Vetro e vetrai di Altare

Voce principale: Altare (Italia).

Origini dell'arte vetraria altarese e primi sviluppi modifica

Secondo una radicata e costante tradizione orale[1], l'arte del vetro fu anticamente introdotta ad Altare[2]da una comunità benedettina che, rilevate qui le condizioni naturali idonee, si racconta avrebbe richiamato dal nord della Francia ( Normandia o Bretagna)[3] alcuni esperti artigiani[4]. Un confronto con i dati archivistici in seguito acquisiti non infirma quanto riferito.

Sull'isola di Bergeggi (Insula Liguriae), presso la chiesetta voluta dalla devozione popolare sul sepolcro di Sant'Eugenio, il vescovo di Savona Bernardo, nel 992, fece costruire un cenobio affidandone la cura a monaci benedettini chiamati dall'abbazia di Saint-Honorat (isole provenzali di Lérins). L'atto relativo è tramandato dal cronista savonese G.V. Verzellino (1562-1638) “non per esteso – rileva Valeria Polonio – ma in abbondante regesto, con tali particolari da garantirne l'autenticità”[5].

Tra il 1124 e il 1134 le terre di Altare – allora pertinenti alla diocesi di Alba – furono donate dal vescovo Rimbaldo ai cenobiti lerinesi di Sant'Eugenio e una bolla di Papa Innocenzo II in data 20 febbraio 1141 ne confermò loro il possesso.[6][7]L'insediamento benedettino ad Altare va pertanto inquadrato storicamente in tale contesto.

È opportuno qui ricordare come dall'Alto Medioevo sia le fonti scritte che i dati archeologici testimonino in Occidente di stretti rapporti intercorsi tra i centri di produzione vetraria e i monasteri, dove si iniziò a far uso di vetro per le finestre abbaziali. Scrive in proposito Francesca Dell'Acqua[8]:

«Poiché tra tarda antichità e primo Medioevo la produzione di vetro e vetrate appare vincolata alla domanda ecclesiastica, soprattutto monastica, è molto probabile che tale manifattura si fosse trasmessa proprio nei monasteri. Il maggior numero di vetrai noti attraverso fonti di età carolingia e ottoniana (IX – XI secolo) risultano vincolati a insediamenti monastici d’oltralpe, spesso come factotum ai quali è demandata anche la manutenzione delle finestre.»

Relativamente al sud-est della Francia, Danièle Foy[9] formula analoghe considerazioni:

«L'importanza del ruolo delle comunità religiose nello sviluppo dell'arte vetraria è qui nettamente affermata [...]Tale situazione -osserva più generalmente l'autrice - è d'altronde presente in tutte le regioni, dove si riscontra che le più antiche officine vetrarie gravitano sempre attorno a monasteri. La chiesa e l'autorità signorile, principali proprietari delle foreste, incoraggiarono la fondazione di vetrerie per diverse ragioni. I religiosi erano direttamente interessati alla produzione di vetro in quanto artigiani o proprietari della fornace, e probabilmente anche in quanto consumatori (gli inventari segnalano presso di loro una grande quantità di vetri), essi si proposero poi la promozione di quest’arte così come di altre attività.»

Se i rari frammenti di documentazione pervenutici non forniscono per Altare indicazioni circa un'immigrazione di vetrai d'oltralpe, più in generale si può tuttavia osservare che l'importante azione economica svolta anticamente dal monachesimo anche attraverso la promozione di iniziative pre-industriali non di rado si avvalse proprio dell'apporto di maestranze allogene. È il caso del monastero di Braunau (Austria) che verso la metà del XIII secolo attirò nei suoi possessi un'immigrazione di tessitori fiamminghi[10]. Va infatti considerato che lavorazioni complesse sul piano tecnico e organizzativo – quale appunto quella vetraria – difficilmente avrebbero potuto svilupparsi senza il concorso di artigiani altamente specializzati[11], per cui, se la carenza documentaria non consente di suffragare – o escludere – quanto riferito in merito dalla tradizione altarese, un fondamento di carattere analogico è comunque rintracciabile nelle vicende storiche del lavoro monastico. Un'immigrazione di vetrai francesi ad Altare potrebbe poi bene inquadrarsi in quel contesto di grande mobilità sociale – conseguente all'incremento e alla pressione demografica – manifestatasi nel'Occidente europeo approssimativamente tra la metà dell'XI secolo e quella del XIII[12] (mobilità peraltro già storicamente peculiare a questa categoria artigiana). Riferisce in particolare J. Le Goff[13] che una dinamica migratoria dal nord della Francia verso l'Italia settentrionale (così come verso altre regioni europee) risulti – a quell'epoca – rilevante:

«[...] Ma se è noto - egli afferma - che questi Francesi si diressero in forze verso il sud-ovest, verso la Linguadoca e, soprattutto, oltre i Pirenei, verso la Spagna, e contribuirono non solo alle Crociate in Terra Santa ma anche al popolamento degli stati latini del Vicino Oriente, quanti sanno che i Francesi espatriarono in massa anche verso l'Italia del nord e i paesi cristiani del sud-est? A Modena all'inizio del secolo XII, esiste ad esempio una colonia francese o normanna che gode di uno statuto speciale – vive “sotto la legge salica” – mentre il resto della popolazione vive “sotto la legge romana"»

Relativamente alla prima metà del XIII secolo si ha poi notizia di migrazioni di famiglie “vetrarie” francesi in Inghilterra e, nel 1226, vi giunge dalla Normandia un Laurence vitrearius cui vengono concessi terreni in donazione[14]. Almeno a tutt'oggi non risulta trovino fondati riscontri le pur interessanti ipotesi espresse circa una derivazione mediorientale (Palestina, Libano o Siria) dell'arte vetraria altarese: conseguente – secondo alcuni autori – ai rapporti intrattenuti, nel corso del XII secolo, dai marchesi aleramici con queste regioni; riconducibile – per altri – ad un ampio movimento migratorio di artigiani ebrei, avviatosi dal II secolo contestualmente alla Diaspora. Sembrerebbe peraltro improbabile che in un piccolo, isolato borgo rurale, eventi di tale eccezionalità e portata abbiano potuto non trovare eco nella memoria storica locale, né lasciare influssi di carattere linguistico o culturale.

Sulla base di quanto riportato, potremmo dunque ragionevolmente ipotizzare attorno alla metà del XII secolo l'insediamento ad Altare delle prime fornaci da vetro. Le fonti archivistiche sembrano avvalorare tale assunto: nel maggio 1178 un Petrus vitrearius e nel dicembre 1179 un Nicola vitrearius sono menzionati in un cartulario notarile savonese dell'epoca[15]. Pur in assenza di indicazioni circa l'origine e lo specifico ruolo di questi vetrai (se si trattasse cioè di produttori o di semplici commercianti di vetro), la loro presenza nell'area geografica savonese appare riconducibile alla presunta attività economica di Altare, che nella città costiera trova il suo naturale e più immediato sbocco commerciale. Per quell'epoca infatti non è dato disporre di concreti elementi che attestino – o semplicemente lascino ipotizzare – esperienze locali di arte vetraria in sede diversa da Altare, mentre le dimensioni dell'economia savonese paiono d'altro canto escludere una specifica commercializzazione di manufatti vitrei, se non provenienti da un'area circostante di produzione.[16] È significativo al riguardo che nella stessa Genova, da ben più cospicue fonti archivistiche, non risulti allora alcuna presenza vetraria.

Nulla conosciamo in merito alla primitiva evoluzione di questa attività economica nel Savonese. È comunque interessante notare come nel frattempo vetri d'uso comune compaiano in inventari notarili locali, seppure sporadicamente, e di ciò sia riscontro nella documentazione materiale recentemente acquisita dalle indagini archeologiche[17].

L'ubicazione geografica del borgo in una zona rurale ad alta densità boschiva, la presenza di formazioni di quarzite e la vicinanza di sbocchi portuali erano tutte condizioni favorevoli all'esercizio di un'attività vetraria che, dalla seconda metà del ‘200, conoscerà progressivi sviluppi[18] attirando un considerevole afflusso d'immigrazione artigiana dal Genovesato, dalla Toscana e, si tramanda, anche da Venezia. I Ferro, i Bertoluzzi e i Marini -secondo A. Gasparetto - furono tra le prime famiglie veneziane immigrate ad Altare[19]. Ciò viene a comportare per i maestri altaresi l'acquisizione di nuove tecnologie di lavoro e un eclettismo espositivo che, nei secoli successivi, permetterà loro d'esportare lo stile italiano in tutto l'Occidente europeo. Tale dilatazione di rapporti lavorativi, con la sua molteplicità di esperienze umane, a sua volta non potrà che determinare per la comunità artigiana uno straordinario arricchimento del proprio bagaglio culturale e tecnologico.

Mutano nel contempo i rapporti di sudditanza per i domini transappenninici della famiglia Del Carretto che, originariamente soggetti al Sacro Romano Impero, nel 1393 passano sotto la sovranità dei marchesi monferrini. Nell'occasione il titolare del feudo altarese, Giorgio Del Carretto, ne concede in donazione un quarto a Teodoro II Paleologo, marchese di Monferrato, che diviene pertanto Consignore di Altare.
In virtù di formali accordi tra le parti, le immunità e franchigie tipiche dei feudi dell'epoca saranno confermate[20],contribuendo - nel corso del secolo successivo - all'ulteriore sviluppo dell'arte altarese.

L'"Università dell'arte vitrea" modifica

Il XV secolo segna in Occidente la comparsa delle prime forme economiche di tipo capitalistico. "L'uomo d'affari, tedesco, italiano soprattutto, è ormai un capitalista nel senso moderno del termine. Resta estraneo ad ogni specializzazione e s'interessa a tutte le attività della sua città: banca, commercio, industria di cui controlla e paga gli artigiani"[21]

L'ascesa di una borghesia mercantile e la progressiva concentrazione di attività economiche in sedi urbane attirano qui un notevole afflusso di popolazione dal circondario rurale[22]avviando un complesso di lente e profonde trasformazioni economico-sociali che molto più tardi troverà compiuta realizzazione con la definitiva dissoluzione dei rapporti feudali nelle campagne e l'abolizione dell'ordinamento corporativo del lavoro nelle città.

