La virtù indiana

Manoscritto

La virtù indiana è una composizione drammatica in tre atti di Giacomo Leopardi,[1] scritta nel 1811, all'età di tredici anni, e donata al conte Monaldo come strenna natalizia. Il giovanissimo letterato, incoraggiato dalla produzione teatrale del padre,[2] elabora un soggetto da un resoconto storico di Francesco Becattini,[3] mettendo in scena la storia dell'impero Moghul all'apice del suo splendore nel XVIII secolo. Produzione giovanile e scolastica, La virtù indiana è un lavoretto che rivela una vocazione artistica potente, dove sono già presenti costrutti, scelte stilistiche, attenzione per certi aggettivi e parole che, nella produzione successiva, definiranno l'espressione del pensiero leopardiano: non ancora la filosofia del recanatese, ma il tema di essa.[4]

La virtù indiana
Tragedia
MS Ital. 73, Houghton Library, Harvard Univ.
AutoreLeopardi
Lingua originaleItaliano
AmbientazioneDelhi, Moghul
Composto nel1811
Prima rappresentazione italianamai rappresentato
Personaggi
  • Muhamed, imperatore del Mogol
  • Amet-Schah, figlio di Muhamed
  • Nizam, viceré di Golconda
  • Zarak, confidente di Muhamed
  • Osnam, confidente di Amet-Schah
  • Ibraimo, confidente di Nizam
  • Guardie e soldati
 

Genesi dell'opera modifica

La famiglia Leopardi e il teatro a Recanati modifica

 
Recanati

La famiglia Leopardi rappresentò un punto di riferimento per la formazione educativa della gioventù aristocratica recanatese, patrocinando e curando direttamente l'allestimento di spettacoli e di opere musicali nel teatro comunale di Recanati,[7] già attivo a partire dal 1719, e avendo fondato il locale collegio dei Gesuiti, istituzione famosa in tutto il mondo per il proprio sistema educativo, che vedeva nella drammaturgia e nella prassi teatrale gli strumenti necessari all'attività pedagogica e confessionale.[8] L'organizzazione, il finanziamento e i rischi di tali spettacoli ricadevano esclusivamente sui privati;[9] le compagnie erano per lo più locali e con titoli rappresentati di scarso peso.[10] Negli spettacoli pubblici la comunità recanatese era strettamente conservatrice: al dramma impegnato e agli autori mossi da responsabilità etiche, preferiva le opere musicali[11] legate alla tradizione lirica[12] e il teatro comico basso. A partire dal 1819 cominciarono ad affermarsi le commedie di Monaldo: L'isola selvaggia, La parrucca e Una posta di campagna, tutte rappresentate dalla compagnia Parigi, gli procurarono l'epiteto di Goldoni recanatese.[13] Nessuno di questi paterni successi sarà mai ricordato da Giacomo,[14] probabilmente per i difficili rapporti familiari dell'anno 1819, col tentativo di fuga clandestina mai realizzato; ma anche interessi letterari diversi, come si evince dalla piece Telesilla, abbozzato negli stessi anni, che muove in direzioni artistiche lontane dal padre. Più che da spettatore di commedie o rappresentazioni di compagnie locali, Giacomo subiva una preminente influenza teatrale dalla scuola domestica, modellata sull'esempio pedagogico gesuitico, con al centro la drammaturgia, e dalle opere impegnate del padre. Monaldo stesso infatti si cimentò nel genere drammatico con tre tragedie: Il Montezuma (1799), Il Convertito (1800), Il traditore (1803). Sono tre opere ispirate dall'alto concetto che la nobiltà aveva della forma poetica tragica, un genere di grande fortuna presso il teatro gesuitico.[15] Monaldo, coerentemente con l'alto concetto del ruolo civile del proprio rango, che affidava alla nobiltà il recupero e la conservazione del passato,[16] parteciperà attivamente alla costruzione del nuovo teatro cittadino, che avrebbe sostituito quello vecchio collocato nel palazzo comunale.[17]

Il laboratorio pedagogico di casa Leopardi modifica

 
Casa della famiglia Leopardi

Il carattere inalterabile di Monaldo e l'aristocratica convinzione nel metodo dei padri gesuiti riportarono nella famiglia Leopardi la figura del precettore. Don Emidio Sanchini,[18] successore di Giuseppe Torres, padre messicano gesuita che aveva insegnato a casa Leopardi anni prima,[19] si prodigherà nella rigorosa applicazione di questo metodo, impostando i corsi secondo la precettistica gesuitica: sette ore di studio al giorno; uso massiccio della memoria nell'apprendimento; corsi di grammatica, umanità, retorica e filosofia; prove annuali per misurare il progresso degli allievi; e manuali dell'Ordine: dalla Retorica del De Colonia, alla Logica di padre Jacquier. Monaldo stesso, come già il Torres anni prima, si occupava personalmente, secondo l'uso gesuitico, di far esercitare i figli nell'arte del dire, assumendosi l'incarico che nei collegi è assolto dal maestro di retorica.

 
François Jacquier

Sull'esempio delle scuole religiose, egli compose tre brevi dialoghi drammatizzati in prosa a tre personaggi, quanti erano i figli, Giacomo, Carlo e Paolina, per lo spettacolo di conoscenza che i giovani avrebbero sostenuto negli esami pubblici del 1808, 1809, 1810; altri brevi dialoghi in versi per le recite in occasione del Natale del 1806 e 1807,[20] una pastorale e due ecloghe,[21] scritte con una fantasia arcadica, sullo stile del Metastasio.[22] Queste recite in vista di esami pubblici o di feste familiari sono le sole occasioni di contatto con il teatro per il giovane; un teatro fortemente autobiografico, in cui i personaggi coincidono con gli attori (padre e fratelli) e il pubblico è rappresentato dalla propria famiglia, allargata a pochi altri parenti. Le forme di rappresentazione scenica assorbite con l'applicazione scolastica, le letture svolte nella biblioteca di casa, il rapporto diretto con il lavoro pedagogico e letterario del padre, rappresentano le principali vie di formazione del gusto e della concezione del teatro di Giacomo per tutto il periodo dell'infanzia, dove ricadono le due sole tragedie completate dall'autore, La virtù indiana e Pompeo in Egitto.

Modelli e fonti modifica

Il testo della Virtù indiana è preceduto da tre scritti di presentazione e introduzione per giustificare i modelli e le fonti sulle quali si è costruito l'elaborato scolastico: una Lettera dedicatoria, una Prefazione e un Argomento. La critica non sempre ha prestato attenzione a questi scritti introduttivi, spesso omettendoli in diverse edizioni della tragedia,[23] in particolare la Prefazione, considerata già a partire dal Castelli un testo di prodigiosa cultura e originalità di pensiero.[24] Liberati dal contesto didattico, definiscono profondamente il valore di una vocazione artistica già prepotente nel Leopardi fanciullo.

La lettera dedicatoria modifica

La lettera dedicatoria della Virtù indiana in un francese ancora acerbo, indirizzata al padre, rientra nelle consuetudini della famiglia Leopardi per le ricorrenze speciali ed è indicativa dell'entusiasmo del giovane autore per l'imitazione del lavoro paterno: presentata insieme a un elaborato scolastico, annuale sintesi del lavoro didattico svolto con il precettore, segna il preciso orizzonte culturale entro cui si muove l'ispirazione artistica del giovane autore.

 
Pierre Corneille

A Monaldo Leopardi, Casa Leopardi, Recanati, 24 Dicembre 1811.

«Tre-cher Pere,
Encouragé par vòtre exemple je ai entrepris d’ecrire une Tragedie. Elle est cette, que je vous present. Je ne ai pas moin profité des vòtres oeuvres que de vòtre exemple. En effet il paroit dans la premiere des vòtre Tragedies un Monarque des Indies occidentelles, et un Monarque des Indies orientelles paroit dans la mienne. Un Prince Roial est le principal acteur du second entre les vòtres Tragedies, et un Prince Roial soutient de le mème la partie plus inleressant de la mienne. Une Trahison est parti culierement l’objet de la troisieme, et elle est pareillement le but de ma Tragedie. Si je sois bien, ou mal reussi en ce genre de poesie, ceci est cet, que vous devez juger. Contraire, ou favorable que soit le jugement je serais toujours. Vòtre Tres-humble, Fils Jacques.»

La lettera dedicatoria è il primo documento in francese scritto da Giacomo e testimonia l'avvicinamento dell'autore alla cultura d'Oltralpe, in particolare ai grandi tragici francesi come Corneille, presente nella biblioteca paterna;[25] è di fatto una dichiarazione esplicita della derivazione integrale della propria opera dalle tre tragedie paterne: Il Montezuma, Il traditore, Il convertito; in finale, rappresenta un riconoscimento di fedeltà agli exempla ideali e retorici appresi a scuola, sotto la diretta sorveglianza di Monaldo, a cui Giacomo, nella conclusione della lettera, chiede esplicitamente un giudizio en ce genre de poesie.[26] Le poche righe di retorica cortesia rivelano inoltre l'antagonismo padre/figlio, perché i confronti tra le loro opere alludono tutte alla sconfitta o alla morte di un sovrano, vendicato dall'eroismo di un principe; un tema nella Virtù pienamente affrontato attraverso lo sviluppo psicologico dei personaggi e l'affermazione delle loro scelte morali.

Prefazione modifica

 
Quinto Orazio Flacco in un ritratto immaginario di Anton von Werner

La prefazione alla Virtù indiana è scritta secondo lo schema delle Dissertazioni filosofiche,[27] realizzate nello stesso periodo, e si sviluppa alternando argomentazioni a citazioni esemplari. In particolare, Leopardi, secondo i precetti della cultura gesuitica,[28] fonda la credibilità della sua tragedia su due principi basilari del teatro pedagogico: il fondarsi sul Vero - quando si fonda sulla verità l'insegnamento morale diventa exemplum -; avere una finalità morale attraverso l'esaltazione della virtù e la condanna del vizio.[29] Leopardi dichiara esplicitamente che il modello seguito è il Serse[30] di Saverio Bettinelli, indiscussa autorità del teatro di collegio e profondo innovatore del repertorio gesuitico grazie alle traduzioni e alle riscritture del teatro drammatico francese. Subito dopo, Leopardi richiama l'auctoritas di Orazio e la sua Ars poetica, religiosamente studiata da giovane e tradotta in ottava rima lo stesso anno della Virtù indiana, per giustificare la strutturazione del suo dramma in tre atti invece di cinque. Per non apparire un importuno Novatore, aggiunge anche una lettera dell'Algarotti all'Abate Franchini del 1753, dove si difende la brevitas de La Mort de Cesar di Voltaire, altra indiscussa autorità. L'Algarotti, già modello per le Dissertazioni, è lo scrittore-filtro che permette al giovane autore di uscire dal rigoroso rispetto delle regole scolastiche e accedere ad un altro universo di conoscenze.[31] La premura didascalica è un segnale dimostrativo nei confronti del padre Monaldo, ansioso di vedere il proprio figlio cimentarsi con i precetti della buona poetica, anche perché il teatro di collegio era ormai pieno di testi moderni, o di rimaneggiate traduzioni francesi di maestri di scuola, che avevano ridotto a tre atti la struttura del dramma per le rappresentazioni allestite dagli alunni. La stessa scrupolosa attenzione dicasi per il rispetto del divieto imposto alle donne di recitare, attribuito erroneamente al filosofo di Ferney,[32] e rispettato dal giovane autore come consueta e tradizionale prassi drammaturgica.[33] La scrittura drammatica di Giacomo si radica saldamente in un clima culturale della fine del XVIII secolo, tuttavia i modelli del settecento in lui producono una maturazione polemica e distanziata verso gli atteggiamenti più reazionari e chiusi di Monaldo.

