ascoltare" [8]:

«"Laddove abbiamo utilizzato strumenti elettronici abbiamo cercato di creare delle atmosfere che riuscissero a far immaginare questa visualizzazione. [...] Ed erano nebbie marine, vapori di mare, di distese d'acqua."»

Il lavoro a quattro mani

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«la prevalenza letteraria è mia e quella musicale di Mauro. Però ogni parola scritta la sottoponevo al suo giudizio e lo stesso lui faceva per me con la musica: in realtà si è trattato di un lavoro di équipe iniziato in due e poi esteso ai sedici strumentisti che via hanno preso parte»

Le registrazioni avvennero a Milano nel piccolo studio casalingo di Pagani, chiamato scherzosamente da Mauro "Felipe Studio" in onore del proprio gatto, a partire dal torrido agosto del 1983, e si protrassero per oltre due mesi. I lavori si spostarono poi al Castello di Carimate, dove vennero ultimate le registrazioni ed effettuati i missaggi, e si conclusero il 23 dicembre.[12]

La scelta del dialetto

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«Faber si portò via il nastrino dei provini cantato da me in un arabo maccheronico, ci rimuginò sopra un paio di settimane e poi un giorno venne a trovarmi e mi disse: "questa roba io la posso scrivere solo in genovese e cantare solo in genovese".

Questa intuizione così coraggiosa rappresentò di fatto la vera svolta del disco. Tutto insieme si definì il "dove", il "cosa", il "come". Il viaggio immaginario era diventato di colpo reale e vivido, la musica abito naturale di ricordi, cronache e leggende di un passato neanche tanto lontano. In una settimana Faber aveva già trovato tutti i personaggi, tutte le città in cui fare scalo, e soprattutto un passo narrativo degno dei più grandi cantastorie»

La meta che la coppia si era proposta di raggiungere prevedeva l'utilizzo di una lingua dotata di una sonorità che, già al primo ascolto, rimandasse all'idea di Mediterraneo e che si fondesse armonicamente col suono degli strumenti di Mauro. Le melodie furono scritte in una strana specie di esperanto che univa arabo e idiomi della penisola italiana, ma la soluzione era solamente provvisoria, poiché Faber intendeva utilizzare una lingua di cui conoscesse i segreti, i suoni e la pronuncia; fu per questo motivo che la prima opzione, il gallurese, venne scartata: sebbene abitasse da circa dieci anni in Sardegna, De André non riteneva di avere sufficiente padronanza dell'idioma locale. È possibile tuttavia udire traccia di questo dialetto nel ritornello del brano Creuza de mä.

La coraggiosa scelta di interpretare i testi del disco in dialetto poggia principalmente su due motivi, uno legato alla valenza "mediterranea" del dialetto ligure, l'altra alla sua versatilità poetica e la libertà lessicale, ma vi è anche una valenza politica.

«Ho usato la lingua del mare, un esperanto commerciale con molte radici arabe e occitane, che tutti capivano, dal Bosforo a Gibilterra. Le parole hanno il ritmo della voga, del marinaio che tira le reti e spinge sui remi.

Ho voluto raccontare Genova che commerciava con i saraceni, che trasportava i crociati in Terrasanta senza smettere i traffici con gli infedeli»

L'utilizzo del genovese nell'opera ebbe una precisa valenza politica, coerente col pensiero deandreiano, ovvero quella della salvaguardia degli idiomi particolari e della loro dignità. Le lingue locali, nella visione di De André, hanno una funzione di fertilizzante, di nutrimento nei riguardi della lingua nazionale, che altrimenti rischia di perdere la sua vivacità e bellezza, e di diventare una lingua fredda e commerciale come avvenuto per l'inglese.

D'altro canto, lingua e dialetto...

La pronuncia

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Tuttavia il dialetto utilizzato da De André risultò di difficile comprensione persino agli stessi genovesi: la dizione, infatti, suonava "strana" alla gente di Genova; lo stesso Beppe Grillo lo canzonava bonariamente per la sua pronuncia degli accenti aperti e chiusi, il cui scambio, in genovese, va spesso a cambiare il significato della parola (ad esempio pégua è la pecora, mentre pègua è il paracqua).

De André si scusò sostenendo che il motivo era la sua lontananza da Genova; in più Fabrizio si era formato nell'ambiente dell'alta borghesia, con genitori non liguri e non dialettofoni, e aveva appreso il dialetto insieme agli amici tra i vicoli della città vecchia, come una sorta di trasgressione.