Tra l'aristocrazia nobile e borghese "si afferma intanto - scrive J. Heers - il gusto del lusso e della bella dimora". Ne consegue l'espansione di un'industria artigianale molto varia: dipinti, libri miniati, vetrerie hanno ora un mercato la cui prosperità è assicurata da un'agiata clientela. In tale mutato contesto sociale, economico e culturale, a Murano parte della produzione vetraria, dalla metà del '400 sarà appunto indirizzata a funzioni di ordine puramente estetico.

Nell'Italia settentrionale e centrale l'incremento demografico e l'urbanizzazione favoriscono poi lo sviluppo del commercio alimentare. Si diffonde in particolare, tra le classi popolari cittadine, il consumo di vino che comporta una specializzazione ed estensione della coltura viticola[23]; ciò contestualmente al sempre più largo utilizzo del vetro per recipienti e vasellame da mensa d'uso comune.

Presumibilmente a quell'epoca i positivi effetti sul mercato vetrario indotti da tale complesso di fattori determinano ad Altare l'impiego generalizzato di fornaci a più bocche ed un aumento degli addetti alle lavorazioni. La fase espansiva si esprime inoltre con le prime esperienze produttive attuate fuori dal territorio ligure, cui sovrintende un'organizzazione attraverso precisi ordinamenti statutari.

La più antica attestazione circa l'esistenza di una corporazione (detta Università dell'arte vitrea) risale al 1445[24], allorché si rende necessaria una regolamentazione organica in forma scritta dell'attività vetraria e dei rapporti che vanno evolvendosi internamente a questo mondo e nei confronti del mercato. La speciale normativa certamente riflette anche una prassi consuetudinaria stabilitasi nel tempo attraverso semplici convenzioni orali tradizionalmente osservate dagli addetti alle lavorazioni. La prima redazione pervenutaci data 15 febbraio 1495. La corporazione era presieduta da sei consoli eletti ogni anno il giorno di Natale, cui si conferiva la piena potestà di organizzare l'attività vetraria e di stabilire i tempi delle lavorazioni. Rientrava fra questi compiti la disciplina delle migrazioni temporanee che avvenivano dietro pagamento di determinate contribuzioni da parte del datore di lavoro e degli artieri ingaggiati. Sempre al Consolato dell'Arte spettava la formazione delle maestranze da inviare nelle località prescelte, il che dava luogo a un solenne cerimoniale in cui le squadre di artieri designate si impegnavano con giuramento a ritornare in patria entro la festività di San Giovanni Battista.

I registri dell'Università annotavano le autorizzazioni accordate alle maestranze in procinto di espatriare, la loro composizione e in quali località fossero state richieste. Un'azione di tutela e controllo che H. Schuermans ipotizza si esplicasse anche attraverso l'invio di emissari nei vari centri di produzione[25]. Qui i nuclei di Altaresi, formando chiuse comunità, mantenevano vivi i legami con la terra di origine attraverso l'osservanza e la pratica delle loro tradizioni e abitudini di vita. Il rispetto delle norme statutarie da parte dei vetrai era infatti garantito anche dai forti vincoli di mutua solidarietà rinsaldati da comuni usanze perpetuatesi nei secoli: a un maestro delegato a rappresentare la corporazione spettava la riscossione dei tributi richiesti agli imprenditori per avvalersi delle prestazioni di una squadra di artieri, così come eventuali inadempienze contrattuali sorte tra maestranze e datori di lavoro venivano esclusivamente regolate dai capitoli dell'Arte. La normativa statutaria – con forza di legge riconosciuta dal potere sovrano – garantisce poi localmente, attorno al Consolato, quell'unità fra tutti gli esercenti che probabilmente consente loro di eliminare la concorrenzialità attraverso reciproche convenzioni circa le rispettive quote di produzione e i relativi prezzi da imporre al mercato.

I maestri vetrai di Altare in Europa modifica

I maestri di Altare – più liberi negli spostamenti rispetto ai Muranesi[26] - si fecero divulgatori in Europa di uno stile ispirato agli innovativi moduli veneziani. Con la cosiddetta façon de Venise l'esperienza vetraria occidentale, riflettendo gli orientamenti culturali dell'epoca, abbandona infatti finalità strettamente funzionali per tendere a concezioni plastiche che privilegiano la pura creazione. Determinante al riguardo fu l'invenzione (1455 ca.), attribuibile al muranese Angelo Barovier, del “cristallo” (o “cristallino”)[27]: un vetro accostabile per purezza e trasparenza al cristallo minerale. L'impasto, di straordinaria plasticità, avvia la realizzazione di nuove forme dalla raffinatissima eleganza di gusto tipicamente rinascimentale che verranno a contraddistinguere per oltre due secoli la “maniera” imperante in Europa.

Ad Altare - in ben altro contesto economico, politico e culturale rispetto a Murano - sebbene la tipologia produttiva delle sue fornaci risulti storicamente costituita da un vetro di carattere prevalentemente utilitario, furono le migrazioni dei suoi artieri a lasciare in Occidente le più rilevanti tracce di una versatilità espressiva spesso acquisita individualmente attraverso l'autonoma sperimentazione di originali percorsi di ricerca tecnico-stilistica.

Se ne illustreranno qui, in breve, i momenti più significativi.

Nel corso del '400 la Provenza fu per i maestri altaresi la meta preferenziale dei loro primi trasferimenti fuori dal territorio ligure. Particolarmente considerevole fu il ruolo qui svolto dalla famiglia Ferro che sino al XIX secolo diresse larga parte delle vetrerie stabilite nella regione. Attorno al 1445, Benedetto, il capostipite di tale ramo, fonda una manifattura a Goult (Vaucluse), incontrando il favore di Renato d'Angiò[28], appassionato mecenate di quest'arte. Accanto a una produzione di tipo puramente usuale, nella fornace dei Ferro (de Ferry) non veniva trascurata un'oggettistica di pregio con decorazioni a smalti policromi, forse esemplata su stilemi veneziani e rappresentata da un servizio di vetri dipinti inviati in dono da Renato d'Angiò al nipote Luigi XI.[29] L'attività itinerante dei vetrai dell'epoca condurrà membri della stessa famiglia nei Paesi Bassi dove risulta fossero associati ai francesi de Colnet che, nel 1467, dirigevano una vetreria a Leernes. "Ci si può a ragione domandare - scrive R. Chambon - quali furono i vetrai che apportarono qui le tecniche veneziane. Senza fornire una certezza assoluta, certi indizi permettono di stabilire che i de Ferry svolsero un ruolo di grande rilievo nell'introduzione in Belgio di questi perfezionamenti."[30]Il loro antico insediamento nei Paesi Bassi è menzionato da Filippo II in un decreto dell'aprile 1559 che ricordava come i de Ferry, con i de Colnet, beneficiassero da tempo immemorabile (de toute ancienneté) di privilegi nobiliari in quelle regioni.[31]

Tra le località frequentate in seguito dagli artieri altaresi, Nevers (fine XVI-XVIII secolo) e Orléans (ultimo terzo XVII secolo) furono i più illustri centri d'arte vetraria da essi creati in Francia. Qui non ci si propose più, come quasi ovunque, una mera imitazione della façon de Venise, ma si affrontarono vie nuove per una vetraria dagli originali connotati stilistici realizzati anche attraverso una felice sintesi espressiva di motivi mutuati dalle arti della ceramica e degli smalti praticate dagli stessi Altaresi.

Negli anni 1582-84 si trasferiscono a Nevers da Lione, Giacomo Saroldi, Giovanni Ferro, Vincenzo Ponta e Sebastiano Bertoluzzi, ottenendo un monopolio per un raggio di venti leghe attorno alla città. Nel 1585 sono loro associati Agostino Conrado e Pietro Pertino di Albisola, ceramisti entrambi, come risulta fossero alcuni degli Altaresi, essendo comune alle due arti l'utilizzo di particolari materie prime. Accanto all'arte vetraria e della ceramica, non minore rilievo assumeva intanto a Nevers quella degli smalti. Va infatti ricordato che, tra il 1565 e il 1577, maestri italiani (pare trattarsi di artisti toscani venuti in Francia al seguito di Girolamo Della Robbia[32], attivi dapprima a Lione unitamente ad altaresi e a ceramisti albisolesi) avevano qui introdotto una tipica produzione di piccole figure a smalto, nota più tardi internazionalmente come “verre filé de Nevers”. La vetreria oltre a fornire la materia prima agli smaltisti della città[33] risulta anch'essa dedita a tale tipologia produttiva la cui rinomanza era ricordata, nel 1605, dal Journal d'Heroard menzionando “i piccoli cani di vetro ed altri animali fatti a Nevers” con cui si dilettava nell'infanzia Luigi XIII. I registri di consegna della fornace nivernese annoteranno ancora tra i suoi vetri modellati "a fiamma di lucerna": falsi gioielli, spille, statuine e oggetti devozionali, ninnoli e piccoli scrigni. Una molteplicità di curiosi articoli – impossibile ad elencarsi compiutamente – forniti a mercanti di vetri e monili d'ogni parte di Francia. Un cronista dell'epoca ebbe ad osservare in proposito: “Nevers può definirsi un'altra Murano. Se vi fate mostrare le opere più curiose, le ammirerete come altrettanti capolavori d'arte, i quali non fanno minimamente sfigurare quest'industria nella creazione di anelli, orecchini e altri gioielli che vi vengono presentati al vostro arrivo e non potete fare a meno di acquistare”[34]. Come si è detto, varie esperienze artigiane venivano a confluire nel patrimonio tecnico-stilistico di questi Altaresi, traducendosi in stimolanti apporti ideativi per soluzioni plastiche di spiccata originalità.