Argomento modifica

 
Saverio Bettinelli

La fonte storica da cui Leopardi ricava il soggetto della tragedia è Istoria politica ecclesiastica e militare del secolo XVIII dall'anno 1750 in poi dell'abate Francesco Becattini,[3] opera presente nella biblioteca paterna. Leopardi definisce la cornice temporale e spaziale del suo dramma e, coerentemente col gusto del suo tempo, sceglie di dibattere temi morali con un soggetto esotico, ambientato in terre lontane e favolose. Il resoconto piacevole e suggestivo del Becattini troverà spazio solo nell'Argomento, perché la tragedia tenderà ad allontanarsi dai dettagli storici per approfondire tematiche psicologiche e morali dei protagonisti; in particolare, Leopardi eviterà di ricordare la parte più crudele e feroce dela figura di Amet, evidentemente interessato ad esaltarne la virtù e il coraggio, e non ad offuscare la perfezione morale del giovane principe, sul quale rifletteva la propria ambizione di gloria e di eroismo.[34]

Nel Serse del Bettinelli abbiamo un re dispotico e crudele, che in punto di morte confessa al figlio successore l'atrocità del proprio dominio e lo raccomanda di non seguire le sue orme, ma di essere come un padre per il suo popolo.[35] Nella Virtù il sovrano è un pavido e un inetto e le parti dell'eroe, e le massime da declamare, spettano al figlio Amet, che catturerà l'amore del popolo; tutti gli aspetti negativi invece cadranno sul personaggio di Nizam, simile all'Artabano del Serse, che giustifica il regicidio presentandosi come un liberatore.[36] Il tema principale riguarda il conflitto tra il potere legittimo e il tirannico e la tesi morale che il primo è l'unico equo e giusto, mentre il secondo è sempre punito dal Cielo: Amet sul finale pronuncerà un discorso simile a quello del Re Sole sul dovere del giusto monarca di farsi padre per il popolo. Sebbene il primo destinatario sia il conte Monaldo, la tragedia è stata scritta come se dovesse essere rappresentata pubblicamente,[37] mantenendo un scrittura drammatica di alto profilo, secondo il genere tragico appreso dai maestri e dai modelli scelti.[38]

Trama modifica

Antefatto modifica

Il grande Conquistatore Nādir Shāh, conosciuto anche come Tahmāsp Qolī Khān (Tamaa Koulikam) Sofì di Persia, aveva esteso il suo dominio su tutto l'Oriente, invadendo e depredando il vasto e ricco impero Moghul; grazie ad una brillante campagna militare, aveva umiliato il suo re, Muhammad Shah, costretto a subire, in un clima di forte instabilità politica dovuta alle terribili violenze subite dal suo popolo, una congiura di palazzo per la costituzione della Repubblica.

Atto primo modifica

  Per approfondire, leggi il testo La virtù indiana - Atto primo.
 
Muhammad Shah a cavallo (dipinto su carta, anonimo in stile “Moghul”, 1730 circa)

Negli appartamenti reali di Deli il pensieroso re, Muhamed, riflette col suo ministro Nizam sulle difficoltà che il regno sta affrontando dopo le devastazioni dell'esercito persiano e l'umiliazione patita non solo dal sovrano ma da tutto il popolo.[39]

«In quel funesto dì[40], che d'armi vide / Cinto e d'armati Koulikam feroce / Trionfar vittorioso, e dure leggi / Imporre al popol mio sconfitto e vinto.»

Nizam consiglia il re di affidare a un nuovo condottiero le file dell'esercito confuso, e rispondere alle minacce interne di chi vuole approfittare della crisi: i Maratti, tra le minoranze etniche da sempre ostili all'impero, hanno radunato un esercito improvvisato, composto da circa duecentomila ladroni, e si dirigono verso Deli.

Muhammed, certo di una probabile riscossa dei suoi, affida proprio a Nizam,[41] mente del tradimento e principale artefice della congiura alle porte, il comando dell'esercito.

«A te mio fido, tu le reggi [...] gli animi [...] accendi [...] di Tamerlan feroce lor rammenta il valor [...] del mio soglio infine la difesa tu sii»

Lasciato solo, Nizam inizia a tessere la fitta trama della sua congiura per giungere alla creazione di un nuovo potere: prima di tornare nelle sue stanze prega Ibraimo, suo fidato, di coinvolgere nel progetto Osnam, confidente del figlio del re, Amet Schah.

Osman entra in scena recitando la parte del perfetto confidente: la sua ignoranza circa i segreti di stato permette a Ibraimo di rivelare i piani segreti.[42] Osman è preoccupato e teme per il futuro:

«[...] e ancora non resta / Pago del nostro sangue il rio destino?»

ma Ibraimo lo sprona: il suo destino e tutto quello del Mogol dipendono da una scelta; lo incalza, rivelando ad un Osman smarrito (Che ascolto?)[43] l'ambizioso piano:

«Del Monarca il perire a noi sol puote / Sicurezza arrecar.»

Il nemico avanza ed è troppo forte rispetto all'esercito confuso a cui si affida il popolo. Lo scontro inevitabile porterà ancora dolori e lutti, ma il nemico non cerca sangue, brama un regno: solo la morte del Sovrano, per nostra mano, fermerà tutto.[44] Ibraimo abbandona la scena portandosi dietro una promessa di fedele sostegno. (Scena 4) Osman riflette sul giusto e sul diritto: essere fedele alla corona o tradire? Uccidere il re o soccorrerlo? Siamo in uno dei momenti più intensi della tragedia.[45]

«Oh Numi / Qual mai funesto orrore il cuor m’ingombra! / Che ascolto, o ciel, che vedo? è questo il suolo / Che mi dié vita, in cui bambino appresi / Il giusto, il dritto, ed il dover qual sia? / Di belve furibonde, e tigri ircane / Non è questo il ricetto? ove t’ascondi / Sconosciuta virtude? ah tu fuggisti / Da queste terre, ed in tua vece il trono / Tra noi fondar l’ambizione, il vizio / L’empietade, il delitto... e tanto adunque / Tanto in odio a voi siam, Barbari Numi? / Che far degg’io? dunque svelar l’arcano / Dunque di certa morte io debbo espormi / Al periglio fatal?... dunque tradire / La fede l’onestà... lungi da questo / Smarrito cuor, da quest’oppresso spirto.»

Nel soliloquio Osnam decide di svelare tutto ad Amet, ma lascia che un doppio velo per ora si posi sui suoi pensieri. (Scena 5) Osnam rinnova la sua fiducia a Nizam, il quale loda il valore di chi si è sempre battuto per la libertà. Presto, a un suo cenno, i Maratti circonderanno il palazzo e Mohammed e Amet moriranno: occhio vigile e movimenti rapidi (perigliosa ogni tregua) e il destino sarà favorevole se valore e ragione alimenteranno l'impresa. (Scena 6) Osnam continua l'inganno anche all'arrivo del re, che cerca da Nizam informazioni sulla battaglia imminente: il nemico giace molle in campo ostil, senza muovere insidie ma pronto ad attaccare in ogni momento; sarà colpito nella notte oscura, al tacito silenzio, col favore dell'ombra amica: nessuno si salverà. Il re ravvisa il grande valore di Nizam e gli offre in dono la spada regale: ognuno ravvisi il Mio nel tuo voler. Osnam freme ma si trattiene ancora, e lascia che il re Muhammed si ritiri, ignaro del suo oscuro destino.

(Scena 7) Nizam ricorda che lo stuol nemico dei Maratti solo un cenno attende e in breve tempo prenderà d'assalto il palazzo reale, non lasciando scampo a nessuno. Osnam rileva i suoi dubbi, non nasconde la sua preoccupazione su come possono avere la meglio in battaglia e penetrare il presidio reale: [...] come resister può una debole barchetta a un mare in tempesta? Con un intervento pregno di orgoglio e ambizione sfrenata, Nizam lo incoraggia a lasciar andare la sua brama di gloria e libertà e di ricordare il giorno in cui il sangue dei nemici sarà versato per liberare la patria dal tiranno.

«[...] Mio fido all’uopo / L’ardir richiama, che in quel dì funesto / Per la patria mostrasti, il ferro tuo / Vindice sia di libertade, e atterri / Quanto ad essa s’oppon, trafitto cada / Della patria il tiranno, e sorga alfine / Su questo suol la libertà bramata.»

(Scena 8) Nizam solo. Il popolo desidera di essere libero e per farlo il re e tutta la sua stirpe reale deve finire: Favorite i miei passi, amici Numi.

Atto secondo modifica

  Per approfondire, leggi il testo La virtù indiana - Atto secondo.
 
Qamar-ud-dīn Khān I, Nizam di Golconda, ritratto XVIII secolo

(Scena 1) Zarak, confidente di Muhammed, riflette sulla decisione del re di affidare il comando dell'esercito a Nizam, uomo ambizioso, incurante del popolo e con lui sempre in contrasto, ma tace i suoi sospetti. (Scena 2) Muhammed conferma la fiducia di tutto il regno nel valore di Nizam, che deve affrontare la nemica turba dei Maratti per risollevare le sorti della patria e del popolo tutto, a un dubbioso Zarak:

«Di troppo avanzi, / Signor, perdona, la tua speme»

Il fato incerto del regno dipende dall'opposto valore degli eserciti: solo se uccisa e dispersa la turba dei Maratti risorgerà il valore smarrito del popolo e sarà liberato il regno dal giogo umiliante dei nemici Persi. (Scena 3) Entra in scena il principe Ameth-Schah, figlio di Muhammed, che annuncia i Maratti, tutt'altro che sconfitti, sotto le mura del palazzo regale, e la capitolazione delle città di Surate, Agra e Bengala; la stessa Golconda brucia e il popolo scappa dalle fiamme insieme a un spaventato e confuso Nizam. Un orrore indistinto corre nel regno, il re Muhammed si dispera:

«E tanto, o Numi, / Dunque in odio a voi siam! dunque di questo / Misero regno il rio destin cotanto / Veglia infelice a’ nostri danni? oh cielo, / Chi ci difenderà? chi del mio trono / Il sostegno sarà? l’armato stuolo / Timido ci abbandona il duce istesso»

(Scena 4) Giunge Ibraimo: i Maratti sono entrati in città, presto Deli soccomberà agli invasori. Partono insieme per l'ultima difesa: il popolo vuol vedere il re scendere in campo e difendere il regno. (Scena 5 e 6) Osnam rivela a Amet la congiura ordinata da Nizam per uccidere il re e l'accordo segreto dei traditori con i Maratti (l'infide schiere / Ei guadagnar già seppe) per mettersi a capo del regno.

«Misero Padre!... egli pur ora in braccio / Al periglio fatal... ma dove, o Numi, / Dove il valor sen fugge?... andiam si serbi / Al trono il rege, il genitore al figlio, / La mia vita si sprezzi, e solo, oh cieli, / Solo il padre si salvi...»

Amet reagisce con il coraggio della disperazione (altra salute / Non resta a noi, che il non sperarne alcuna)[46] e invita l'amico a morire da eroi nell'estrema difesa della città. (Scena 7) Giunge Zarak e annuncia la morte del re per mano del crudele Nizam, vile traditore, e tutto intorno infuria il barbaro acciaro e il nemico fa strage. Amet giura vendetta e insieme partono alla ricerca di Nizam. (Scena 8) Il viceré di Golconda ordina loro di arrendersi, il tiranno è morto in nome della nascente libertà e tutti sono suoi sudditi. Amet parte alla cattura di Nizam, insieme ad Osam e Zarak cerca di atterrarlo. Nizam viene disarmato e circondato dalle guardie che, nel finale dell'atto, lo conducono in carcere.