Le scelte lessicali

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«Ho cercato di usare il più possibile il dialetto genuino»

Ad aumentare il distacco dal genovese corrente, che Faber riteneva ironicamente "napoletanizzato", ci fu la scelta di utilizzare il genovese del 1700, scevro da italianizzazioni e più simile alla lingua panmediterranea che Fabrizio intendeva usare per il suo progetto.

Le scelte linguistiche

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«Il dialetto rende saporite anche le bestemmie più limpide»

«Non ho avuto paura del dialetto perché mi suona bene e mi piacciono le parole in disuso. E poi la libertà del linguaggio. La gente di Genova, dal gran signore al pescivendolo, è abituata a usare tutte le parole del vocabolario. Il disco ha avuto per me un senso liberatorio. Ho potuto dire quello che volevo, esprimermi usando termini precisi, senza paura che fossero giudicati sconci o triviali. [...] Mi sono liberato dal problema di parlare una lingua aulica come l'italiano. E poi non avevo i limiti imposti dalla metrica.»

La voce

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canto

La parola stessa, cantata in una certa maniera, è musica essa stessa

 
Una creuza de mä
  1. Creuza de mä - 6:16
  2. Jamin-a - 4:52
  3. Sidún - 6:25
  4. Sinàn Capudàn Pascià - 5:32
  5. Â pittima - 3:43
  6. Â duménega - 3:40
  7. D'ä mê riva - 3:04

Le canzoni

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Creuza de mä

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È la canzone d'apertura e dà il titolo all'album. La creuza de mä nel genovesato sarebbe una mulattiera, una strada collinare che solitamente delimita i confini di proprietà e porta verso il mare, la traduzione esatta è infatti "mulattiera di mare".

Il disco comincia con un lungo assolo di gaida della Tracia, la cornamusa più diffusa del bacino mediterraneo, che De André aveva scelto nella folta collezione di musiche mediterranee a casa di Mauro.[14] Fabrizio optò proprio per la gaida perché, dati la sua diffusione e il suono inconfondibile, «ha la funzione di banditore, come a dire: "Signori, si va a raccontare una storia sul mediterraneo"».[7]

La gaida lascia spazio ad un re basso e prolungato, che introduce la tonalità della canzone; il brano è guidato in prevalenza dai suoni di due liuti, il bouzouki greco e la viola a plettro. Il testo è incentrato sulla figura dei marinai e sulle loro vite da eterni viaggiatori, e racconta il loro ritorno a riva dopo la nottata passata al largo a pesca; De André parla delle loro sensazioni e delle loro paure, della sete di mare e della loro voglia di terra, di questo eterno andare e venire. Il ritornello è cantato in gallurese, a sottolineare la visione mediterranea e non solo genovese del disco.[14]

«Cos'è il ricordo in Creuza? Sono gli aromi, il sapore di un pasticcio in agrodolce di gatto (spacciato per lepre[15]), il bianco di Portofino; il volto color seppia, indelebile, di chi è rimasto a casa. Ossa, anima e cuore stesi a terra ad asciugare»

Terminano il brano le voci dei venditori al mercato del pesce di Piazza Cavour, a Genova, che "cantano" anch'esse in tonalità di re, fondendosi perfettamente con la canzone.

 
Dettaglio di un oud, strumento a corda di tradizione araba

Jamin-a

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Tra le canzoni più "spinte" e sensuali di Fabrizio De André, è un vero e proprio inno o elogio dell'erotismo, impersonato dalla "lupa di pelle scura" Jamin-a, capace di fare l'amore in modo travolgente e quasi insaziabile. Voglia d'amore che però racchiude qualcosa di più elevato e spirituale, come se l'unirsi dei due corpi sottintenda qualcosa di più d'un semplice atto fisico.

«... Jamin-a non è un sogno, ma piuttosto la speranza di una tregua. Una tregua di fronte a un possibile mare forza otto, o addirittura ad un naufragio. Voglio dire che Jamin-a è un'ipotesi di avventura positiva che in un angolo della fantasia del navigante trova sempre e comunque spazio e rifugio. Jamin-a è la compagna di un viaggio erotico, che ogni marinaio spera o meglio pretende di incontrare in ogni posto, dopo le pericolose bordate subite per colpa di un mare nemico o di un comandante malaccorto»

Il brano, accompagnato da un oud, un liuto arabo, è solcato dal suono serpeggiante dello shanai, un oboe di origine turca, mentre scandisce il ritmo uno zarb turco, un piccolo tamburo a forma di calice dalle lontane origini persiane.