L'attività della fornace già sul finire del '500 viene a qualificarsi per il suo vetro di pregio, scelto spesso dalla municipalità locale per doni diplomatici[35]e, nel 1597, era lo stesso Enrico IV che, autorizzando Giacomo, Vincenzo Saroldi e Orazio Ponta a stabilire una nuova fornace a Melun, presso Parigi, riconosceva l'importanza di quelle da loro dirette a Lione e Nevers:

«"I nostri cari e beneamati Giacomo e Vincenzo Saroldi fratelli ed Orazio Ponta loro nipote - si legge nel documento - gentiluomini nell'arte e scienza vetraria, avendo in precedenza e da lungo tempo gestito le fornaci da vetro cristallo nelle nostre città di Lione e Nevers, hanno acquisito una tale reputazione nella perfezione delle loro opere che la maggior parte dei vetri del detto cristallo di cui ci si serve nella nostra corte, nel seguito e in tutto il nostro regno, provengono dalle suddette città di Lione e Nevers."[36]»

Specialità nivernese era un vetro imitante – nel colore e nelle venature – pietre quali il diaspro, l'agata, il calcedonio. "Praticamente tutti i pezzi diasprati francesi dell'epoca sono nivernesi", osserva al riguardo Jacqueline Bellanger[37]. Uno storico contemporaneo P. Cayet (1525-1610) ricorda poi della manifattura una particolare produzione in vetro colorato: "Al duca Luigi Gonzaga si deve la ripresa a Nevers di quest'arte per creazioni non solo in vetro cristallo, ma nei colori topazio, smeraldo, giacinto, acquamarina e di galanterie simili ad autentici pezzi orientali"[38]. Nel 1644, sarà lo scrittore Adam Billaut - nella sua raccolta di poesie Les chevilles - a menzionare di questa città "ses fragiles bijoux et ses trésors de verre".

I Gonzaga cedettero in seguito il ducato di Nevers al cardinale Mazzarino (1659) che si fece continuatore della politica a sostegno dell'industria vetraria locale attraverso lettere reali (aprile 1661) che conferivano a Giovanni Castellano - dal 1647 direttore della manifattura - un monopolio trentennale “lungo la Loira da Nevers a Poitiers”. La rilevanza assunta dalla fornace nivernese trova anche qui riscontro nelle espressioni del Sovrano[39]:

«[...] Il suddetto maestro, nativo di un borgo chiamato Altare - affermava nel documento Luigi XIV - ha impiegato diversi anni in Paesi esteri alla ricerca di ricette relative all'arte vetraria e degli smalti, acquisendo, attraverso lunga esperienza, una tale perfezione da creare opere in cristallo e vetro raffinato equiparabili in bellezza a le più apprezzate che si producono all'estero.»

Il decreto accenna a difficoltà economiche che si erano presentate all'Altarese e lo avrebbero indotto a ritirarsi se non fosse intervenuto il cardinale Mazzarino confermandolo nelle sue esenzioni e privilegi. Non meno determinante per il Castellano fu la protezione accordatagli da Jean-Baptiste Colbert (nel Consiglio Superiore dal 1661 quale responsabile alle Finanze) la cui politica di sviluppo industriale e di contenimento delle importazioni favoriva ogni iniziativa idonea a introdurre stabilmente in Francia le tecnologie produttive dei vetrai italiani.

La conferma del Monopolio della Loira e la facoltà concessa al maestro di smerciare i suoi vetri “ovunque gli fosse parso opportuno ed anche a Parigi” (nonostante l'opposizione di alcuni imprenditori francesi del settore) consentì una notevole prosperità alla fornace nivernese, la cui produzione seppe sempre mantenere – come ha osservato P. Bondois – “un nettissimo carattere italiano” grazie all'apporto di maestranze altaresi ripetutamente ingaggiate[40].

La vetreria, più tardi diretta da membri della famiglia Bormioli (de Borniol), serberà inalterata la sua antica reputazione per cui, ancora nel 1778, il “Nouveau voyage de France, géographique, historique et curieux” (pubblicato a Parigi) segnalava di Nevers la fornace della Grande-rue definendola “le petit Muran de Venise pour la singularité des différents ouvrages qui s'y font”[41].

Circa Orléans, dal 1668 vi operò Bernardo Perrotto, in assoluto il più celebre vetraio altarese, che presto si segnalò qui come geniale creatore di nuove paste vitree e per un originale impiego decorativo di smalti su rame ed altre materie. J. Barrelet ha scritto di lui:

«Perrotto era soprattutto un ricercatore, uno scienziato, prima ancora che un artista. Durante tutta la sua vita si dedicò interamente all'ideazione di nuove tipologie di vetri e nuove tecnologie di lavorazione. […] Egli contribuì pertanto, più di ogni altro, a creare una vetraria originale, una vetraria francese estranea alla secolare monotonia di forme e colori tipici della façon de Venise […]. Geniale artigiano venuto dall'Italia […] suscitò la ricerca in un ambiente che non ne aveva lo spirito […] faisant feu de toutes parts pour ouvrir de nouveaux horizons à l'art du verre.[42]»

Affermando d'essere pervenuto a ricomporre ricette scomparse da secoli, nel dicembre 1668 l'Altarese ottenne da Luigi XIV uno speciale privilegio che gli consentiva l'utilizzo in esclusiva di alcune sue invenzioni, tra le quali un nuovo tipo di vetro rosso traslucido, a base di oro e arsenico. Il successo incontrato gli permise di aprire a Parigi un magazzino di vendita sul Quai de l'Horloge e di quegli anni (attorno al 1672) è anche la sua più importante invenzione: la cosiddetta tecnica della colatura. La massa di vetro fuso, colata appunto su una superficie di terra refrattaria, veniva uniformemente appiattita da un rullo in rame, ottenendone specchi e lastre di dimensioni assai più ampie rispetto a quelle consentite sino ad allora dal tradizionale procedimento “per soffiatura”[43].

Il valore dell'invenzione non sfuggì al suo artefice che si premurò di ottenerne riconoscimenti ufficiali. Lettere patenti accordategli il 22 aprile 1673 precisavano che: "[…] Attraverso un sistema sino ad allora sconosciuto, egli poteva colare il cristallo fuso su superfici piane come per i metalli, dandogli il colore desiderato, ed anche render concave le suddette superfici come i cammei e rappresentarvi ritratti, incidervi lettere ed ogni sorta di figure, nonché creare ogni tipo di bassorilievi, cornici e modanature".[44] Diffusosi in seguito universalmente, il metodo, senza sostanziali modifiche, fu in uso sino agli inizi del ‘900. Un contributo fondamentale arrecato quindi all'evoluzione della tecnologia vetraria, in virtù del quale l'obiettivo perseguito dal Re di emancipare il mercato francese dall'importazione di lastre e specchi veneziani poté finalmente realizzarsi.

Il settimanale Mercure galant, nel dicembre 1686, testimoniava della notorietà acquisita dalla manifattura orleanese, segnalando che gli ambasciatori del Siam, in missione presso la corte di Francia, fecero visita alla vetreria di Bernardo Perrotto.[45]L'articolo fornisce un interessante resoconto circa alcune sue specialità:

«Gli ambasciatori del Siam nel venire a Parigi ebbero la curiosità di visitare la vetreria di Orléans, dove il Signor Perrotto fece loro ammirare, nelle sue opere, tutto ciò che quest'arte crea di più raro e più bello in porcellane, cristalli, smalti, agate[46], girasoli e lapislazzuli, così come nel colore del rubino e in ogni sorta di pietre artificiali, le quali imitano così fedelmente le pietre preziose, per la durezza, il vivo splendore e la purezza, da stupire anche esperti intenditori. Un piccolo omaggio di queste opere fu offerto agli ambasciatori ed essi ebbero la bontà di accettarlo.»

Fu il Monopolio della Loira (condiviso con Orléans) ad esercitare allora in Francia l'azione di maggior portata tra i vari centri vetrari nazionali, ma poco è qui rimasto della produzione sicuramente attribuibile agli Altaresi. Rispetto ai modi espressivi di impronta più tipicamente barocca si può ritenere la loro influenza non estranea all'imporsi in Francia di uno stile nettamente orientato verso forme dalle linee più sobrie ed essenziali, alieno da leziosità estetizzanti. Esisteva comunque una specifica “maniera” altarese se nel corso del XVII secolo risulta si sia affermata a Liegi una façon d'Altare (oggi d'incerta identificazione morfologica) che incontrò i favori del gusto locale così da essere formalmente richiesta, nei contratti d'assunzione, agli stessi Muranesi là operanti[47].

A ulteriore testimonianza dell'eclettismo dei maestri altaresi[48] va ancora segnalata, in Bretagna e Poitou, l'interessante produzione di “porcellana di vetro”[49] (XVII-XVIII sec.), specialità che si diffuse verso altre regioni della Loira. E considerevole, sempre in Bretagna, fu la produzione ceramistica (fine XVI-XVII sec.): un capitolo dell'arte altarese ancora tutto da approfondire. È noto comunque vi fossero fabbricati in gran quantità piatti rotondi e ovali, bottiglie, fiasche, vasi, candelieri, acquasantiere[50]: un repertorio mutuato dai modelli vetrari che, attraverso particolari soluzioni espressive, anche qui potrà a sua volta influenzare la vetraria altarese in una sorta d'interazione stilistica. Gli artieri liguri sono all'epoca presenti anche in Germania, Olanda, Spagna, Portogallo, Irlanda e Inghilterra dove, dal 1673, opera a Londra Giovanni Battista Da Costa. L'Altarese risulta abbia svolto un ruolo determinante nell'invenzione di un nuovo cristallo piombico (il cosiddetto flint glass) la cui paternità è stata sino ad oggi generalmente attribuita a George Ravenscroft, direttore di quella fornace. L'aggiunta di ossido di piombo alla miscela vetrificabile in percentuali maggiori rispetto al passato, consente di ottenere un cristallo purissimo e di una consistenza che ben si adatterà alle nuove tecniche decorative di intaglio profondo alla ruota[51]. È questo vetro di straordinaria brillantezza che, attraverso nuove e stilizzate realizzazioni, predomina nel gusto - con il cristallo potassico boemo - fin oltre il XVIII secolo, segnando in Europa il tramonto di quel vastissimo fenomeno artistico-espressivo noto internazionalmente come façon de Venise.