Atto terzo modifica

  Per approfondire, leggi il testo La virtù indiana - Atto terzo.
 
Ritratto equestre di Ahmad Shāh Bahādur del 1750, San Diego Museum of Art

(Scena 1) Amet e Osnam ricostruiscono gli eventi appena trascorsi. La confusione del piano di Nizam ha causato solo morte e distruzione; il nero sangue dei Maratti si fonde con quello delle schiere fedeli e scorre sotto i corpi che giacciono insieme tra le mura del palazzo reale. Emerge in pochi versi in bocca ad Osnam[47] l'immagine forte e riuscita de l'iniquo traditor: un Nizam in catene nel carcere oscuro, con lo sguardo fisso a terra, disperato accusa i Numi per la sorte avversa:

«Esulta il popol tutto, abborre ognuno / L’iniquo traditor; di labbro in labbro / Già vola il nome tuo; solo fra tanta / Gioja confuso, e mesto infra l’oscure / Spaventose tenebre in carcer nero / Geme d’aspre catene avvolto, e stretto / L’empio ribelle ad ora ad or sul suolo / Lo sguardo affissa, e nel ritrae di sdegno / Acceso il cuor tra le focose vampe / D’indomito furor; la terra, il cielo / Malvagio accusa, e la nemica sorte / Maledicendo irrita, al volto, al crine / E danni arreca, ed onte, e brama ognora / Fuggir se stesso, e ove fuggir non trova.»

Amet raduna i guerrieri fedeli e parte a liberare Agra e Surate ancora nel caos: presto il Mogol sarà libero da eserciti ostili. (Scena 2) Intanto, a palazzo, un Osnam irato accusa un confuso Ibraimo della mancanza di pietà verso il suo re defunto, ma il suo tradimento resterà segreto se la causa di Nizam abbandonerà. (Scena 3) Lasciato solo con i suoi pensieri, Ibraimo, pieno di rimorsi, medita il suicidio perché non riesce a sostenere la vergogna delle sue azioni. Nel delirio del reietto, in un superbo crescendo di realismo orrorifico, l'immagine del defunto re si palesa e chiede vendetta.

«Di squallido pallor coperto, il sangue / Veggio grondar da lo squarciato petto, /Brandir la destra ignita spada, orrendo / L’acceso sguardo sfavillare.. ah ferma... /T’arresta ombra fatale, il pianto mio / Se a placarti non val, del mio delitto / Questo mio cuor saprà ritrar vendetta.»

Ibraino sfodera la spada nell'estremo tentativo di privarsi della vita ma viene interrotto. (Scena 4) Zarak annuncia la vittoria del principe Amet; tutto ora è pacificato, il trono ripreso e le città di Agra e Surate liberate. Ibraimo osserva come Amet, con una sola azione, abbia riportato pace nel regno e un re sul trono, piegando il feroce tirannia del re persiano. Zarak saluta il nuovo sovrano, tutto il popolo esulta e i Raja si preparano ad accoglierlo nel palazzo reale. Ibraimo è combattuto: nel cuore avverte ancora una profonda ostilità verso quella stirpe nemica. (Scena 5) Zarak solo riflette sul traditore Nizam, che aveva in mano le sorti del regno e adesso giace, in braccio al mesto affanno e al terrore, in oscure segrete, e su come l'ira e lo sdegno possano rafforzare i sentimenti dell'eroe e spingerlo verso imprese straordinarie, sostenute dai Numi giusti e pii. (Scena 6) Zarak ricorda al nuovo sovrano la situazione infelice di Golconda che, tradita dal suo reggente, ancora brucia, e Amet gli affida il comando della regione per ricondurre le popolazioni smarrite alla pace. (Scena 7) Osnam invita il principe nella sala reale per ricevere l'incoronazione solenne. (Scena 8) In una sala riccamente addobbata, davanti a Osnam, Zarak e Ibraimo, Amet si asside sul trono e compie il giuramento; invita tutto il popolo e tutti i fedelissimi a stringersi attorno al loro re, scampato alle congiure e alla battaglie, per ricostruire un nuovo regno.

«Ed io lo giuro al ciel, che m’ode; ognora / A me sacri saran del regno i dritti, / Dell’orfano infelice, e del pupillo / Farmi padre io saprò, difesa, e scudo / De l’oppresso innocente, e a l’uopo il freno /Costringere allentar.»

Ibraimo sarà il primo a giurare fedeltà al nuovo sovrano. Amet promette di difendere i più deboli, di farsi padre e scudo e di imparare ad allentare le briglie del comando quando necessario per ascoltare l'oppresso e l'innocente. Intanto comanda le guardie di dirigersi all'esterno per annunziare a tutto il popolo il nuovo sovrano.[48]

Lingua e stile modifica

 
Marco Tullio Cicerone

La virtù indiana si configura come un testo dalla natura suasoria e procede con uno stile dimostrativo tra i poli morali della virtù e del vizio, mirabilmente profuso in dialoghi che sono spettacolosi lavori di intarsio poetico.[49] L'arte oratoria è qui incanalata in un'esperienza drammatica tutta scolastica e tipica delle generazioni aristocratiche formate dai Gesuiti, attraverso le rappresentazioni dilettantesche di un teatro di collegio, colto e letterato. Tale drammaturgia unisce la tradizione del teatro classico francese, che si fonda sulla magia del verbo oratorio, con le rappresentazioni scolastiche, proponendo personaggi dalla grande persuasione retorica. Il vero spettacolo si realizza nell'immaginazione del pubblico, che è in grado di ricostruire la scena intera partendo dalla solennità delle battute dei singoli personaggi.[50] In questo contesto Leopardi riduce al minimo i segnali didascalici e le note sullo spazio scenico e privilegia la pronuntiatio e la actio dei personaggi: la parola e il gesto dell'attore devono essere tali da generare nell'animo dello spettatore la realtà e la solennità della situazione. L'efficacia del testo punta sull'energia dell'eloquio; l'attore anima il personaggio con dialoghi e soliloqui per catturare lo spettatore e trasmettergli tutta la loro dignità. Leopardi immagina probabilmente a un grande oratore, come il Cicerone nel Pro Roscio, ma di fatto scrive per un attore astratto: i personaggi vivono della propria parola e della forza del proprio persuasivo argomentare: tale disciplina, osservata nell'eloquio e nello stile, rappresenta la struttura profonda della tragedia. La drammatica non è altro che un'estensione poetica dell'Ars bene dicendi e ne utilizza tutto il suo bagaglio di strumenti retorici.

 
Aristotele

L'autore costruisce i suoi personaggi applicando le leggi della retorica del genere epidittico o dimostrativo, quando vuole affermare un fatto, una verità (genus demonstrativum),[51] riconoscere un potere voluto dal Cielo o condannare di una feroce tirannia.[52] Scegliendo questo genere, il testo si propone di dimostrare l'eccellenza della monarchia legittima attraverso l'affermazione di un giovane principe, incarnazione di essa. L'autore muove dalla definizione della personalità da elogiare contrapponendola ad esempi negativi: il personaggio del re Muhammed, indeciso e pavido, e l'ambizioso Nizam, determinato e feroce nel suo disegno criminale: il percorso virtuoso di Amet si fa largo tra queste due figure fino all'affermazione finale, con la sconfitta dei nemici, l'ascesa al trono, simbolo del potere legittimo, e il rispetto generoso dei sudditi. La caratterizzazione di Nizam, in particolare, sfoggia mirabili figure retoriche dell'Ars bene dicendi: il governatore di Golconda appare oratore raffinato quando cattura l'attenzione del sovrano (e del pubblico) alla disperata ricerca di un duce, facendosi affidare il comando dell'esercito («Sol si ricerca un duce»).[53]

 
Pietro Metastasio

Leopardi è attento anche con i comprimari: il sermo povero di un Ibraino, rispetto alle lusinghe di un Nizam, non incanta la personalità ambigua di un Osnam, che, a sua volta, finge la propria fedeltà al crudele disegno, e, mosso da costante dubbio, s'interroga sul da farsi per tutto il dramma. Il Quid faciam? di Osnam: «Che far degg'io? / dunque svelar l'arcano / Dunque di certa morte io debbo espormi / Al periglio fatal? [...] dunque tradire / La fede l'onestà...» introduce il genere deliberativo[54] e porta davanti al pubblico il problema etico dell'onestà: il riscatto morale di Osnam passa per una vera e propria riabilitazione processuale (genere giudiziario) di fronte agli occhi del pubblico/giuria — il personaggio/imputato si difende dall'accusa di tradimento, ammettendo di aver tradito, ma di averlo fatto con chi tradiva il principe: feci, sed meruit — e il tradimento diventa anche la giusta punizione dei congiuranti, un topos della drammaturgia settecentesca.[55]

In un contesto così solenne, ma che rientra pienamente negli stilemi retorici seguiti dal nostro per cambiare repentino registro e stupire lo spettatore, non poteva mancare la rivincita morale sul nemico ottenuta attraverso la tecnica dell'ironia,[56] già sperimentata in Adversus Catilinam:[57]

«E qual ti tinge il volto / Insolito pallor? Quello non sei / Che con tranquillo aspetto e sangue, e morti / Mirar potesti, a cui de' i regi il fato / Ombra mai di pietà, d'orror, di tema / Destar non seppe in cuor? Quell'alma invitta / Qual turbamento opprime?»

 
Publio Virgilio Marone

L'esortazione è la figura retorica più presente nell'eloquio di Amet, personaggio costruito sull'esempio classicista dei magnanimi. Il modello è Virgilio, maestro di scrittura, la cui tecnica permette al giovane di sperimentare una struttura retorica più articolata. Amet si nutre delle parole di Enea[58] quando combatte disperatamente sotto le mura di Troia: altra salute / non resta a noi, che il non sperarne alcuna, è superba traduzione di una salus victis nullam sperare salutem (Eneide, II, v. 354). La citazione virgiliana lega l'eroe alla tradizione e si rivolge ad un pubblico educato al classicismo, sensibile a risonanze suggestive e solenni, mirabilmente inserite dal giovane autore, in un esercizio che non è plagio, ma una perizia di montaggio di citazioni erudite.[59] La passione per il sommo poeta e il secondo canto dell'Eneide[60] forgiano anche la ricca e drammatica descrizione (ipotiposi) che fa Zarak della caduta di Delhi e della vittoria di Nizam, uccisore di Muhammed, nell'ultima scena del secondo atto. Dopo Saverio Bettinelli, l'altro grande modello è Pietro Metastasio[61] e le tragedie Catone in Utica, Didone abbandonata[62] ed Artaserse, quest'ultima ripresa nel finale per il giuramento di Amet davanti ai sudditi.[63] L'espressione «vindice di libertà», spesso ripetuta da Nizam per ingannare Osnam, è del Catone in Utica;[64] altre suggestive espressioni provengono dall'Alfieri e dalla stesso Monaldo,[65] mentre non manca neanche il poeta preferito su tutti, Torquato Tasso: la metonimia liquido/sereno del nono canto della Gerusalemme liberata[66] puntella tutta la lunga battuta in cui Amet spiega la sconfitta di Nizam voluta dal Cielo.