Brano di eccezionale bellezza, una delle perle artistiche di Fabrizio De André. Il testo, poetico e struggente, mostra lo strazio di un padre di fronte alla morte violenta, in guerra, del proprio figlioletto e può essere considerato un bellissimo inno contro la stupidità e l'inutilità di tutte le guerre.

"Sidùn" è la città di Sidone, in Libano, teatro, all'epoca della stesura del disco, di ripetuti massacri durante la guerra civile che sconvolse il paese (campo di battaglia di Siria e Israele) dal 13 aprile 1975 fino al 1991. A farne le spese fu in massima parte la popolazione civile, soprattutto i numerosissimi rifugiati palestinesi.

 
Sidone, la città vecchia

«Sidone è la città libanese che ci ha regalato oltre all’uso delle lettere dell'alfabeto anche l'invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l'attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz'età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. Un grumo di sangue, orecchie e denti di latte, ancora poco prima labbra grosse al sole, tumore dolce e benigno di sua madre, forse sua unica e insostenibile ricchezza.
La piccola morte, a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea.»

Proprio per sottolineare la stretta relazione con gli avvenimenti che allora scuotevano il Medio Oriente, la canzone è introdotta dalle voci di Ronald Reagan e Ariel Sharon, alle quali fa da sfondo il rumore dei carri armati. [16] Il modulo compositivo della canzone rispecchia le strutture musicali libanesi e curde.

Andalusian classical music
 
Il cicala

Sinàn Capudàn Pascià

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Il pezzo narra la storia, vera, di un marinaio della flotta di Genova, chiamato Cigala, catturato dai Mori durante uno scontro navale e in seguito diventato Gran Visir per aver salvato la vita al sultano col nome di Sinan Capudan Pascia.

El Hajj Muhammad El Anka

 pittima

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 pittima rappresentava, nell'antica Genova, la persona a cui i privati cittadini si rivolgevano per esigere i crediti dai debitori insolventi. Il compito della pittima era di convincere, con metodi più o meno leciti, i debitori a pagare; ancora oggi a Genova la parola è sinonimo di persona insistente, noiosa, appiccicosa.[1]

«Il personaggio è la risultante di un'emarginazione sociale, almeno come io lo descrivo, dovuta principalmente alle sue carenze fisiche. "Cosa ci posso fare se non ho le braccia per fare il marinaio, se ho il torace largo un dito, giusto per nascondermi con il vestito dietro ad un filo": questo è il lamento di chi è stato costretto da una natura tutt'altro che benevola a scegliersi, per sopravvivere, un mestiere sicuramente impopolare. [...] Così ho immaginato la mia pittima, come un uccello che non riesce ad aprire le ali, ed è destinato a nutrirsi dei rifiuti dei volatili da cortile.»

L'incedere lento ed oscillante del protagonista è reso sonoramente con l'uso di un flauto traverso e un flautino a canna, accompagnati da un bouzouki.

 
Genova, vista del porto antico

 duménega

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«Fabrizio: Lì è stata la forza di Pagani: "Adesso scrivo un pezzo alla De André", e ti esce fuori con  duménega.
Mauro: Io ho fatto  duménega avvertendo Fabrizio che la gente avrebbe detto: "Eh, questo è il Fabrizio di una volta!"»

Al pezzo, scritto in 6/8, tempo di ballata popolare, contribuiscono un mandolino classico e uno elettrico; quest'ultimo è suonato da Franco Mussida, chitarrista della PFM, che esegue anche, sul finale, un assolo di chitarra andalusa.

Il brano racconta in maniera ironica il "rito" della passeggiata domenicale che il comune di Genova concedeva un tempo alle prostitute, per tutta la settimana relegate a lavorare in un quartiere della città prestabilito. De André riporta le scenate dei cittadini al passaggio di queste prostitute e descrive le reazioni dei vari personaggi, tutti accomunati dal finto moralismo: da chi grida loro qualsiasi epiteto salvo poi frequentarle durante la settimana, al proprietario del molo, felice di tutto quel ben di Dio a passeggio che porta tanti soldi nelle casse del Comune, favorendo la ristrutturazione del molo stesso (giacché il Comune di Genova con i ricavi degli appalti delle case di tolleranza sembra riuscisse a coprire per intero gli annuali lavori portuali[1]) ma le insulta comunque "per coerenza", al rozzo bigotto, che, per legge di contrappasso, mentre sbraita contro le prostitute vede tra quelle la propria moglie.