Declino dell'industria vetraria ad Altare - Fondazione della Cooperativa - I.S.V.A.V. - Museo del vetro modifica

Nel 1601, una supplica degli "Uomini dell'Altare" al Senato di Monferrato per una diminuzione del carico tributario denunciava la sterilità del suolo e l'estrema decadenza dell'Arte, aggravata dalla massiccia emigrazione in atto dei vetrai. La crisi economica vissuta in quegli anni dalla comunità altarese trova in effetti riscontro nella sua diminuita capacità contributiva e nella situazione demografica. L'imposta "del registro" (cioè sulla rendita fondiaria) nel 1581 fissata per Altare in lire 116, si riduce progressivamente alle 80 lire pagate nel 1602, mentre la popolazione, che nel 1591 assomma a 817 abitanti, passa a 754 nel 1604. Un ulteriore ricorso inoltrato a Casale al Consiglio di Monferrato, in data 23 aprile 1602, sollecitava provvedimenti "acciò detto luogo non resti disabitato, colla destruttione dell'Arte Vitrea". Oltre ai fenomeni già lamentati, si accennava ai gravosi interessi praticati da capitalisti genovesi sui prestiti cui si era dovuto ricorrere, affermando - in conclusione - "che gli uomini restano nel detto luogo solo per la solita antica obbedienza ai consoli".[52] La fase recessiva - protrattasi, pur tra cicli alterni, sino alla metà del XIX secolo - è ascrivibile a varie cause. L'espansione della produzione vetraria altarese e la sua delocalizzazione lungo la valle padana, la riviera ligure e la fascia costiera tirrenica, hanno progressivamente ridotto gli sbocchi di mercato alle fornaci del borgo appenninico. Particolarmente deleteria è la vicina concorrenza delle vetrerie del Genovesato che, nel 1601, i consoli della corporazione tentano di contrastare attraverso un più stretto controllo sulle maestranze migranti[53] Analogamente, con i nuovi Statuti dell'Arte del 1682 e - soprattutto - con quelli successivi del 1732, si mira a fronteggiare la crisi attraverso ulteriori vincolanti chiusure corporative. Emblematico in tal senso l'espresso divieto "d'insegnar l'arte a forestieri" o semplicemente "di lavorare in loro compagnia". Gli esiti non furono quelli auspicati; ciò tuttavia non è principalmente imputabile a fattori d'ordine soggettivo. La specifica situazione altarese s'inserisce infatti in un più complessivo quadro italiano di declino economico strutturale, già avvertibile dagli ultimi decenni del XVI secolo. Lo storico L.A. Muratori annoterà al riguardo che "per disavventura nostra il gran commercio e le arti più lucrose son passate in Francia, in Inghilterra e in Olanda, per divenir anche, quelle potenze, padrone del mare in grave nostro pregiudizio".[54] Oltre l'emanciparsi in senso manifatturiero dei Paesi occidentali [55] e l'assenza dell'Italia dal grande movimento d'espansione sugli Oceani, cui qui si accenna, elemento di ulteriore debolezza per l'economia della Penisola era costituito dall'estrema frammentarietà del suo mercato "diviso - osserva A. Fanfani - in tanti settori, in ognuno dei quali i Signori ed i Principi si affannavano ad alzare barriere protettive di una ognor sfuggente prosperità".[56] In tale contesto storico-economico larga parte dei capitali italiani verrà stornata dall'industria e dal commercio ed impiegata nell'agricoltura e la finanza, ridimensionando il peso acquisito dalla città rispetto alla campagna, con il conseguente riflusso di operai e manovalanze. In ambito vetrario l'estremo tentativo volto alla locale salvaguardia delle residue possibilità di lavoro - ad Altare, come a Murano - non potrà muovere che da logiche corporative, di fatto aggravando - almeno in parte - gli effetti della crisi. Circa gli Statuti del 1732, si può per l'appunto rilevare che gli stretti vincoli all'esercizio dell'arte vetraria fuori paese (soprattutto in zone limitrofe), se da un lato potevano in qualche misura contrastare la concorrenza alle vetrerie del borgo, dall'altro comportavano inevitabili riflessi negativi sull'occupazione complessiva e il patrimonio tecnico degli artieri, venutisi ora a trovare, come ha sottolineato G. Buffa, "in condizione di nulla poter imparare dagli altri".

Il processo di graduale declino dell'industria vetraria altarese si accentuerà più tardi con l'abolizione generalizzata delle corporazioni di mestiere (fine '700 - prima metà '800) in seguito all'avvento della rivoluzione industriale che, con i suoi accresciuti volumi produttivi e l'estendersi dei mercati, richiese il superamento delle antiche forme organizzative di lavoro.[57]

Contestualmente anche l'antica Università dell'arte vitrea fu pertanto soppressa nel giugno 1823 da Carlo Felice.[58] Pesanti ripercussioni si ebbero nel borgo sulle condizioni lavorative delle maestranze i cui rapporti con i proprietari di fornace erano stati sin qui mediati dal Consolato dell'Arte. Le retribuzioni, stante l'eccedenza di manodopera, furono sensibilmente ridimensionate, quando non corrisposte direttamente in generi alimentari. Altrettanto gravi furono gli effetti dell'aspra concorrenza venutasi a creare tra gli stessi gestori delle locali vetrerie che, nell'esercizio della loro attività, si trovarono affrancati dagli antichi vincoli corporativi[59]. Sul piano industriale l'intento di una maggiore produttività da essi perseguito si tradusse infatti in sovrapproduzione e conseguente netto calo dei prezzi di vendita; fattori che finirono per riflettersi negativamente sui margini di profitto e i livelli occupazionali. E' dell'epoca un massiccio esodo di artieri verso l'America Latina e in Italia[60] dove - con i suoi insediamenti produttivi - varrà a costituire la primitiva ossatura dell'industria vetraria nazionale[61].

Il sentimento di solidarietà fra gli artieri tuttavia non venne meno e condurrà nel dicembre 1856 alla fondazione della "Società in partecipazione avente per oggetto la fabbricazione di vetri e cristalli", prima cooperativa di produzione industriale italiana, alla cui direzione fu nominato Giuseppe Grenni. Tale società in quanto istituzione cooperativa, non essendo giuridicamente prevista dal Codice Albertino del 1842, soltanto nel 1885 potrà assumere la ragione sociale di "Società Artistico-Vetraria Anonima Cooperativa" (S.A.V.). La partecipazione era circoscritta ai membri delle famiglie “vetrarie" già appartenenti all’Università.[62] Una chiusura “corporativa" a tutela ormai delle precarie possibilità di occupazione in ambito locale e a garanzia tra i suoi aderenti – tradizionalmente legati da vincoli solidali- di un’unione morale assoluta e imprescindibile per un sodalizio basato sul principio della responsabilità illimitata. Enrico Bordoni (dal 1889 Direttore della S.A.V.) scriverà in proposito: "Vi era una classe di operai nella quale numerosi individui o non possedevano, o pochissimo – il cui capitale si sarebbe formato a gocce coi sudati risparmi- e per la ragione appunto che per migliorare la condizione della classe era necessario fare versamento di capitali, che i più non avevano, essa abbisognava del credito, e per valersene: dell’unione e della solidarietà nel modo più assoluto, della responsabilità di uno per tutti e di tutti per uno. Senza questa specie di solidarietà non era possibile elevare a potenza di credito la personalità collettiva del lavoro- e non era quindi possibile che i più bisognosi potessero pervenire al possesso del capitale-essa solidarietà illimitata era perciò indispensabile per il conseguimento dello scopo che si proponevano i cooperatori vetrai nel 1856".[63]Pur in considerazione dei caratteri neocorporativi dell’“Artistico -Vetraria’’- non valutabili criticamente secondo concezioni di ordine soggettivistico[64]-va comunque sottolineata l’importanza dell’iniziativa altarese che, nel quadro dell'associazionismo operaio italiano dell’epoca, venne a rappresentare uno dei più emblematici punti di riferimento. Nata da un conflitto di classe, la S.A.V. costituì – in ambito industriale- un’esperienza di autogestione operaia contestualmente ad una fase storica di profonda arretratezza organizzativa delle masse lavoratrici. Nella fondazione della Cooperativa e nella stesura del suo statuto fu determinante il ruolo svolto dal medico Giuseppe Cesio di Calice Ligure, amico personale di Giuseppe Mazzini e già appartenente alla “Giovine Italia", che ,per la generosa opera di soccorso prestata ai colerosi durante l’epidemia del 1854-55, si era acquistato tra la popolazione altarese una notevole autorità morale. Pur attraverso gravi difficoltà, il sodalizio riuscì a mantenere a lungo una posizione di rilievo tra le industrie nazionali del settore, dotandosi di tecnologie avanzate e adeguando al mercato la sua produzione. È nel decennio 1920 - 1930 che può essere individuata per l'azienda la fase di maggiore espansione, allorché il personale impiegato raggiunse le 700 unità e l'area dello stabilimento si estese sino ad occupare una superficie di 35.000 mq. La sua produzione consisteva quasi esclusivamente in articoli d'uso comune e per laboratori chimico-farmaceutici, ma non vennero trascurate lavorazioni di maggior pregio in cui eccelsero generazioni di abilissimi maestri. Merita segnalare Oreste Saroldi e i fratelli Cimbro e Costantino Bormioli presso i quali si formò professionalmente Isidoro Bormioli che nel biennio 1980-82 dirigerà la locale scuola d'arte vetraria. Fu coltivata anche l'arte incisoria e dell'arrotatura che ebbe tra i suoi migliori interpreti, verso fine Ottocento, Francesco Schmid e, più tardi, Attilio Saroldi, Pietro Moraglio e Giuseppe Bertoluzzi.