Gli esempi evidenziano una disciplinata ma complessa e consapevole applicazione delle strutture poetiche e dei principali registri retorici,[67] e la volontà di rappresentarsi come un autore di teatro che vede nel pubblico l'oggetto di una comunicazione suggestiva, morale, edificante.[68]

Cuore del dramma sono il sentimento di libertà e il continuo confronto/scontro tra padre e figlio, con il principe dal fare eroico (L'opre di questa destra oro or vedrai) che taccia sovente il sovrano afflitto da indegna vergognosa viltà. L’odio contro il tiranno è uno degli argomenti di rilievo nel teatro gesuitico, un tema necessario a confermare i valori del bene attraverso la figura di un eroe virtuoso, disposto al sacrificio di sé, contrapposto al maligno potere terreno.[69]

Nei versi della Virtù indiana troviamo un lessico ricercato, potente e a tratti maturo; le parole hanno un sapore nuovo, si avverte l'originalità di un'accezione tutta leopardiana. Il Tusiani per primo rintraccia alcuni passi significativi, in cui emergono i nuovi accostamenti:

l'aggettivo funesto accoppiato a è una tipica predilezione leopardiana, che preannuncia lo sconsolato assioma del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia:

«In quel funesto dì, che d'armi vide / Cinto e d'armati Koulikam feroce / Trionfar vittorioso, e dure leggi / Imporre al popol mio sconfitto e vinto.»

«Mio fido all’uopo / L’ardir richiama, che in quel dì funesto / Per la patria mostrasti, il ferro tuo .»

 
Ugo Foscolo

«Forse in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dí natale.»

l'uso di paga con valore di sazia, appagata:

«[...] E ancora non resta / Pago del nostro sangue il rio destino?»

«Ancor non sei tu paga / Di riandare i sempiterni calli?»

preferenze di chiusura dell'endecasillabo:

«[...] è questo il suolo / Che mi dié vita, in cui bambino appresi / Il giusto, il dritto, ed il dover qual sia?»

«Il patir nostro, il sospirar, che sia,»

i tipici e felici accostamenti di termini poeticissimi:

«inutil frutto / Sarian di ciò funeste stragi, e sangue»

«Questi moti del cuor seconda, o amico»

 
Vittorio Alfieri

«...non ha la vita un frutto, / Inutile miseria»

«...i teneri / Moti del cor profondo»

«...i tristi e cari / Moti del cor, la rimembranza acerba»

«Assai / Palpitasti. Non val cosa nessuna / I moti tuoi, nè di sospiri è degna / La terra»

«...è fatto estrano / Ogni moto soave al petto mio»

i verbi prediletti:

«Oh Numi / Qual mai funesto orrore il cuor m'ingombra

«E un fastidio m'ingombra / La mente»

il coraggio e l'ardore patriottico del principe Amet:

«Dove il valor sen fugge?... andiam si serbi / Al trono il rege, il genitore al figlio, / La mia vita si sprezzi, e solo, oh cieli, / Solo il padre si salvi...»

«Perchè, perchè? dov’è la forza antica, / Dove l’armi e il valore e la costanza?», «l’armi, qua l’armi: io solo / Combatterò, procomberò sol io»

fino ai temi più cari alla poetica leopardiana, come l'umanità disprezzata dal Cielo e umiliata dal destino che, per la prima volta, si affaccia nei lamenti di Osnam e di Muhammed:

«(Osnam) [...] E tanto adunque, / Tanto in odio a voi siam, Barbari Numi?»

«(Muhammed) [...] E tanto, o Numi, / Dunque in odio a voi siam!»

 
Vincenzo Monti

«Ancora è pio / Dunque all'Italia il cielo; anco si cura / Di noi qualche immortale»

«Aure soavi / L'empio fato interdice / All'umana virtude»

«Dunque tanto i celesti odii commove / La terrena pietà? Dunque degli empi / Siedi, Giove, a tutela?»

«E se de' nostri affanni / Cosa veruna in ciel»

«E vegga quanto / È il gener nostro in cura / All'amante natura»

o prime prove di enumerazione allegorica che producono una crescente aspettativa (climax ascendente) e predispongono il lettore ad accogliere verità esistenziali ineluttabili:

«Tutto geme il Mogol; piange la Sposa / Il perduto consorte, orfano cerca / il fanciullo infelice il caro Padre; / Manca aratore al suol, guerriero al campo; /E qual presidio, o Numi, e qual difesa / De' Maratti al valor, del cielo all'ira / Oppor possiam?»

«[...] risorge il romorio / torna il lavoro usato. / L'artigiano a rimirar l'umido cielo / [...] vien fuor la femminetta a còr dell'acqua / [...]e l'erbaiuol rinnova / di sentiero in sentiero / il grido giornaliero. [...] apre terrazzi e logge la famiglia»

«[...] Torna l'azzurro il sereno, e tornan l'ombre/ [...] la squilla dà segno / della festa che viene; / [...] i fanciulli gridando [...] / fanno un lieto romore: / e intanto riede alla sua parca mensa, /fischiando, il zappatore»

Insieme alle reminiscenze scolastiche di Virgilio, Orazio e Pacuvio,[70] e alle letture giovanili del Monti e del Foscolo[71] Leopardi fa sfoggio, come accennato in precedenza, dell'ammirazione per il suo poeta preferito in assoluto, Torquato Tasso:

 
Torquato Tasso

«Qual nembo si dilegua, e qual procella / A lo spirar d’amico vento, o quale / Candida neve suole allor che sparge / Pel liquido sereno i raggi suoi / L’eccelso astro del dì»

«Di belve furibonde, e tigri ircane / Non è questo il ricetto?»

«Amico, hai vinto d'Ibraim le voci»

«Ciò che giova a noi lice»

«Tal suol, fendendo il liquido sereno, / Stella cader della gran madre in seno»

«E le mamme allattar di tigre Ircana»

«Amico hai vinto; io ti perdon: perdona»

«... S'ei piace, ei lice»

tutta l'introduzione dell'atto terzo, con il ricorrere della consonate liquida, deriva dall'onomatopeia del Concilio infernale della Gerusalemme liberata:

«Esulta il popol tutto, abborre ognuno /L’iniquo traditor; di labbro in labbro Già vola il nome tuo; solo fra tanta / Gioja confuso, e mesto infra l’oscure / Spaventose tenebre in carcer nero / Geme d’aspre catene avvolto, e stretto / L’empio ribelle ad ora ad or sul suolo / Lo sguardo affissa, e nel ritrae di sdegno / Acceso il cuor tra le focose vampe / D’indomito furor; la terra, il cielo / Malvagio accusa, e la nemica sorte / Maledicendo irrita, al volto, al crine / E danni arreca, ed onte, e brama ognora / Fuggir se stesso, e ove fuggir non trova.»

«[...]III.
Chiama gli abitator dell’ombre eterne / Il rauco suon della tartarea tromba: / Treman le spaziose atre caverne, / E l’aer cieco a quel romor rimbomba. / Nè sì stridendo mai dalle superne / Regioni del Cielo il folgor piomba, / Nè sì scossa giammai tréma la terra, / Quando i vapori in sen gravida serra.
IV.
Tosto gli Dei d’abisso in varie torme / Concorron d’ogn’intorno all’alte porte, / Oh come strane, o come orribil forme, / Quant’è negli occhj lor terrore, e morte! / Stampano alcuni il suol di ferine orme, / E ’n fronte umana han chiome d’angui attorte, / E lor s’aggira dietro immensa coda, / Che quasi sferza si ripiega, e snoda. […]»

Lo studio moderno delle composizioni drammatiche del Leopardi non procede più dall'analisi della riuscita teatrale o letteraria dei testi, ma individua i contesti e i modelli culturali, gli obiettivi e le risposte dell'autore, nel tentativo di porre in luce l'idea di teatro che si affermò nella coscienza del poeta. La critica storica ha spesso frainteso il disinteresse teatrale di Leopardi, interpretando male alcuni passi dello Zibaldone, oppure usando il concetto, un po' astratto, di non teatralità dei testi leopardiani, e di inettitudine del poeta alla scrittura drammatica.[72]

Storia del manoscritto modifica

«Gli autori stabiliti in vera fama non risicano già di caderne, perché uno spolveratore di biblioteche rechi all'aperto le cimature del loro ingegno o qualche miseria della lor gioventù o della vecchiezza»

Definito dal Bart, The elusive manuscript, La virtù indiana ha avuto una storia travagliata, conclusasi dopo oltre due secoli, nell'agosto del 2021 con la prima edizione italiana del testo con immagini a fronte.[85] Il manoscritto in origine era costituito da un fascicolo di 29 carte non numerate per un totale di 57 facciate, cucite con filo bianco.[86] Dopo la copertina e una carta bianca, il frontespizio: La / Virtù indiana / Tragedia / di / Giacomo Leopardi / 1811, circondato da un fregio decorativo a penna. In carta lievemente azzurrina, le pagine, rigate a matita - in 20 righe per facciata -, misurano cm 19 x 13 e sono riempite da una scrittura sorvegliata, con poche correzioni.[87] Sull'intitolazione originale del frontespizio, finemente ornato dall'autore, sono oggi presenti segnature aggiuntive di altra mano che interessano quasi tutte le parole.[73] La tragedia fu presentata da Giacomo al padre Monaldo il 24 dicembre 1811, come dono natalizio, secondo le consuetudini di casa Leopardi. Il manoscritto è segnato al n. 39 dell'Indice delle produzioni di me Giacomo Leopardi dall'anno 1809 in poi, compilato nel 1812: «La Virtù Indiana. Tragedia. 1811. Vol. 1, p.57».[88] Del manoscritto si perse traccia già pochi anni dopo la morte dell'autore.[89] Il manoscritto rimase probabilmente nella casa patronale, sotto custodia della sorella Paolina, che aveva ereditato l'amministrazione dei beni della famiglia Leopardi, come anni prima la madre Adelaide Antici. Subito dopo la morte dell'amato fratello la contessa fu assediata da molte richieste di autografi e ricordi del poeta, a cui, purtroppo, finì per cedere, e molti documenti andarono in gran parte dispersi.

Anteprime in riviste modifica

È molto probabile che uno di questi doni fu fatto a Don Emidio Galanti, che Paolina, sull'esempio dei genitori, tenne come precettore per i nepoti,[90] i figli di Pierfrancesco, fratello minore del poeta. A scoprire la tragedia tra le carte lasciate in eredità dal Galanti fu Alighiero Castelli che, in un articolo del 1922 (Una tragedia inedita di Giacomo Leopardi, in «Rassegna italiana», V 1922, serie II, vol. X, pp. 782–86) ne annunciava il felice ritrovamento, fornendo una prima, sommaria, descrizione, e pubblicando per la prima volta la notevole Prefazione. Il Castelli ricostruiva la storia del manoscritto, lodando la venerazione per il fratello di Paolina e la cura con cui le nipoti del Galanti si occuparono del manoscritto, non preoccupandosi di dare giudizi estetici sull'opera, ma rimarcandone l'importanza per comprendere lo sviluppo del genio leopardiano.

«Degli uomini come Giacomo Leopardi giova sapere tutto; e non v'è forse cosa che maggiormente attragga gli studiosi, quanto questi primi battiti di ale che preannunziavano i grandi voli.»