D'ä mê riva

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Il brano chiude idealmente il discorso sull'eterno viaggiare dei marinai aperto ad inizio album con "Creuza de mä". Qui infatti vediamo un marinaio al momento della ripartenza per un nuovo viaggio salutare con un triste canto d'addio l'innamorata che lo guarda dal molo e la sua città, Genova.

«Quando un navigante abbandona la banchina del porto della città in cui vive arriva il momento del distacco dalla sicurezza, dalla certezza, sotto specie magari di una moglie, custode del talamo nuziale, agitante un fazzoletto chiaro e lacrimato dalla riva; il distacco dal pezzetto di giardino, dall'albero del limone, e, se il navigante parte da Genova, sicuramente dal vaso di basilico piantato lì sul balcone [...] .
È un momento sottilmente drammatico, un momento che si vive come accecati da un controsole, e che suscita la nostalgia nel momento stesso in cui l'imbarcato fa l'inventario del suo baule da marinaio preparatogli dalla moglie: tre camice di velluto, due coperte, il mandolino e un calamaio di legno duro [...] .
[Della] compagna della vita resta al marinaio soltanto una fotografia di quando lei era ragazza, una fotografia sbiadita in fondo ad un berretto nero, per poter baciare ancora Genova sull'immagine di una bocca che io definisco "in naftalina".»

È lo stesso De André che suona il delicato arpeggio con una chitarra ottava, una piccola chitarra con le corde di ferro accordata un'ottava sopra la chitarra comune.

Crediti

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Musicisti

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Riconoscimenti

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L'impatto culturale

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  • L'album sarà reinterpretato nel 2004 da Mauro Pagani, rinnovandone l'arrangiamento e aggiungendo quel tocco di esotismo che caratterizza la sua musica: oltre alle tracce già presenti nel disco originale, in 2004 Creuza de mä sono contenute Al Fajr, introduzione vocalizzata nello stile dei canti sacri della Turchia, Quantas Sabedes, Mégu Megùn, contenuta nel disco di De André Le nuvole e Nuette, opere mai pubblicate a nome "De André".
  1. ^ a b c Note presenti sul disco
  2. ^ Cenni biografici su Edward Neill
  3. ^ Luciano Lanza. Intervista a Fabrizio De André (1993)
  4. ^ Marco Mangiarotti. Suonate le trombe, è tornato De André. Intervista da "Corriere della sera illustrato", 6 maggio 1978. [1]
  5. ^ a b c Mauro Pagani. Il sentiero delle parole, in AA.VV. Deandreide. Milano, BUR, 2006.
  6. ^ Carlo Silvestro. Io, Fabrizio De André. Intervista da "Frigidaire", maggio 1984. [2]
  7. ^ a b Flavio Brighenti. Il poeta genovese stavolta canta Genova ma solo in genovese. Intervista da "Il lavoro", 2 marzo 1984. [3]
  8. ^ Doriano Fasoli. Un sogno mediterraneo. Intervista da "Il manifesto", 24 aprile 1984. [4]
  9. ^ Intervista con Fabrizio De André. Intervista da "Musica", 1 maggio 1984. [5]
  10. ^ Note del disco Sogno di una notte d'estate
  11. ^ a b c Walter Gobbi. Il cantautore ha un cuore antico. Intervista da "Tutto", 1 giugno 1984. [6]
  12. ^ Riccardo Bertoncelli, Intervista a Mauro Pagani, in Belin, sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De André, 1ª ed., Giunti, 2003, ISBN 978-88-09-02853-1.
  13. ^ Marco Mangiarotti. Sulle mulattiere del mare. Intervista da "Il giorno", 1 marzo 1984. [7]
  14. ^ a b c Giancarlo Susanna. Un viaggio nel sole e nell'azzurro del mediterraneo - Intervista a Fabrizio De André e Mauro Pagani. Fare Musica, 1 giugno 1984 [8]
  15. ^ a b c d e Creuza de mä - Incontro con Fabrizio De André, film-documentario di Mixer (1984) commentato dallo stesso De André. prima parte
  16. ^ Canzoni contro la guerra - Sidún
  17. ^ jaymaisel.com - Roof Line
  18. ^ [9]
  19. ^ [10]

Collegamenti esterni

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