Le dinamiche industriali dell'Artistico Vetraria conosceranno dal secondo Dopoguerra un progressivo deterioramento[65]. A fronte di una concorrenza sempre più evoluta tecnologicamente, la S.A.V. - a conduzione operaia - venne a trovarsi ormai impossibilitata a reperire gli ingenti capitali da destinare all'ammodernamento degli impianti e a una più estesa automazione dei processi produttivi (salvo operare, attraverso compartecipazioni esterne, una totale riconversione dell'azienda in senso capitalistico). In un contesto economico fondato su altri principi è noto infatti come la forma cooperativa - anteponendo il fine mutualistico tra gli associati alla logica del profitto[66] - possa meglio adattarsi alle piccole realtà produttive, dati gli alti investimenti in capitale fisso richiesti dalle imprese a maggiore rilevanza dimensionale. Condizioni - queste - che per l'industria vetraria si determinarono segnatamente dopo il primo ventennio del Novecento con l'introduzione progressiva della meccanizzazione e il contestuale superamento della fase artigianale. Tali problematiche di natura finanziaria e strutturale permarranno insolute, condizionando l'attività della S.A.V. sino a determinarne la cessazione (aprile 1978)[67]. Era non soltanto la fine di un'azienda, ma di un'antichissima comunità di lavoro che ha scritto la storia del vetro ed espresso, attraverso la forma produttiva cooperativistica, una cultura industriale che privilegiò sempre la possibilità di garantire ai suoi associati un'occupazione sicura, anche contro le esigenze del capitale. Per la storia del vetro altarese questa data non ne segna comunque la conclusione. Nel 1982 si costituiva l'Istituto per lo studio del vetro e dell'arte vetraria (I.S.V.A.V.) con il precipuo scopo di valorizzare la memoria del ricco patrimonio artistico-culturale della tradizione vetraria altarese e porre le premesse per il rilancio dell'attività artigiana nei suoi aspetti più tradizionali. Si inquadra appunto in tale progettualità l'acquisizione da parte dell'I.S.V.A.V. della collezione di vetri già appartenuta alla Società Artistico-Vetraria, ora patrimonio costitutivo del Museo del Vetro di Altare, dal 2004 degnamente allocato presso Villa Rosa, prestigiosa residenza privata del primo ‘900 acquistata nel 1992 dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali.

Linda Siri, Vicepresidente esecutivo I.S.V.A.V., così tratteggia il positivo evolversi di tali vicende[68]:

«Nel 1995 cominciarono finalmente i tanto attesi lavori di restauro di Villa Rosa, che venne subito individuata come unica sede in Altare degna di ospitare il prezioso patrimonio della sua storia vetraria. Nel 2004 Villa Rosa apre le porte: le ristrutturazioni l’hanno riportata all'antico splendore. All'interno di uno spazio finalmente adeguato alle proporzioni della collezione, l’I.S.V.A.V. ha la possibilità di riorganizzare le opere in vetro in sezioni divise per artista, tematiche o scopi d’uso e riesce anche ad istituire [una] biblioteca specializzata.[…] Oltre alle bellissime e capienti sale interne, viene immediatamente sfruttata la presenza dei giardini di Villa Rosa, nei quali si individua il luogo ideale per ricreare una “piazza” di maestri vetrai come quelle presenti nella S.A.V.. Viene infatti ritagliato un ampio spazio dove trovano posto un forno per la fusione del vetro, gli antichi strumenti che utilizzavano i maestri vetrai e le tempere necessarie per la cottura degli oggetti soffiati.[…] Negli ultimi anni l’area è stata arricchita con l’aggiunta di un secondo forno che dà modo di differenziare e aumentare la lavorazione del vetro[69].[...] Per l'I.S.V.A.V. questo è uno dei tanti modi per tramandare, diffondere e conservare la parte più importante della storia altarese, storia che ha fatto conoscere il nostro paese ovunque come uno dei primi siti in cui si è sviluppata la lavorazione del vetro, punto nodale intorno a cui si è costituita la nostra identità»

Questo testo è stato liberamente tratto, a cura del dottor Anselmo Mallarini, dal suo libro " L'arte vetraria altarese"; Bacchetta Editore, Albenga 1995 .