Le prime edizioni integrali modifica

 
La virtù indiana, a. I sc. prima

Negli anni '20 il manoscritto cambiò ancora proprietario, finendo a Parigi nella collezione di libri e manoscritti antichi di Federico Gentili di Giuseppe, grande estimatore del poeta e paziente ed abile ricercatore[91] di documenti e autografi leopardiani.[92] Il Gentili è stato il primo vero editore della tragedia, pubblicando nel 1926 un articolo con la recensione del testo, la preziosa Prefazione e, per la prima volta, l'Argomento; e raccogliendo poi questo contributo insieme con l'edizione integrale del testo in una pubblicazione dalla tiratura limitatissima, che sfuggì a tutti i principali studiosi di Leopardi: Una tragedia inedita di Giacomo Leopardi – La Virtù indiana, in «Nuova Antologia», n.1299, Vol. 61, maggio, 1926 pp. 13–27. Il Gentili, oltre a una massiccia modernizzazione della grafia, vari errori, come lo spostamento delle virgolette nella citazione dell'Algarotti, che attribuisce le sue parole a Leopardi, omissioni di versi e alcuni refusi,[93] individua per primo l'errore, non imputabile al giovane autore, in cui Leopardi si era imbattuto con la citazione bettinelliana di Voltaire, riguardo il divieto fatto alle donne di recitare.[94] Trova arido il soggetto prescelto ma, ex ungue leonem, loda alcuni passi, segno dell'ingegno precoce del giovane autore; di altri versi non coglie la dotta citazione e li annovera tra le esercitazioni scolastiche, piene di aggettivazioni, inversioni ed epiteti ridondanti, e fa un parallelo con la seconda tragedia del nostro, il Pompeo in Egitto, dallo studioso ritenuta più sobria. Il Gentili tenterà un primo di studio dei modelli e delle fonti del Leopardi e, insieme al già citato Bettinelli, farà raffronti con l'Alfieri e il Metastasio[95] e spiegherà la scelta dei tre atti come imitazione dei modelli allora in auge nelle scuole, di opere di autori come il Valori e il Granelli. Sull'abolizione dei cori, il Gentili riporta una citazione dello Zibaldone del 1823, in cui Leopardi ne riabiliterà l'uso nella poesia, perché atti a mantenere l'illusione poetica e a portare sulla scena una impressione di vago e di indefinito, trovando, tra i moderni, dei mirabili esempi nell'Aminta del Tasso e nel Pastor fido del Guarini.

Il manoscritto, dopo la morte naturale del Gentili avvenuta nel 1940, fu salvato da sicura confisca, insieme all'intero catalogo dei suoi libri antichi, dai figli, Marcello e Adriana, che prima dell'occupazione di Parigi, volarono Inghilterra e poi definitivamente negli Stati Uniti.

 
Biblioteca Houghton, Università di Harvard, Cambridge, Massachusetts, USA.

Pochi anni dopo il trasferimento, il ricco catalogo sarà venduto dagli eredi Gentili a un collezionista e, verso la fine degli anni '50, donato dallo stesso mercante d'arte alle istituzioni pubbliche.[96] Il primo ad occuparsi del manoscritto oltreoceano fu B.F. Bart che, nel giugno del 1950, sulla rivista Italica, pubblicò,[84] con recensione e commento del testo integrale, una nuova edizione[97] del manoscritto, scoperto pochi mesi prima nella collezione della biblioteca Houghton dell'Università di Harvard nel Massachusetts. Il Bart darà un'edizione più fedele nella grafia del testo rispetto al Gentili e farà osservazioni sull'uso della punteggiatura in Leopardi, ma, pur evidenziando alcuni passi di notevole pregio, non vide nel testo particolari meriti, e, sulla linea del Gentili, lo bollerà come l'opera di uno studente: the style of the play, it is best to admit it, is eminently that of a school-boy.[98]

Un anno più tardi, Giuseppe Tusiani tornerà sull'immagine di lavoretto scolastico tracciata dal Bart. Nel commentare queste parole, some of the other early Leopardi productions prefigure to some extent the later poet; this seems hardly the case with our play, l'accademico italoamericano elencò in un breve articolo del 1951[99] i segni già presenti di quell'originale poetica, sottolineando la perfezione formale di alcuni versi, come il Castelli e il Gentili, ma cogliendo più di altri il sapore nuovo e l'originalità degli stilemi del futuro grande poeta. Dopo una serie di brillanti esempi di lettura, assorbimento e riscrittura dei classici, che vanno da Virgilio al Tasso, il Tusiani celebrerà laVirtù indiana come il primo vero lavoro lirico del Leopardi per lunghezza e difficoltà compositiva: un'impresa cruciale nella formazione artistica del giovane autore.

«[...] il Giacomino della Virtù Indiana è già sacro, come s'è veduto, all'immortale Leopardi quale il mondo conosce.»

Edizioni critiche modifica

 
Riproduzione anastatica del 1991, a cura di E. Carini

La critica moderna ha ignorato entrambi gli studi americani fino agli anni '90[100] e tutte le più importanti edizioni complete sulle opere di Leopardi non sempre hanno riportato il testo integrale della tragedia, omettendo spesso Dedicatoria, Prefazione e Argomento.[23] La prima edizione critica in senso stretto del manoscritto si deve a Isabella Innamorati, che nel 1999 pubblica una monografia sul teatro leopardiano, raccogliendo tutti e cinque i testi drammatici prodotti dall'autore nel corso della sua vita: La virtù indiana, Pompeo in Egitto, Maria Antonietta, Erminia e Telesilla. Nel saggio introduttivo la Innamorati ricostruisce i nessi principali che hanno contribuito al formarsi di un'idea di teatro nella coscienza del giovane poeta: dai profondi legami esistenti tra la didattica di casa Leopardi e il teatro di collegio della scuola pedagogica dei Gesuiti, al rapporto strettissimo tra la cultura conservatrice di Monaldo e il desiderio di prepotente affermazione di Giacomo, fino alla definizione dei passaggi principali che hanno influenzato l'evoluzione del sentimento di Leopardi per l'arte drammaturgica, rilevandone, finalmente, tutta l'importanza all'interno della sua poetica. Il testo critico è stato stabilito sulla base di un microfilm in b/n del manoscritto fornito dall'Università di Harvard,[100] ed è seguito da un Apparato in cui sono stati dichiarati i principi del metodo ecdotico intrapreso; nella pubblicazione, tuttavia, non sono riportate immagini del manoscritto a scopo esemplificativo.[101]

Insieme all'imprescindibile lavoro critico di Isabella Innamorati, si segnala l'importante edizione anastatica di Ermanno Carini del 1991.[100] La riproduzione su carta del manoscritto, basata su un microfilm in b/n, è oggi del tutto inutilizzabile dopo la recente digitalizzazione a colori della tragedia, ma al Carini va certamente dato il merito di aver riscoperto il manoscritto presso la biblioteca Houghton di Harvard. Dopo aver letto una notizia preziosa su un articolo francese del Barthouil, che in nota indicava per la prima volta il lavoro del Bart,[102] il Carini si è attivato per ottenere delle immagini del prezioso manoscritto, che sono arrivate al CNSL da Harvard per il tramite di Massimo Pesaresi, docente negli Stati Uniti e curatore americano in quel periodo, con Emilio Speciale, della bibliografia leopardiana. Nella nota didascalica di corredo alle immagini, per primo ha segnalato e interpretato puntualmente i segni sulla copertina del manoscritto (la “copertina” è caduta nella mani di una bambina, che si è divertita a modificare le parole; ha lasciato anche la sua firma),[73] suggerendo agli studiosi indizi utili per comprendere il misterioso viaggio dell'autografo dall'Italia alla Nuova Inghilterra.[103]