Note modifica

  1. ^ Una prima parziale trasposizione in forma scritta di questa tradizione si ha in G. Chabrol de Volvic, "Statistique de l'ancien département de Montenotte"; T.II; Paris 1824, pp. 187 e 292.
  2. ^ Il borgo ligure appartenne in origine alla marca aleramica(*) (creata nel 961 da Berengario II, re d'Italia) e dal 1142 ai domini della famiglia aleramica Del Carretto che - allora direttamente soggetti al Sacro Romano Impero - nel 1393 passarono sotto la sovranità del marchesato di Monferrato in virtù di un contratto di vassallaggio stipulato da Bonifacio Del Carretto con Teodoro II. Era questi discendente dell'illustre famiglia bizantina dei Paleologi che detenne la corona dell'Impero Romano d'Oriente dal 1261 alla sua fine (1453) e subentrò ai marchesi aleramici nella signoria del Monferrato (1306). Estintasi la dinastia dei Paleologi, il territorio monferrino nel 1536 venne devoluto dall'Imperatore Carlo V alla famiglia Gonzaga, titolare del ducato di Mantova e - in seguito alla guerra di Successione spagnola - infine annesso al regno sabaudo (1713 - 1714), di cui seguì le sorti sino al costituirsi dell'Unità d'Italia. (*)Dal nome del conte di origine franca Aleramo che - investito da Berengario II del titolo marchionale e dall'Imperatore Ottone I di ampi feudi tra il Po e l'Appennino (967) - fu capostipite dei due rami dinastici rappresentati dai marchesi di Monferrato e dai marchesi di Savona (o Del Carretto).
  3. ^ Circa la Normandia, H. Schuermans documenta come l'arte vetraria si esercitasse qui già in epoca classica e sia sopravvissuta alle invasioni barbariche. ("Verres façon de Venise ou d'Altare fabriqués aux Pays-Bas"; Bruxelles 1883-1893; 6a lettera, pp. 24-27). Una tra le più antiche testimonianze in merito presenta singolari analogie con la tradizione altarese. Nel 675 l'abate Benedetto Biscopo - già monaco a Lérins - incaricò di reclutare dei vetrai in tale regione per fabbricare le vetrate del monastero da lui fondato in Inghilterra a Wearmouth. Una consuetudine di assidui rapporti - protrattasi poi nel tempo - si era infatti stabilita in Normandia tra questi artigiani e i numerosi, importanti monasteri benedettini locali, sorti a partire dal VI-VII secolo. Celebri quelli di Mont-Saint-Michel, fondato nel 966, e di Jumièges sorto nel 654 ad opera dell'abate francese San Filiberto che i vetrai altaresi proclameranno loro patrono. Il suo culto, già dal IX secolo, ebbe notevole diffusione in Normandia.
  4. ^ Agli inizi del XII secolo il benedettino tedesco Teofilo, nella sua celebre opera Diversarum Artium Schedula - il cui secondo libro è interamente dedicato agli aspetti tecnologici dell'arte vetraria - definiva peritissimi i vetrai francesi. (J. Barrelet, "La verrerie en France"; Paris 1953, p. 27). A. Gasparetto aggiunge al riguardo: "La vetraria era una e certo non delle ultime arti esercitate, per fini prevalentemente sacri, nell'ambito dei chiostri benedettini tedeschi e al suo diffondersi anche fuori dei Paesi germanici non poco deve aver contribuito proprio la Schedula del benedettino Teofilo, dati i frequenti rapporti che legavano l'una all'altra, le numerose comunità dell'Ordine, sparse in fitta rete per tutto l'Occidente […]. Che i Benedettini avessero, in fatto di vetraria, delle conoscenze non puramente generiche, ma fondate sulla pratica, si può desumere del resto da un altro documento: il famoso codice 132, De Universo o De origine rerum del monaco tedesco Rabano Mauro, compilato a Montecassino nell'anno 1023 [..]. In esso infatti compare la più antica rappresentazione finora conosciuta di una fornace vetraria medievale che, malgrado la sommarietà del disegno, tipico del tempo, lascia fondatamente supporre sia stata desunta dal vero". ("Il vetro di Murano dalle origini"; Venezia 1958; pp. 41 e 46)
  5. ^ Diocesi di Savona Noli in "Liguria monastica"; Cesena 1979, p. 159.
  6. ^ "Documenti intorno alle relazioni fra Alba e Genova, 1141-1270"; vol. 1, doc. 1 – Pinerolo 1906
  7. ^ Prima che vi si stabilissero i monaci, l'abitato altarese doveva presumibilmente costituire un insediamento ancora molto limitato. Le attestazioni ad oggi note al riguardo sono rare, occasionali e non anteriori agli ultimi decenni dell'XI secolo.
  8. ^ Francesca Dell'Acqua, in “Medioevo”; anno VIII; n. 8, agosto 2004; p.109
  9. ^ Danièle Foy, "Le verre médiéval et son artisanat en France méditerranéenne"; Marseille 1988; pp. 109 e 104
  10. ^ U. Berlière; “L'Ordine monastico dalle origini al secolo XII”; Bari 1928; p.84
  11. ^ Ciò - nel caso altarese - anche in riguardo dei bassi livelli di qualificazione tecnica relativi ad un contesto rurale allora esclusivamente legato ad attività economiche di carattere agricolo e silvo pastorale.
  12. ^ Accettando tali argomentazioni va comunque ricordato come fino al XII secolo, soprattutto in zone rurali, la formazione e il consolidamento dei cognomi risultino ancora assai limitati così da rendere oggi improponibile l'individuazione dei nomi delle famiglie che avrebbero costituito il nucleo originario della comunità artigiana altarese.
  13. ^ J. Le Goff "Il Basso Medioevo”; Milano 1992; p. 52
  14. ^ P. Warren; “Irish Glass”; London 1981; p. 23
  15. ^ “Il cartulario di Arnaldo Cumano e Giovanni di Donato (Savona 1178 – 1188)” a cura di L. Balletto; Roma 1978; p. 310 e p. 5.
  16. ^ Va tenuto conto, in proposito, dell'allora limitata diffusione del vetro relativamente all'oggettistica d'uso più comune.
  17. ^ Tra i reperti ottenuti da tali campagne di scavi, condotte a Savona, due frammenti di calici a marcata costolatura risultano anteriori al XIII secolo. Un’oggettistica d’uso comune, databile a partire dalla prima metà del ‘200, vale poi a delineare, seppur sommariamente, un complessivo panorama circa le locali tipologie vitree di epoca tardo-medievale. (Maria Badano Brondi, “Ritrovamenti archeologici in provincia di Savona”; Atti – X Giornate nazionali di studio sul vetro; Pisa 12-14 novembre 2004).
  18. ^ Da documentazioni notarili di fonte archivistica genovese risulta che il primo marzo 1281 un tal Gabriele, “vitrerius” di Masone “habitator Altaris”, ricevette, a nome del fratello Manfredo, “vitrerius de Altare”, alcune somme di cui era debitore un mercante di Genova. (La generica dizione “vitrerius” – così come la sua forma originaria “vitrearius” – non consentono di appurare se tali qualifiche fossero relative ad attività di tipo commerciale o produttivo). Stanti le lacune documentali a Savona*, il dato genovese costituisce la prima esplicita attestazione - ad oggi nota – circa l’esistenza di un’attività vetraria ad Altare. In precedenza (giugno 1271) un mercante di Genova, Pietro Gerardi, provvedeva ad un invio di vetri da Albisola a Marsiglia. (Albisola, con Savona, e molto più tardi Varazze, furono sedi di deposito per le materie prime e i prodotti finiti delle fornaci altaresi, a tali località direttamente collegate da diramazioni della via Aurelia). *Per Savona una documentazione notarile caratterizzata da una certa continuità si avrà soltanto dalla seconda metà del XlV secolo
  19. ^ “Il vetro di Murano dalle origini”; Venezia 1958; citato da M.Badano Brondi in “Storia e tecniche del vetro preindustriale”; Genova 1999; pp. 28-29
  20. ^ A.S.T - Arch. Camerali, art. 753, vol.61, f. 111
  21. ^ J. Heers, "L'Occident aux XIV et XV siècles; Paris 1963; p. 188
  22. ^ A Genova, nel 1460, circa il 90% degli operai della seta provengono dalle campagne circostanti.
  23. ^ J. Heers, ibid., p. 112
  24. ^ Ne è console in quell'anno un Giovanni Massari (Arch. Fam. De Massary, Parigi).
  25. ^ L'osservazione è suggerita all'autore belga dall'occasionale presenza di alcuni Altaresi a Liegi e a Nevers (seconda metà ‘600) per semplici atti di stato civile relativi a vetrai compatrioti: “Anziché supporre viaggi di cento o duecento leghe per assistere al battesimo di un cugino o al matrimonio di un nipote – egli afferma – riterrei piuttosto che il viaggiatore fosse in missione e si approfittasse della presenza di un delegato dei consoli onorandolo come padrino o testimone”. (Ibid.; 7a lettera; pp. 344-45).
  26. ^ L'arte vetraria, divenuta uno dei cardini dell'economia veneziana, fu in ogni modo protetta dal governo della Repubblica attraverso la concessione di ampi privilegi che valessero ad impedire l'emigrazione delle sue maestranze. Al fine di scongiurare la diffusione dei preziosi segreti professionali furono anche adottate norme severissime che, in alcuni casi, giungevano a prevedere la pena di morte.
  27. ^ Era un vetro ottenuto - con particolari procedimenti di fusione - attraverso decolorazione con biossido di manganese e depurazione delle ceneri fondenti.
  28. ^ Renato I (1409-1480) fu re di Napoli e di Sicilia, duca d'Angiò, di Bar, di Lorena e conte di Provenza. In quest'ultima regione si ritirò nel 1442 in seguito all'occupazione dei suoi possedimenti italiani da parte di Alfonso V d'Aragona.
  29. ^ Questi vetri figuravano nelle note di spesa di Renato I (depositate presso la Camera dei Conti di Aix) come "pagati á ceux de Goult per 100 fiorini". (Arch. Fam. de Ferry - Fontnouvelle, Versailles).
  30. ^ "Historie de la verrerie en Belgique"; Bruxelles 1955,p. 81. "[I de Ferry] - aggiunge H. Schuermans al riguardo - indubbiamente saranno stati chiamati nel nostro Paese per iniziare i loro associati de Colnet ai procedimenti italiani conosciuti nel XV secolo, cioè alla colorazione del vetro e alla smaltatura, importate già da un altro Ferro in Provenza." (7a lett., p.317).