Note modifica

  1. ^ [...] je ai entrepris d’ecrire une Tragedie [...], Lettera al padre Monaldo, Natale, 1811. Cfr. Brioschi-Landi, vol. I, p. 8.
  2. ^ Monaldo Leopardi, Il Montezuma, 1799 (pubblicato in forma privata da Salomoni, Roma 1802); Il Convertito, 1800, inedito; Il Traditore, 1803, inedito.
  3. ^ a b Il Becattini riassumeva così gli argomenti principali: « [...] l’impero del Mogol fondato dal gran Tamerlano sul principio del secolo XV, vasto, ricchissimo et situato sotto il più bel clima della terra, popolato da circa novanta milioni di abitanti, [...] verso il 1750 provò i disastri i più spaventevoli e divenne un teatro di orribili tragedie. Muhamed-Cha, che vi regnava da quasi trent’anni (pronipote dell’illustre Imperatore Aurang-Zeb, il quale sul terminare del decorso secolo avea non meno di Luigi XIV diffusa la sua fama fino agli estremi confini del mondo, e si era reso formidabile a tutte le nazioni) sottrattosi appena dal potere del predetto feroce conquistatore Koulikam, provò il dolore di vedere i suoi primi sudditi ribellarsigli contro, armarsi delle sue proprie beneficenze, divenire altrettanti Sovrani ne’ governi ad essi affidati, ed in fine morir par mano de’ suoi ministri, lasciando a suo figlio una Monarchia scossa fino dai fondamenti, un'autorità senza forza, e un dominio che si estende appena alle due capitali di Agra e Delhi, e senza altra rendita, ed esercito se non quello che contribuir gli vogliono i possessori dell’Imperial dominio. Tale è lo spettacolo che ci offre il Mogol o sia l'Indostan e che merita di esser conosciuto». Cfr. BecattiniIstoria, pp. 83-84.
  4. ^ « [...] si vedono qui, più che nel Pompeo in Egitto i costrutti, le predilezioni stilistiche, il sapore nuovo di certi aggettivi e termini che nel vocabolario di domani troveranno quella originalità di accezione tutta leopardiana; e si riscontra infine, se si sappia vedere, non già, come ho detto, la filosofia del Recanatese ma il tema di essa.» Giuseppe Tusiani, Osservazioni su "La Virtù Indiana" di Giacomo Leopardi, in Italica, vol. 28, n. 2, American Association of Teachers of Italian, giugno 1951, pp. 111-114, DOI:10.2307/475452. URL consultato il 1º gennaio 2021.
  5. ^ Giacomo Leopardi, Ricordi di infanzia e di adolescenza, in Scritti vari inediti, 1906.
  6. ^ Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, p. 4234,5 del 15 dicembre 1826.
  7. ^ Il teatro ligneo a palchetti era allestito all'interno di una sala del vecchio palazzo comunale, per concessione del consiglio municipale, e fu smantellato in seguito all'abbattimento del palazzo nel 1872, per far posto all'attuale piazza Giacomo Leopardi su cui affaccia il nuovo palazzo municipale. Il vecchio teatro, in degrado e pericolante, era in disuso già dal 1827.
  8. ^ I Padri della Compagnia, attraverso le rappresentazioni sulla scena, celebravano momenti di vita da imitare o da condannare sull'esempio di Cristo. Per i Gesuiti il teatro rappresentava un modello di formazione delle coscienze e delle classi egemoni. Le rappresentazioni vere e proprie a Recanati erano per lo più occasionali e legate al gruppo aristocratico proprietario del teatrino; erano sottoposte alle norme sul teatro emanate da Roma: su tutte, il divieto per le donne di comparire sul palcoscenico; un divieto rimasto in piedi fino all'età napoleonica e che influenzerà i lavori drammaturgici di Monaldo e poi di Giacomo.
  9. ^ Nella sua Autobiografia Monaldo ricorda uno spiacevole episodio capitato in occasione del suo matrimonio, poi saltato, con una nobildonna bolognese nel 1797, quando crea una società con altri nobili recanatesi per rappresentare «una buona opera in musica» nel teatro cittadino: a prove ultimate, un messo napoleonico proveniente da Ancona si portò via «tutta intiera la compagnia di musici e ballerini». Cfr. Monaldo Leopardi, Autobiografia, cap. XXXVII, p. 78.
  10. ^ Anche Recanati però conoscerà il trionfo rossiniano a partire dal 1823, con le rappresentazioni de L'italiana in Algeri e La Cenerentola.
  11. ^ L'influenza di queste preferenze musicali in Giacomo resta in alcuni abbozzi drammatici, dove sono appuntati passi in cui inserire brani lirici ecc.
  12. ^ In questa cultura eminentemente lirica del paese marchigiano nasce e si forma in giovane età un altro famoso recanatese, Beniamino Gigli, uno dei più celebri cantanti d'opera del XX secolo.
  13. ^ Da un manifesto stampato dopo la rappresentazione della commedia "La parrucca": «Al Goldoni recanatese Signor Conte Monaldo Leopardi di celebre figlio famoso padre il quale tra le molteplici sollecitudini del pubblico e privato governo studiando l'uomo con verità di caratteri e d’espressioni lo ha perfettamente ritratto in più toccanti plaudite sceniche produzioni il colto popolo di Recanati commosso rallegrato dall’ultima avente il titolo Una parrucca rappresentata nel teatro dei Signori Condomini da scelta comica compagnia nel carnevale dell’anno MDCCCXXII consacra con esultanza di cuore questo monumento perpetuo di parzialità e di compiacenza con raggiunta dei stimoli più forti e degl’auguri i più felici onde il prestantissimo autore s’innoltri nella difficile camera sua non meno che a gloria e fama della sua patria e dell’italiano suolo ‘delle scienze e dell’arti e culla e sede’». Cronologia delle commedie di Monaldo: L’assalto, ovvero li Francesi battuti (1800), I tre fratelli (1802), L'isola selvaggia (1802, ma rifatta nel 1819), Uno scherzo (1819), Una parrucca (1819), Una sporcheria (1819), Una posta di campagna (1822). Cfr. Camillo Antona Traversi, Monaldo Leopardi commediografo, Roma, Centenari, 1888.
  14. ^ L'unica eccezione è un veloce riferimento alla compagnia Parigi in una lettera del 6 gennaio 1823 a Carlo durante il soggiorno romano. Cfr. Brioschi-Landi, vol. I, l. 489, p. 612
  15. ^ Rispetto alla drammaturgia coeva, Monaldo osserverà nello stile, nella forma e nell'intreccio delle sue tragedie, un approccio più conservatore: si osservi la presenza dei confidenti, personaggi eliminati, ad esempio, dall'Alfieri.
  16. ^ «Portai la spada ogni giorno come i cavalieri antichi e fui probabilmente l’ultimo spadifero dell’Italia, finché nel 1798 sotto il Governo repubblicano questo costume nobile e dignitoso decadde affatto». Monaldo Leopardi, Autobiografia, cap. XXII, p. 36.
  17. ^ Nel 1823 Monaldo elaborò un programma per l’erezione del teatro, parlandone prima col cognato, Carlo Antici, e poi con la Congregazione dei Condomini, la nuova società finanziatrice dell'edificio, insieme al Municipio recanatese, finendo per affidarne la fase esecutiva dei lavori a Tommaso Brandoni di Recanati. Giacomo da Roma ne sapeva qualcosa per via del coinvolgimento dello zio, ma non riuscirà mai a vederlo attivo perché terminato dopo la sua morte. Il teatro fu inaugurato il 7 gennaio 1840 con Il furioso all'isola di San Domingo del Donizetti, e successivamente intitolato al musicista recanatese Giuseppe Persiani.
  18. ^ Sebastiano Sanchini nacque a Laureto, frazione di Mondaino, allora territorio dello Stato Pontificio, il 19 gennaio 1763. Ultimo di sette fratelli e sorelle, figlio di Pietro e Brigitta, agricoltori benestanti, si formò culturalmente nel Convento di Monte Formosino. Nominato sacerdote nel 1786, qualche anno più tardi preferì la strada di maestro-precettore in casa di famiglie altolocate. Nel 1800 si trasferì presso la famiglia dei Conti Cassi di Pesaro, congiunti dei Leopardi. Nel 1807, su consiglio del suo ex allievo, Francesco Cassi, il Conte Monaldo Leopardi chiamò Don Sanchini a Recanati perché facesse da maestro ai figli Giacomo, Carlo, Paolina e Luigi. La scuola domestica, personalmente seguita da Monaldo e modellata sul sull'esempio pedagogico gesuitico, favorì principalmente lo studio dei classici, rivelando la felice predisposizione agli studi dei giovani, in particolare di Giacomo che tra i fratelli emergeva per memoria e ingegno. Don Sanchini terminò l'insegnamento in casa Leopardi il 20 luglio 1812, ed è ricordato con affetto dal poeta in due scritti: una poesia giovanile scoperta in anni recenti e alcune parole di cordoglio, rilasciate in occasione della morte del maestro, avvenuta il 23 luglio 1835, sul frontespizio del libro Poesia e prose in morte di Amaritte di G.L.Pellegrini:

    Donato alla libreria Leopardi
    per lo chiarissimo e dottissimo uomo il Signor Don Sebastiano Sanchini
    morto tra le lacrime di tutti i buoni e vero cordoglio dei suoi moltissimi amici.

    Cfr. Rosa Sanchini Forestiere, Don Sebastiano Sanchini Precettore del poeta Giacomo Leopardi, Centro Studi Leopardiani, Mondaino, 1991.
  19. ^ «L'ottimo Torres fu l'assassino dei miei studi», dirà poi Monaldo per ricordare le difficoltà affrontate nella sua formazione. Ibidem, cap.VII, p. 8.
  20. ^ La recita di Natale divenne una consuetudine familiare, particolarmente sentita da Giacomo, come dimostrano i diversi scritti giovanili composti per l'occasione: Per il santo Natale, Il Paradiso Terrestre.
  21. ^ Monaldo Leopardi, Una pastorale e due ecloghe per il Santo Natale, a cura di Camillo Antona Traversi, Roma, Centenari, 1888.
  22. ^ Gli allargamenti eruditi, rispetto ai tipici canovacci dell'Ordine gesuitico, verso nuovi e più aggiornati contenuti culturali e letterari, sono stati probabilmente influenzati dall'amicizia con Antonio Vogel.
  23. ^ a b Incompleta si legge in: Binni-Ghidetti 1969, Davico Bonino 1990 e Felici-Trevi 1997; ma sono recuperate in Rigoni 1985. Per dettagli, consulta la Bibliografia.
  24. ^ Castelli, p. 5.
  25. ^ Leopardi inizierà a studiare francese a partire dal 1809, un anno dopo aver ereditato la collezione libraria dello zio, Pier Niccolò Leopardi Antici, che aveva arricchito la biblioteca di famiglia di molti testi francesi. Cfr. Nicole Serban, Leopardi et la France. Essai del litérature compareé, Paris, Champion, 1913.
  26. ^ Il giudizio del padre è prova della concezione dell'esperienza drammaturgica come livello più avanzato di scrittura poetica e rientra pienamente nelle convinzioni estetiche di Monaldo e del suo progetto pedagogico.
  27. ^ Le Dissertazioni filosofiche, scritte da Giacomo Leopardi tra 1811-1812, sono ampie esposizioni su nozioni di scienza, storia e filosofia, e argomentano in dettaglio di logica, metafisica, fisica e morale. Sono lavori scolastici e accademici contenuti in cinque quaderni manoscritti e divisi, tranne l’ultimo, in altrettante parti. La prima parte, del 1811, comprende una dissertazione logica: I. Sopra la logica universalmente considerata, e quattro dissertazioni metafisiche: I. Dissertazione sopra l’ente in generale, Dissertazione sopra i sogni, Dissertazione sopra l'anima delle bestie, Dissertazione sopra l'esistenza di un ente supremo; la seconda e la terza parte, anch’esse scritte nel 1811, sono formate ciascuna da cinque dissertazioni fisiche: II. Dissertazione sopra il moto, Dissertazione sopra l'attrazione, Dissertazione sopra la gravità, Dissertazione sopra l'urto dei corpi, Dissertazione sopra l'estensione; III. Dissertazione sopra l'idrodinamica, Dissertazione sopra i fluidi elastici, Dissertazione sopra la luce, Dissertazione sopra l'astronomia, Dissertazione sopra l'elettricismo; mentre la quarta e la quinta, del 1812, rispettivamente di cinque dissertazioni morali: IV. Dissertazione sopra la felicità, Dissertazione sopra la virtù morale in generale, Dissertazione sopra le virtù morali in particolare, Dissertazione sopra le virtù intellettuali, Dissertazione sopra alcune qualità dell'animo umano, che non sono nè vizj nè virtù; e tre dissertazioni aggiunte, una di logica: V. Dissertazione sopra la percezione, il giudizio, e il raziocinio, e due di metafisica: V. Dissertazione sopra le doti dell’anima umana, Dissertazione sopra gli attributi e la provvidenza dell’essere supremo. Tale suddivisione tematica riflette il modello enciclopedico-illuminista dello scibile umano: metafisica (scienza di Dio), logica e morale (scienze umane), fisica (scienza della natura). Le Dissertazioni metafisiche contengono in particolare la Dissertazione sopra l’anima delle bestie, scritta nel 1811, dove Leopardi, riprendendo un testo di Gerolamo Rorario, Quod Animalia Bruta Ratione utantur melius Homine (1554), attribuisce la ragione alle bestie e ne ipotizza un migliore uso da parte loro rispetto agli uomini, anche se per questo non si possa sostenere l'immortalità delle loro anime. Cfr. Giacomo Leopardi, Dissertazioni filosofiche, a cura di Tatiana Crivelli, Antenore, Cittadella-Padova, 1995.
  28. ^ A partire dal 1730 il teatro di collegio, secondo la tradizione pedagogica gesuitica di modernizzare e innovare conservando, si rinnovò riportando sulle scene gli argomenti delle sacre scritture, il rispetto delle tre unità, la soppressione dei cori in favore dell'eloquenza dei personaggi, e l'inserimento di autori moderni come Corneille e Voltaire, uomini educati nei collegi della Compagnia.
  29. ^ «Il teatro deve essere la scuola della virtù e l'incorruttibile tribunale davanti a cui la vendicata innocenza, i misfatti puntiti e le passioni rivolte ad utilità consolano ammaestrando lo spettatore», Saverio Bettinelli, Lettera all'Altezza Reale della Serenissima Principessa Maria Beatrice Ricciarda d'Este, arciduchessa d'Austria, Opere cit. tomo XIX p. 57.
  30. ^ Terza tragedia del Bettinelli, dopo il Gionata (1753) e il Demetrio (1754), rappresentata al Collegio dei Nobili di Parma nel Carnevale del 1756. Bettinelli, maestro di retorica, critico letterario e grande intellettuale italiano del periodo illuminista, ebbe un ruolo significativo nel rinnovamento del teatro di collegio nel XVIII secolo, diffondendo i tragici francesi, in particolare Voltaire, secondo la poetica esposta nel suo trattato Del teatro italiano (1800).
  31. ^ Innamorati, p. 27.
  32. ^ Come già rilevato dal Gentili, la citazione trovata in una nota del Bettinelli non è presente in alcun testo di Voltaire e l'associazione è da attribuire ad un equivoco interpretativo del nostro.
  33. ^ Al Serse si aggiunge la Sedecia, tragedia senza donne di Giovanni Granelli, presente nella biblioteca paterna. L'esclusione delle donne, da un punto di vista pratico, è da imputare principalmente alla severa educazione domestica e alle leggi pontificie, che esplicitamente vietavano le rappresentazioni con l'intervento delle donne.
  34. ^ Dopo il sacco di Deli, il re Muhamed decide di cambiare il governo assoluto del Mogol e lo trasforma in una monarchia feudale, affidando il controllo del territorio a dei viceré, tra cui Nizam, un Raja che aveva tradito, favorendo la discesa verso l'India del feroce Koulikam, scià di Persia, e che ora stava tramando di uccidere il sovrano e instaurare la repubblica, con l'aiuto delle popolazioni maratte da tempo ostili alla corona. Alla notizia delle ribellioni, Muhammed riunisce il consiglio per affidare a un generale la difesa del regno, ma trova solo il giovane principe Amet disposto a sacrificarsi per la causa. Alla partenza del principe, ventidue congiurati si avventano contro il sovrano strangolandolo e defenestrandolo. Intanto, dal campo di battaglia, le magnanime gesta del principe convincono alcuni Raja a non ucciderlo ma ad avvertirlo del pericolo imminente. Amet, determinato come in battaglia e pronto a prendere la guida del Mogol in nome del popolo, uccide immediatamente tutti congiurati che non si erano pentiti, tra cui Nizam, e ne fa appendere l'indomani nella reggia le teste mozzate come monito feroce.
  35. ^ Il cuore della tragedia sono le parole che in punto di morte Luigi XIV avrebbe proferito al Delfino, suo erede, ancora fanciullo. Bettinelli trovò quelle espressioni paradigmatiche di un grande animo e di un grande re: massime ideali in un'opera di formazione del perfetto monarca. Per amplificare il risultato, le mette in bocca ad un sovrano che era l'opposto del Re Sole, Serse, che si rivolge al proprio figlio, erede al trono, Artaserse. Cfr. Saverio Bettinelli, A monsieur Collet secretaire de Cabinet de S. A. R. Madame Infante, Opere cit. tomo XIX p. 48.
  36. ^ Un tratto di attualità, neanche troppo velato, considerando il pubblico aristocratico cui si rivolgeva il dramma, che rimanda ad un altro celebre falso liberatore: Napoleone Bonaparte. Per Monaldo si trattava di una ferita ancora aperta: il vivo disprezzo per quel regime libertario alimenterà le pagine più assolutiste e reazionarie nei suoi famosi Dialoghetti del 1831.
  37. ^ Le regole della Compagnia vietavano espressamente agli allievi la frequentazione di spettacoli pubblici (erano divieti di natura diversa: si andava dal teatro alle esecuzioni capitali ecc.); l'unica forma di teatro disponibile giungeva attraverso la pagina scritta e gli spettacoli degli allievi nei collegi.
  38. ^ Leopardi probabilmente non pensava ad attori professionisti, non avendo mai avuto esperienze teatrali al di fuori di Recanati o del teatro comunale, ma si forzerà comunque di scrivere un testo adatto ad essere rappresentato non solo dalla gioventù nobile locale.
  39. ^ Leopardi apre in modo simile al Serse (Nizam/Magabizo):