  31. ^ Schuer., 7a lett., pp. 316-17. Nei Paesi Bassi risalgono al 1467 i primi formali riconoscimenti di prerogative nobiliari a vetrai. Lettere Patenti di “affrancamento” da oneri di ordine tributario accordate quell’anno a Jean de Colnet e al figlio Colard contengono l’espressione “octroyée de loing temps par les Roys Romains”,che sottolinea la continuità delle particolari condizioni di favore riservate a questa industria dall’epoca romana. Già allora l’arte vetraria beneficiò infatti di franchigie e immunità assai cospicue rispetto a quelle talora conferite ad altre corporazioni. In epoca imperiale la sua rilevanza economica doveva apparire poi non trascurabile se Alessandro Severo la classificò tra le “arti sontuarie’’ e un editto di Costantino stabiliva per i vetrai l’esenzione da ogni carico fiscale. Tali prerogative, confermate dai codici di Teodosio II (438) e Giustiniano (529), in varie regioni europee permarranno attraverso i secoli finendo, di fatto, per assimilare questa classe di artieri a quella nobiliare cui erano riservati privilegi analoghi. Diffusamente ne derivò così nel tempo, per le più antiche famiglie “vetrarie’’, uno “status’’ configurabile giuridicamente come “nobiltà per usucapione" che, ufficialmente riconosciuto, contribuì a consolidare una cristallizzazione corporativa delle competenze tecniche attraverso l’ereditarietà del mestiere e l’usanza dell’endogamia. Durante la seconda metà del XVII secolo, nel quadro di una serie di inchieste amministrative svolte in Francia e nel Ducato di Savoia circa la verifica dei titoli nobiliari, fu richiesto a vetrai altaresi – là residenti – di esibire le cosiddette “pezze giustificative”. La documentazione da essi normalmente prodotta in materia (certificazioni del Consolato dell’Arte – controfirmate da autorità civili e religiose – e attestazioni di elementi fattuali a riprova già anticamente di tale "status")ottenne invariabilmente formale ratifica da parte degli organi inquirenti e la contestuale ascrizione di tali famiglie all’albo nobiliare delle province in cui operarono. Ad esemplificazione delle procedure in merito si vedano – presso l’Archivio di Stato di Torino – le attestazioni relative a dei Saroldi (già operanti a Leynì) in “Consegnamenti d’armi gentilizie 1687” (Art. 852, paragr. 1, tt 63-64), la cui disamina, a cura dell’Intendenza sabauda, così conclude: “Viste le prove ed informazioni sovra presentate da quali consta dell’antico uso della suddetta arma, […] si dichiara esser lecito ai Sig.ri Ricorrenti, loro figli e discendenti maschi legittimi e naturali, di poter usar della medesima, mandando […] di doverla inserire nel libro e testimoniali”. Talune “prove” qui esibite dai Saroldi presentano analogie con altre prodotte in Francia nel 1667 da Ettore e Amos de Ferre (del ramo provenzale della famiglia altarese Ferro) ove si affermava che “gli stemmi di questa famiglia posti in diversi punti delle loro proprietà, come in una loro cappella della chiesa di Menerbe (villaggio della Contea di Avignone) e su un mulino, provano la nobiltà di questa famiglia, considerando l’epoca della loro apposizione [seconda metà ‘400] nel qual tempo non era concesso che ai soli nobili di esporli in luoghi pubblici". Va al riguardo osservato come – localmente – vetrai autoctoni non beneficiassero allora di tali privilegi. Le istanze avanzate dalla famiglia de Ferre furono accolte, disponendo la sua ascrizione al "Catalogue des véritables nobles de la province de Dauphiné." (Marseille – Arch. Dép. Bouches du Rhône; s. B, Cour des Comptes, N° 127, f° 299).
  32. ^ J. Vince, "Faïences et poteries"; Nantes 1982, p.18
  33. ^ La materia prima era costituita da "bacchette di smalto". Si trattava di un vetro opaco (contenente ossido di stagno o acido arsenico) plasmabile "à la lampe".
  34. ^ F. Boutillier, “La verrerie et les gentilshommes verriers de Nevers“ ; Nevers 1885, pp. 99-100.
  35. ^ Nel maggio 1599, dalle autorità amministrative locali si regolava un pagamento a favore di Vincenzo Saroldi per "33 dozzine di vetri in cristallo raffinato inviate in dono nella città di Parigi [ad alcune eminenti personalità]". (Bout. ibid, p,19). Nel giugno 1622 sarà Orazio Ponta ad inviare a Pougues, su richiesta degli scabini, "dodici dozzine di vetri raffinati, di cui sei con coperchio; e in particolare: due con fiori di giglio e una con una forma di corona, [raffigurati a smalto]; le altre con anelli". L'elenco annotava ancora coppe decorate avec des oyseaulx, acetiere e vasi diasprati di varie dimensioni. In quei giorni dal Procuratore della città vennero poi acquistati "due vetri in cristallo con coperchio, un cervo di cristallo raffinato, adattato ad acetiera, un pesce smaltato, un cane ed un paniere", da offrire in dono ad Anna d'Austria, moglie di Luigi XIII. (Bout. ibid. pp. 48-49).
  36. ^ F. Boutillier, ibid., pp.17-18. Altra coeva attestazione circa gli esiti conseguiti da maestri altaresi nella lavorazione del "cristallo" è data, nel 1598, a Modena, dove i fratelli Gio. Francesco e Cesare Bertoluzzi ottennero una privativa decennale. Significativo, per l'appunto, che il provvedimento non facesse "salva" (come solitamente in questi casi) l'importazione di vetri veneziani, rientrando nella produzione commissionata ai due Altaresi anche un'oggettistica pregiata in "cristallo". Risulta infatti che i Bertoluzzi, "oltre li vetri comuni d'ogni sorte," si fossero qui impegnati a fabbricare "vetri cristallini alla muranese […], bicchieri dorati, alla tedesca con fusto, ampolline, [caraffe], lampade, fiaschi, coppe alla ducale con coperto e senza […]". (E: Ferrari - G: Polacci, "Arte estense del vetro e del cristallo, sec. XIV - XIX"; Modena 1988, p.66).
  37. ^ J. Bellanger, "Verre d'usage et de prestige. France 1500-1800" ; Paris 1988 ; pag 35. Tali vetri, detti anche "marezzati", erano costituiti da una pasta vitrea opaca ottenuta con l'aggiunta di vari composti metallici nel crogiolo di fusione.
  38. ^ "Histoire de la Paix"; Libro V°, p. 371. Luigi Gonzaga, figlio di Federico II, duca di Mantova e marchese del Monferrato (cui Altare appartenne), nel 1565 aveva acquisito il titolo di duca di Nevers recatogli in dote dalla moglie Enrichetta di Cleve. Il suo mecenatismo richiamò numerosi Altaresi a Nevers.
  39. ^ F. Boutillier, op.cit.; p. 71.
  40. ^ P. Bondois "La verrerie nivernaise et orléanaise aux XVII siècle" ; Paris 1932 ; pp 4-5.
  41. ^ F. Boutillier, op.cit.; p.99.
  42. ^ Un virtuose de la verrerie au temps de Louis XIV: Bernard Perrot; in "Connaissance des Arts"; n.78, agosto 1958.
  43. ^ Questa tecnica prevedeva il taglio in senso longitudinale di un cilindro ottenuto “a soffio” e la sua successiva spianatura. Se ne potevano ottenere specchi e lastre di altezza non superiore ai 40 pollici (m. 1,08); mentre il nuovo procedimento consentiva dimensioni pari ad 80 per 40 pollici.
  44. ^ Bondois, ibid., pp.12-13
  45. ^ Notevole risonanza ebbe in Francia la visita degli ambasciatori del Siam che, con il loro seguito, furono ovunque accolti solennemente. Numerose incisioni di almanacchi popolari dell'epoca raffigurano tale avvenimento.
  46. ^ Creazioni di vetri imitanti la porcellana, l'agata e il calcedonio - le cui composizioni non erano sconosciute all'epoca - troveranno sempre in Perrotto il segno di un'autonoma capacità di rielaborazione inventiva, anche in virtù dei suoi continui studi di ricerca e sperimentazione. J. Barrelet rileva in proposito: "Il vetro agatizzato inventato da Bernardo Perrotto ricorda per la sua tinta opalescente e le sue marmorizzazioni rosa certi vetri opalini che nel XIX secolo saranno molto in uso […]. Nel XVII secolo esso costituiva tuttavia una novità considerevole. Alla qualità della materia vitrea si aggiunge la qualità delle forme pure ed eleganti di cui Perrotto e suoi compatrioti sembrano possedere il segreto". (Ibid.).
  47. ^ Merita segnalare che una produzione “all'altarese” sia attestata nel 1655 anche a Kiel (rysselsche nach Art der Altaristen), W.A.Thorpe; “English glass”; London 1935, p. 124. Negli anni 1660-70 a Marco ed Eugenio Saroldi, Ottavio Massari e Corrado Mirenghi, fu invece richiesta a Liegi una tipica produzione façon de Venise di calici “a fiore” e “a serpente” (espressioni relative a particolari motivi ornamentali di complessa esecuzione caratterizzanti lo stelo e riferibili appunto ai cosiddetti verres extraordinaires o verres d'apparat di matrice stilistica prettamente muranese). R. Chambon annota che a questi Altaresi fu corrisposta la stessa retribuzione – fissa o “al pezzo” – sino ad allora riservata ai maestri veneziani qui operanti. (Ibid., p. 149).
  48. ^ Maestri altaresi risulta si siano talora dedicati anche all'arte vetratistica. Oltre ai casi di un Nicola Grenni che in Inghilterra partecipa nel 1504 alla fabbricazione di vetrate per la cattedrale di Norwich (Engle p. 59) e in Francia di Bernardo Perrotto che nel 1689 provvede alla fornitura di lastre policrome per la chiesa orleanese di Sainte Croix (Bénard e Dragesco p. 71), esistono al riguardo ulteriori testimonianze in relazione all'attività da essi svolta a Genova. Qui, attorno alla metà del '400, Lanzarotto Beda realizza "i vetri colorati, posti all'occhio della cappella di S. Sebastiano, nella cattedrale di S. Lorenzo" (Podestà, p.326)*; mentre, nel 1588 è un Girolamo Brondi che fabbrica per la chiesa gentilizia della famiglia Doria, dedicata a S. Matteo, "l'occhio di vetri dipinti con quattro grandi stemmi e un fregio" (Belgrano, p. 53). *L. Beda,che nel 1459 risulta dedito alla produzione di lastre per il fanale del porto, nel 1464 si trasferirà con i figli a Caffa (Crimea) sul Mar Nero, la più importante colonia orientale genovese. Nulla è dato conoscere circa la sua successiva attività nel levante: un caso forse unico tra i mille destini di questi artefici che vale tuttavia a confermare fin d'allora l'eccezionale estensione dei loro rapporti di lavoro, conseguita attraverso il superamento delle molteplici difficoltà connesse a fattori di ordine linguistico e culturale.
  49. ^ Particolare tipo di vetro bianco opaco (detto anche "lattimo") impiegato nell'imitazione delle porcellane cinesi. Si otteneva addizionando alla miscela vetrificabile piombo e ossido di stagno.
  50. ^ Jo Vince, ibid., p.22.
  51. ^ Il suo brevetto è del 1674.In precedenza il Da Costa, in società con un certo Jean Guillaume Reinier e un altro Altarese Giovanni Odasso Formica, aveva operato a Nimega dedicandosi ad una produzione di gemme false in vetro. Si ritiene dovesse trattarsi di un vetro contenente ossidi di piombo la cui ricetta sarà alla base del flint glass. Poco più tardi un vetro analogo sarà infatti prodotto in Svezia dal Reinier e in Irlanda dall'altro socio Odasso Formica che ne otterrà qui un brevetto. Sul Da Costa si veda di Anita Engle “The glassmakers of Altare”. La stessa autrice riporta che membri della famiglia altarese Dagna, dal 1684 a Newcastle, “diedero qui origine ad un'importante dinastia di maestri cui si debbono alcuni tra i più raffinati vetri inglesi al piombo”.
  52. ^ A.S.T - Monferrato, Paesi; A. n°19. Le famiglie della comunità vetraria costituiscono allora oltre i tre quarti della popolazione altarese e formano la classe che - più influente sul piano sociale ed economico - viene a controllare sia il governo della corporazione che dei pubblici uffici (esercitati, di fatto, anche attraverso lo stesso Consolato dell'Arte, per il preminente ruolo assunto dall'attività vetraria nell'economia del borgo). Un'inchiesta delle autorità amministrative sabaude, databile al 1790, rileverà al riguardo che "quei vetrai amministravano essi solo gli affari dell'Università e del Comune […]. La privativa amministrazione del Comune dell'Altare - si aggiunge - fu per altro nella sua osservanza; essa risulta da autentiche prove […] e se la medesima non fu stabilita da un positivo privilegio, fu però introdotta dall'uso e dalla necessità" essendo la componente minoritaria della popolazione locale costituita da "pochi e poveri contadini". (Bibl. Reale Torino; Misc. St. patria; ms. n° 33). Non tutte le famiglie partecipi dell'Università furono di esercenti l'arte, essendovene di aggregate a titolo puramente onorifico. L'ascrizione, concessa discrezionalmente dal Consolato dietro pagamento di determinati contributi, consentiva l'appartenenza ad una corporazione divenuta, come detto, istituzione politico-amministrativa e organo di privilegio sociale.