    «Ah, no, mio fido, del mio cuore oppresso / l'affanno mitigar tu cerchi invano, Virtù, a. I, sc. 1, vv. 1-2

    «No, Magabizo, chi rivolge in mente / Pensier di regno, non all'ozio serve, Serse, a. I, sc. 1, vv. 1-2

    Nella tragedia di Bettinelli il traditore racconta i suoi piani a un confidente già nel scena iniziale.

  40. ^ Gli eventi narrati si svolgono circa dieci anni dopo il sacco di Deli ad opera dell'esercito di Koulikam
  41. ^ Nella realtà storica il Primo ministro si era ritirato nella provincia di Golconda perché Mohammed aveva scoperto i suoi sentimenti ostili verso la corona. Affidando a Nizam le file dell'esercito invece che al figlio del re, Amet Shah, che lo aveva ottenuto nella realtà, Leopardi si discosta dal resoconto del Becattini per rendere più ricco e drammatico il quadro scenico nello sviluppo della trama: per [...] maggiormente rilevare l'empietà del traditore (ibid., Prefazione).
  42. ^ Espediente dell'azione scenica che Leopardi riprende dal Serse.
  43. ^ Nel manoscritto il v. 72 compare tra parentesi, da leggersi teatralmente come a parte, segnale narrativo che indica al lettore lo stato d'animo turbato e confuso di Osnam. Secondo il Bart qui Leopardi inizia a staccarsi dall'imitazione del Serse, perché il personaggio di Magabizio has no scruples di coscienza e di lealtà a le sacre leggi (cfr.Bart, p. 143, nota 34). Il personaggio ritratto dal Bettinelli assomiglia più a Ibraimo che a Osnam e solo sotto questo aspetto si può ancora ravvisare una similitudine nello sviluppo della trama tra la Virtù indiana e il Serse.
  44. ^ « [...] ai Duci avversi / È palese l'arcano, e tutto a noi / Lice sperare [...] e forse il giogo / Scuoter potremmo un dì [...] », Ibidem, vv. 94-98.
  45. ^ Sono versi particolarmente felici che si legano al discorso di incoraggiamento della scena settima, dove Nizam sprona Osnam a lasciar andare il suo desiderio di gloria. Entrambi i momenti saranno lodati dal Gentili. Cfr. Gentili, 1926.
  46. ^ Si tratta del virgiliano Una salus victis nullam sperare salutem, Virgilio, Eneide, II, 354
  47. ^ Per il Gentili questi versi sono una grande prova del giovane Leopardi.
  48. ^ La tragedia si chiude bruscamente, tuttavia mancano pochi versi alla fine, ricostruibili grazie agli argomenti della Prefazione: Amet-Schah in una scena esterna sulle mura del palazzo reale, di fronte al popolo tutto si offre come re e padre e, in una catarsi della riconciliazione, perdona i suoi nemici, tra cui Nizam, salutando le nuove promettenti sorti del Moghul.
  49. ^ Innamorati, Introduzione p. 23.
  50. ^ Cfr. Marc Fumaroli, Eroi e oratori: retorica e drammaturgia secentesche, Il Mulino, Bologna, 1990.
  51. ^ Poesia e drammaturgia, a partire da Euripide e in latino da Ovidio, sono sempre state emanazione del genere dimostrativo o epidittico, specialmente a partire dal XVII secolo: gli autori trasferiscono nei propri versi il tribunale o il governo politico, e quando il transfert avviene sul palcoscenico è anche superfluo, perché la scena tragica è essa stessa, per costituzione, una cattedra dimostrativa.
  52. ^ Attraverso l'inventio l'autore/oratore non inventa nuovi contenuti ma ritrova argomenti che esistono già, pesca dai propri loci memoriae, scolastici e non, per costruire blocchi di battute con diversi generi retorici secondo necessità.
  53. ^ Ibidem, a. I, sc. 1, v. 26.
  54. ^ È uno dei tre generi del discorso retorico descritto da Aristotele nella Retorica: il deliberativo (usato per consigliare i membri di una comunità), il giudiziario (usato nei processi per accusare o difendere secondo giustizia), l'epidittico (usato per l'elogio o il biasimo di qualcuno davanti a un pubblico).
  55. ^ «Non merta fe' che non la serba altrui», Metastasio, Didone abbandonata, a. I, sc. 7.
  56. ^ Leopardi recupera nella stessa scena anche il tropo del lamento (questus), con le parole di Amet (vv. 428-34) e di Ibraimo (vv. 456-62), tecnica impiegata in precedenza nell'idillio L'Amicizia e In morte Sodalis dilecti, questus per verba metaphorica, entrambi lavori del 1809. Cfr. Corti, p. 23 e 429.
  57. ^ Così nell'esercitazione latina del 1809: «[...] Omnes tu facile vincis robure, et vigore. O maxima fortitudo! O invidenda gloria! Sed tota sit tua, illaque solus fruaris, Diique ab omnibus arceant». Cfr. Corti, p. 433.
  58. ^ «Venit summa dies» (Eneide, l. II, v. 324), «Arma, viri, ferte arma, vocat lux ultima victos» (Ibidem, l. II, v. 668).
  59. ^ Le prove giovanili tra 1808 - 1810 forniscono a Giacomo il bagaglio lessicale dell'azione guerresca; composizioni in versi e in prosa che pescano dall'Iliade cesarottiana, dall'Eneide del Caro, dall'Ossian del Macpherson e dalle Notti dello Young: Il Balaamo, I Re Magi, Catone in Affrica e Le notti puniche. Cfr. Corti, 1972.
  60. ^ Dopo la lettura dell'Eneide io andava di continuo spasimando, e cercando maniera […] di far mie quelle divine bellezze. […] e non ebbi pace infinché […] non mi fu avventato al secondo libro del sommo poeta.
  61. ^ Sfruttato spesso da Leopardi nei momenti di forte coloritura drammatica: «Che fede, che amistà? Tutto è perduto: / altra speme non resta / che terminar la vita, / ma con l'acciaro in man» (Arbace risponde a Fulvio in Catone in Utica, a. II, sc. 10)
  62. ^ Virtù, vv. 252-53: «Della promessa fede ognor, mio duce / Esecutor fedele Osnam vedrai»; Didone abbandonata a. II, sc. 3: «Sempre in me de' tuoi cenni / il più fedel esecutor vedrai».
  63. ^ L'Artaserse torna anche nel turbamento interiore di Ibraimo: Virtù, vv. 585-86 «Ondeggia incerta / Quest'alma mia fra mille affetti»; Artaserse, a III, sc. 3: «Ondeggio / fra mille affanni e mille orribili sospetti».
  64. ^ Virtù, vv. 147-48: «vindice invitto / Sarai di libertà»; Catone in Utica, scena ultima: «la libertà oppressa il suo vindice avrà».
  65. ^ Virtù, v. 571: «la spada ultrice»; Saul, a. IV, sc. 4: «rovente spada ultrice».Virtù, v. 76: «importuna pietà»; Montezuma, a. II, sc. 4: «inutil pietà».
  66. ^ Il modello tassesco era già stato sperimentato nei Re Magi del 1809.
  67. ^ Innamorati, p. 44, nota 18.
  68. ^ La funzione rivelatrice del teatro dominerà la sensibilità dell'autore in tutta la sua produzione drammatica e farà del suo pubblico il destinatario privilegiato di una comunicazione sconvolgente, cfr. Innamorati, p. 46.
  69. ^ «Tyrannus fuit ergo Caesar; tyrannum omnes agnoscant, Romanaeque Libertatis ruinae caussa in Caesare clare videbitur». Così Leopardi si esprimeva sulla tirannide e sull'amore per la libertà del popolo romano, in una dissertazione accademica in latino, Caesarem Tyrannum fuisse rationibus probatur, del 1810. Cfr. Corti, p. 383.
  70. ^ La scena iniziale dell'Iliona di Pacuvio, dove il fantasma di Deipilo chiede alla principessa troiana Iliona di vendicarlo, sembra tornare nel lamento di Ibraimo, a. III, sc. 3: «ah ferma [...] / T’arresta ombra fatale... » («Age asta; mane audi! Itera dum eadem istaec mihi», Iliona v. 212).
  71. ^ Virtù, a. I, sc. 3 v.92: «E pianti, e grida, e luttuoso orrore»; Dei sepolcri, v. 212: «E pianto, ed inni, e delle Parche il canto»).
  72. ^ Innamorati, p. 11, nota 18.
  73. ^ a b c Il primo a interpretare queste segnature fu Ermanno Carini, pubblicando una versione anastatica del manoscritto nel 1991. Sulla base della prima L si legge «uisella», a sinistra della lettera V è stata ricavata una «M», internamente alla V si trova scritto in senso verticale ascendente «azzocchi»; la parola Indiana ha subito diversi ritocchi e potrebbe leggersi Ascolana, da cui si ricava: Luisella Mazzocchi Ascolana. La T di tragedia si è trasformata in un cuore sanguinante con alcune lettere cancellate (d > v) o trasformate (a > tE) e la parola Leopardi potrebbe leggersi Rabinut o Pabinut. Cfr. Carini, p. 50. Altre preziose informazioni ed integrazioni allo studio del Carini, ad eccezione di un compendio della Innamorati nel 1999, che ha rimesso in ordine cronologico tutti i passaggi di proprietà del documento e avanzato alcune osservazioni sul silenzio circa le segnature da parte dei primi critici, sono arrivate solo nell'aprile del 2021, quando la biblioteca di Houghton ha messo a disposizione immagini a colori ad alta risoluzione del manoscritto: sulla parola Leopardi è oggi possibile leggere chiaramente il cognome Polimanti e quindi dare un nome (Giacomo Polimanti?) al personaggio che trafigge il cuore della giovane Luisella ecc.
  74. ^ Si esclude dall'elenco il Tusiani, perché non esiste prova che abbia visionato il cartaceo.
  75. ^ Allo stato attuale, si possono fare solo delle ipotesi: il Castelli, primo editore, preso dall'eccezionalità del ritrovamento e per cultura critica dell'epoca, non si preoccupò di rilevare insignificanti sbavature, riconducibili alle vicissitudini di trasmissione di un manoscritto; il Gentili, secondo proprietario, proverà l'autenticità dello scritto pubblicando la foto della bella grafia di due pagine interne, evitando quella in cui si evince anche la certosina perizia decorativa dell'autore, probabilmente perché impresentabile; similmente il Bart che, visionato il manoscritto, si limiterà a fare solo precise e interessanti osservazioni sulla punteggiatura.
  76. ^ Emidio è il nome per eccellenza del comune marchigiano. Il Galanti morirà a Roma nel 1868 e le nipoti, Maria e Vincenzina, ebbero cura del manoscritto fino al ritrovamento e all'identificazione del Castelli negli anni '20.
  77. ^ Basandosi sul microfilm a disposizione nel 1991, il Carini suggeriva per i segni che ricoprivano quasi interamente Leopardi nel frontespizio la parola Rabinut o Pabinut. La nuova digitalizzazione a colori, grazie ad una migliore risoluzione, permette oggi di leggere chiaramente Polimanti, cognome legato al territorio e probabilmente alle famiglie che ruotavano attorno ai Galanti: da un Annuario statistico dell'industria bacologica e serica del 1920, sappiamo che ad Ascoli Piceno operava la ditta delle Sorelle Polimanti, specializzata nella lavorazione dei bachi da seta.
  78. ^ Non si conosce la sorte del manoscritto tra il 1922 e il 1926, anno di inizio della proprietà Gentili; probabilmente è rimasto in custodia delle sorelle eredi Galanti, oppure nella disponibilità del Castelli: unica certezza è che le scritture sulla copertina rimandano tutte a famiglie del Piceno.
  79. ^ Il caso Gentili è un noto esempio di depredazione di opere d’arte a famiglie di religione ebraica, avvenuto in Francia, durante la Seconda guerra mondiale. Buona parte dell’importante collezione di quadri antichi del Gentili rimasta a Parigi, in seguito alla richiesta di un creditore, fu messa all’asta il 23 aprile 1941. Alcune opere furono acquistate, tramite intermediari, da Hermann Göring, altre da collezionisti e musei. Solo diversi anni dopo gli eredi Gentili riuscirono, attraverso una serie di sentenze favorevoli, che dichiararono nulle quelle compravendite, a tornare in possesso dell'eredità paterna. Cfr. Tullio Scovazzi, La restituzione dei beni culturali depredati alle vittime dell'Olocausto: la situazione in Italia, in IL DIRITTO ECCLESIASTICO anno cxxix 1-2 gennaio-giugno MMXVIII, Fabrizio Serra editore, Pisa – Roma, 2019)
  80. ^ Il patrimonio culturale del Gentili comprendeva una notevole collezione di quadri di pittori antichi, un gran numero di libri, documenti, manoscritti e persino un telescopio.
  81. ^ Sono circa una sessantina di opere schedate dal CERL.
  82. ^ Adriana R. Salem da sposata.
  83. ^ Ward Murphey Canaday
  84. ^ a b La ricerca delle fonti riguardo i passaggi da collezioni private a istituzioni pubbliche ha portato alla scoperta di alcune date di consultazione non corrispondenti. Il Bart pubblica il suo articolo nell'estate del 1950, affermando di aver scoperto il manoscritto in una collezione privata donata all'Università di Harvard: per la biblioteca Houghton, secondo i registri ufficiali di acquisizione del catalogo Gentili-Salem-Canaday, il manoscritto della Virtù indiana non sarebbe stato disponibile prima del 1955. Secondo la biblioteca è molto probabile che il manoscritto, prima di entrare a far parte ufficialmente della collezione americana, sia rimasto per alcuni anni nella disponibilità del responsabile del Dipartimento di arti grafiche e stampe dell'università di Harvard, Philip Hofer, e solo dopo un certosino restauro conservativo (che ci ha restituito il manoscritto come lo vediamo oggi, rilegato con copertina in pelle ecc.), sia entrato nel patrimonio dell'Università.
  85. ^ Dopo un primo file del documento a colori con immagini in buona risoluzione, fornito gentilmente dall'Università di Harvard al gruppo studio di Wikisource Italia nel maggio 2021, i responsabili delle digitalizzazioni della biblioteca di Houghton hanno pubblicato nell'estate dello stesso anno una scansione perfetta del manoscritto, liberamente accessibile sul sito istituzionale. Per approfondire, vedi Nota al testo dell'edizione Wikisource.
  86. ^ Il manoscritto oggi è formato da 28 carte per un totale di 56 facciate, perché mancante della carta finale su cui figuravano i versi conclusivi della tragedia, come già segnalato dal Castelli e dal Gentili.
  87. ^ Prima della pubblicazione del manoscritto in alta risoluzione a colori nell'agosto 2021 (vedi Nota al testo) la qualità del testo su microfilm, ancora utilizzato per l'edizione critica della Innamorati nel 1999, rendeva difficoltosa la lettura nelle ultime pagine a causa di alcune macchie d'inchiostro.
  88. ^ Questo Indice fu pubblicato per la prima volta nel 1906 negli Scritti vari inediti e solo allora divenne universalmente nota l'esistenza di un'altra tragedia giovanile di Leopardi insieme al Pompeo in Egitto.
  89. ^ Prospero Viani, in un nota di commento a una lettera di Francesco Puccinotti a Monaldo, in cui il medico di Urbino accennava ad alcune tragedie mostrategli da Giacomo, osservava: «Delle tragedie non si ebbe mai notizia se non d'una men che giovanile: Pompeo in Egitto». Cfr. Appendice all'Epistolario, Firenze, Barbera, 1878, p. XLVI.
  90. ^ Camillo Antona-Traversi, Paolina Leopardi, note biografiche condotte su documenti inediti recanatesi, S. Lapi, Città di Castello, 1898 p. 171
  91. ^ Nel corso dei studi, il Gentili mantenne importanti contatti anche con un altro grande studioso di Leopardi, padre Clemente Benedettucci, che nella sua imponente biblioteca privata, poi donata al Comune di Recanati, aveva una sezione di documenti e autografi dedicata al poeta.
  92. ^ Ermanno Carini, Giacomo Leopardi, La Virtù Indiana. Tragedia. Riproduzione anastatica del manoscritto, in Studi Leopardiani. Quaderni di filologia e critica leopardiana. “Leopardi e la cultura spagnola” n. 1, Il Lavoro Editoriale, Ancona,1991, p. 49.
  93. ^ Vedi nota al testo edizione Wikisource ecc.
  94. ^ Il Gentili individua la nota di una prefazione del Serse da cui Giacomo aveva preso tale e quale la sua citazione: «Il linguaggio puramente amoroso ha sempre disonorato il teatro francese, dice Voltaire nelle note della “Teodora” di Corneille e in tale altre sue opere ecc.», riporta il Bettinelli; e, ritrovando la notazione da cui tutto ha avuto origine, dimostra che le parole del filosofo di Ferney, avevano tutt'altro colore e sapore, rispetto alla parziale e incompleta citazione del Bettinelli. In sostanza, Voltaire rimproverava agli autori francesi di tragedie di rappresentare nei loro drammi piccoli amori borghesi, bassi intrighi e galanterie da commedia, invece che delle passioni violente e trascinati, le sole confacenti allo stile tragico.
  95. ^ Su Metastasio, il solo vero poeta dopo il Tasso, cfr. Zibaldone di pensieri p. 701,1, del 27 febbraio 1821,
  96. ^ Il manoscritto autografo de La Virtù indiana è oggi conservato presso la biblioteca Houghton dell'Università di Harvard nel Massachusetts, e digitalmente disponibile alla consultazione con la segnatura ms. Ital. 73.
  97. ^ In Europa il primo ad accorgersi di questo lavoro, diversi decenni dopo, pare sia stato il francese Georges Barthouil, che cita il Bart ne La Vertu Indienne, Pompée en Egypte – Tragédies. Traduction et introduction, Annales Universitaries d'Avignon, Numéro special, 1986, pp. 1-3.
  98. ^ F. B. Bart, La Virtù Indiana by Leopardi in «Italica», vol. 27, n. 2, American Association of Teachers of Italian, 1950, p. 140.
  99. ^ Giuseppe Tusiani, Osservazioni su “La Virtù Indiana” di Giacomo Leopardi in «Italica», vol. 28, n. 2, American Association of Teachers of Italian, 1951, pp. 111-114.
  100. ^ a b c Carini, pp. 48-50.
  101. ^ Sul testo critico stabilito dalla Innamorati si basa la prima edizione digitale del manoscritto con immagini a colori dell'autografo a fronte, pubblicata dal collettivo di trascrittori di Wikisource nell'estate del 2021. L'edizione digitale corregge alcuni refusi e segnali interpuntivi, grazie alla migliore qualità del testo visionato, oltre a presentare differenti scelte editoriali nella grafica, legate alle caratteristiche della piattaforma ospitante. Per dettagli, cfr. Nota la testo su Wikisource.
  102. ^ Si legge in La Vertu Indienne, Pompée en Egypte – Tragédies. Traduction et introduction de Georges Barthouil, Annales Universitaries d'Avignon, Numéro special, 1986, pp. 1-3, che […] le manuscrit de cette pièce n'a été retrouvé qu'assez récemment et son histoire est mou mouvementée (cfr. B.F. Bart, La “Virtù Indiana” by Leopardi, Italica, juin 1950 pp. 136-151).
  103. ^ Carini, p. 50.

Bibliografia modifica

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  • Giacomo Leopardi, La Virtù Indiana, manoscritto autografo, 1811.
  • Giacomo Leopardi, Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, a cura di E. Ariani, Firenze, Successori Le Monnier, 1906, IT\ICCU\SBL\0736501.
  • Alighiero Castelli, Una tragedia inedita di Giacomo Leopardi, La Virtù Indiana, in La Rassegna Italiana, II, vol. 10, maggio 1922, pp. 782-786.
  • Giacomo Leopardi, Puerili e abbozzi vari, a cura di Alessandro Donati, Bari, Laterza, 1924.
  • Federico Gentili, Una tragedia inedita di Giacomo Leopardi: La Virtù Indiana, in Nuova Antologia, vol. 61, n. 1299, 1º maggio 1926, pp. 13-27.
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  • Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici e Emanuele Trevi, Roma, Newton & Compton editori, 1997.
  • Giacomo Leopardi, Epistolario, a cura di Franco Brioschi e Patrizia Landi, Torino, Bollati Borighieri, 1998, ISBN 88-339-1112-8.
  • Giacomo Leopardi, Teatro, a cura di Isabella Innamorati, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1999, ISBN 88-871-1439-0.

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