  53. ^ In quell'anno l'Università dell'Arte provvede ad ampliare la normativa statutaria con un capitolo che vieta ai suoi membri l'impianto di vetrerie - o di lavorare - entro un raggio di 100 miglia attorno ad Altare, salvo espressa licenza dei consoli. Scopo dichiarato di tale norma è appunto l'eliminazione delle numerose fornaci stabilite a Genova e nel suo Dominio, ad opera di imprenditori locali, che "gravissimo danno [arrecavano] all'Arte e alla popolazione altarese". (M. Calegari - D. Moreno; Manifattura vetraria in Liguria tra XIV e XVII secolo in "Archeologia medievale"; Firenze 1975, p. 24).
  54. ^ E. Ferrari - g. Polacci, ibid., p. 25
  55. ^ Ciò naturalmente non potrà che riflettersi sulle dinamiche migratorie oltralpe delle maestranze altaresi, esauritesi infatti tra gli ultimi decenni del XVII secolo e gli inizi del XVIII.
  56. ^ "Storia del lavoro in Italia"; Milano 1943; p. 34
  57. ^ Organi corporativi a dirigismo statale -non assimilabili tecnicamente alle antiche corporazioni- più tardi furono talora riproposti in Europa contestualmente a riforme organizzative del mondo lavorativo.
  58. ^ Causa occasionale del provvedimento regio fu un’aspra e annosa controversia circa la ripartizione degli oneri fiscali (sorta dagli anni sessanta del XVIII secolo) tra gli aderenti all’Università-che ne invocavano una radicale riforma -ed il resto della popolazione locale che-accresciutosi nel tempo attraverso successive immigrazioni e connotato ora da una più varia composizione sociale-*rivendicava per suo conto una partecipazione qualificata al governo della comunità, sino ad allora esercitato – come detto- dai soli membri della corporazione vetraria. Tale disputa fu alle origini di una conflittualità sociale che graverà poi a lungo sulla vita comunitaria del borgo. Secondo la citata inchiesta amministrativa sabauda (a. 1790) dei 118 “Capi di casa registranti’’,68 risultavano “aggregati all’ arte e 50 non aventi alcuna partecipazione nella medesima’’. La stessa relazione annotava inoltre come l’entità dell’imposta “di Registro’’ a carico degli “aggregati’’ ammontasse quell’anno alla somma complessiva (espressa sequenzialmente in fiorini, grossi e denari) di 1107.3.1.,riducendosi per i “non partecipanti’’ a 192.11.3. *All’epoca costituita infatti, oltreché da un ceto rurale, da esercenti mestieri e piccoli commercianti.
  59. ^ Parallelamente al microcosmo sociale altarese, una "questione operaia" stava intanto emergendo su ampia scala in tutti i centri in via d'industrializzazione. La concentrazione fondiaria e la concorrenza della coltura intensiva capitalistica avevano infatti aggravato le già misere condizioni delle masse rurali, inducendone larga parte a cercare una nuova occupazione in fabbriche situate per lo più in centri urbani. Anche il settore artigianale veniva diffusamente "proletarizzato" dal crescente sviluppo industriale attraverso la razionalizzazione della produzione e della distribuzione. L'incidenza economica di tali processi su fasce sociali costituite appunto da artigiani e piccoli coltivatori permise all'industria nascente di reclutare masse di salariati che null'altro possedevano se non la propria forza lavoro. "L'orario di lavoro - ricorda N. Rosselli - era generalmente stabilito da un regolamento. Dove non si praticava il cottimo, l'orario medio oscillava intorno alle 11 - 12 ore; in qualche caso si giungeva alle 14, eccezionalmente alle 16; raramente si scendeva alle 10 - 8 […]. Un elevatissimo numero di donne erano impiegate nell'industria […] oltre a grandi masse di fanciulli d'ambo i sessi impiegati nelle fabbriche, nelle miniere, ovunque, senza alcun controllo, senza alcuna protezione legislativa. Sfruttati come uomini adulti e pagati in modo irrisorio".* All'estrema inadeguatezza dei salari si aggiungeva quella delle abitazioni, l'arretratezza dell'assistenza sociale e la precaria situazione igienico-sanitaria con la conseguente alta mortalità infantile. Se in molti Stati europei un analogo clima di trasformazioni socio-economiche determinò lo sviluppo dei primi tentativi di organizzazione proletaria, in Italia, all'infuori del Regno di Sardegna, un vero e proprio movimento operaio non si ebbe che dal 1859-60. "Quando si meditino i dati dell'ignoranza e della miseria che opprimevano le nostre classi lavoratrici in quel tempo - aggiunge N. Rosselli - ci si domanda in qual modo larghi strati dell'elemento operaio sian giunti, dopo il 1860, ad acquistare una coscienza, e sia pure una vaga coscienza, del loro stato, dei loro bisogni e dei loro diritti". (Mazzini e Bakunin; Torino 1967, pp. 39 e 42-43) *Le condizioni del lavoro minorile nelle vetrerie inglesi dell’epoca sono così descritte da F. Engels “Il lavoro duro, l’orario irregolare, il frequente lavoro notturno e soprattutto l’alta temperatura dei locali (da 100° a 130°Fahrenheit), provocano nei fanciulli debolezza e malessere generali, sviluppo difettoso(…). Molti fanciulli sono pallidi, hanno occhi arrossati e spesso perdono la vista per intere settimane, soffrono di nausee violente, vomito, tosse, raffreddori e reumatismi. Il calore al quale sono esposti nell’estrarre i prodotti dalle fornaci è così intenso che le assi sulle quali stanno prendono spesso fuoco sotto i loro piedi’’. (“La situazione della classe operaia in Inghilterra’’; Roma 1978, pag.279)
  60. ^ Sempre maggiore era anche il numero di maestranze che ogni anno in autunno si trasferiva - come tradizionalmente - presso le diverse vetrerie della penisola per un periodo di 6 - 10 mesi, potendo inoltre qui beneficiare di retribuzioni assai più elevate. Tale fenomeno migratorio si esaurisce nei primi decenni del Novecento allorché l'introduzione di nuovi processi produttivi-quali la meccanizzazione della soffiatura-viene progressivamente ad esautorare il vetraio della sua professionalità vanificandone l’abilità tecnica, cioè il presupposto essenziale su cui si era fondato a lungo il suo “status’’ privilegiato.
  61. ^ Nel corso del XIX secolo vetrerie furono dirette da Altaresi a Torino (Racchetti), Milano (Bordoni), Sesto Calende (Bordoni e Bertoluzzi), Casalmaggiore (Brondi, Bormioli e Bordoni), Piacenza (Saroldi), Borgo San Donnino e Parma (Bormioli), Brescello (Bordoni), Ferrara (Brondi), Rimini (Brondi e Marini), Firenze (Bormioli), Terni e San Severino Marche (Mirenghi), Pesaro (Buzzone), Vestone e Scrofiano (Bormioli), Roma (Brondi), Salerno e Vietri (Racchetti). Rileva al riguardo A. Marianelli che ancora attorno al 1880 la proprietà di oltre il 50% delle fabbriche italiane di vetro bianco faceva capo ad Altaresi. ("Proletariato di fabbrica e organizzazione sindacale in Italia: il caso dei lavoratori del vetro"; Milano 1983, p. 50) Circa gli insediamenti ottocenteschi di vetrai altaresi in America latina, si segnalano - dalla fine degli anni '30 - quelli di Buenos Aires, Montevideo, Rio de Janeiro e Lima.
  62. ^ Operai con funzioni ausiliarie, estranei a queste famiglie, vennero assunti dalla Cooperativa, ma in qualità di semplici salariati. Finalità puramente assistenziali furono poi svolte spesso dalla S.A.V. consentendo anche a disabili di trovare una dignitosa occupazione presso lo stabilimento sociale.
  63. ^ “Alla Onorevole Commissione per la riforma dello Statuto della Soc. Artistico-Vetraria di Altare’’.Alba 1889, pag.4.
  64. ^ Si rileva per altro al riguardo come in un settore industriale ad alta qualificazione ,quale il vetrario, l’ereditarietà del mestiere si fosse invariabilmente mantenuta nei primi statuti delle organizzazioni italiane di categoria: ogni iscritto alla Federazione di bufferia toscana(costituitasi nel 1899) era “strettamente obbligato ad insegnare l’arte solo ai propri figli”.(A. Marianelli, op.cit. pag.96).
  65. ^ Le alterne vicende della S.A.V. determinarono dagli anni '30 nuove migrazioni oltre i confini nazionali. Esiti di particolare rilievo ottenne Diego Mirenghi che nel 1937 raggiunse l'Eritrea e nel 1942, superando molteplici difficoltà, poté stabilire la prima vetreria mai esistita nell'Africa Orientale, la "Sava Mirenghi". Nel 1950, dopo aver creato in Eritrea una fiorente industria, si trasferì in Kenya (allora protettorato britannico) dove fondò la "Pitt-Moore/Mirenghi". Tra gli anni '60 e '70 attivò stabilimenti a Kampala (Uganda) e a Dar-es-Salaam (Tanzania), mentre nei suoi ultimi anni di vita si occupò maggiormente della "Maliban Glass" a Chtaura, nel Libano. Il dinamismo imprenditoriale altarese si espresse con altre importanti iniziative attuate da un gruppo di 14 vetrai emigrato in Argentina nel 1947: i maestri Isidoro, Gerardo Bormioli e Aldo Buzzone, i "soffiatori" Pietro Gaggino, Carlo Garabello ed Edoardo Pioppo; l'incisore Francesco Rottazzo e i tecnici Virginio Bazzano, Adarco De Biasi, Anselmo Gaminara, Carlo Rabellino, Vinicio Saroldi, Rinaldo Scarrone e Luigi Visani. Fondarono una vetreria a San Jorge e, in seguito, altre due a San Carlos (presso Santa Fè), la "Liguria" e la "San Carlos". Quest'ultima, tuttora attiva, è diretta da Ricardo Gaminara, figlio del fondatore.
  66. ^ Intendendosi qui ovviamente una prassi in coerenza ai suoi principi ispiratori
  67. ^ Nell'ottobre di quell'anno la vetreria fu rilevata da Angelo Masserini che, più tardi (1991), ne trasferì gli impianti in un'area periferica del paese. Nel novembre 1994, lo stabilimento verrà quindi acquisito da "Vetreria Etrusca" di Montelupo Fiorentino. Nella stessa zona industriale opera la "Co. Vetro", dal 1992 filiale della vetreria parmense "Bormioli Rocco".
  68. ^ "Il Museo dell'arte vetraria altarese"; a cura di M.T. Chirico; Albenga 2009; pp.15-16
  69. ^ N.d.A. Tali lavorazioni vengono organizzate in occasione di particolari ricorrenze legate a riti e tradizionali usanze dell'antico mondo corporativo. Tra queste, la cosiddetta "messa di fuoco" che, a San Martino, da tempo immemorabile, segnava per le varie fornaci locali l'inizio della campagna lavorativa. Gli elevati costi d'esercizio non hanno ad oggi permesso una ripresa continuativa della lavorazione artigiana del vetro in pasta. Tuttavia, in virtù di moderne tecnologie, le antiche tradizioni dell'"arte vitrea" permangono vive nei laboratori di Costantino Bormioli e di Raffaello Bormioli, originali creatori e sperimentatori di sempre nuove e raffinate forme. Va poi segnalata la bottega di vetri "Vanessa Cavallaro" dove l'arte della decorazione intagliata ha trovato alta espressione.

Bibliografia modifica

  • Belgrano L.T., "Della vita privata dei Genovesi"; Genova 1875.
  • Buffa G., “L'Università dell'arte vitrea di Altare”; Altare 1897.
  • Podestà F., "Il porto di Genova"; Genova 1913.
  • Pirotto A., “Società Artistico-Vetraria Anonima Cooperativa”; Savona 1931
  • Engle A., "The glassmakers of Altare"; Jerusalem 1981
  • Malandra G., “I vetrai di Altare”; Savona 1983
  • Bénard j. e Dragesco B., "Bernard Perrot et les verreries royales du Duché d'Orléans"; Orléans, 1989
  • Mallarini A., “L'arte vetraria altarese”; Albenga 1995
  • Brondi Badano M., “Storia e tecniche del vetro preindustriale. Dalla Liguria a Newcastle”; Genova 1999
  • AA.VV.,”Il Museo dell'arte vetraria altarese”; a cura di Maria Teresa Chirico; Albenga 2009
  • Brondi Badano M., Luigi G.Bormioli, “Ricette vetrarie altaresi”; Genova 2014
  • Brondi M., "La lingua ancestrale"; Genova, 2021

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