Tractatus logico-philosophicus
Titolo originaleLogisch-philosophische Abhandlung
Frontespizio della prima edizione in inglese (1922).
AutoreLudwig Wittgenstein
1ª ed. originale1921[1]
1ª ed. italiana1954[2]
Generesaggio
Sottogenerelogica, metafisica e mistica
Lingua originaletedesco

Il Tractatus logico-philosophicus (nell'originale tedesco: Logisch-philosophische Abhandlung) è il primo testo di filosofia pubblicato da Ludwig Wittgenstein nel corso della sua vita e, secondo alcune interpretazioni, la sua opera principale.[3]

Storia della composizione modifica

La problematica logica modifica

Il materiale che confluì nella discussione sistematica del Tractatus logico-philosophicus fu messo a punto da Wittgenstein in diverse riprese a partire dall'inizio dei suoi studi di logica matematica e filosofia della matematica nel 1908. Da quando, in quest'epoca, era entrato in contatto con le opere di Russell, e poi di Frege, sui fondamenti della matematica egli si era interessato con passione alla questione del paradosso di Russell. Quest'ultimo aveva segnalato, al momento della sua scoperta, una grave debolezza di fondo nel tentativo sia di Russell, sia di Frege di fondare la matematica sulla logica (logicismo). Originandosi il paradosso da un problema di autoreferenzialità, Russell aveva tentato – nella monumentale opera Principia Mathematica, scritta insieme a Alfred North Whitehead – di superarlo con una teoria dei tipi che, stabilendo appunto una gerarchia tra "tipi" di oggetti logici, impediva quelle relazioni tra oggetti dello stesso tipo che generavano il paradosso.[4]

 
Ludwig Wittgenstein nel 1910.

Nel periodo in cui studiò a Cambridge sotto la guida di Russell, a partire dal 1911, Wittgenstein andò gradualmente mettendo a punto la sua proposta di soluzione al paradosso. Come anche altri, infatti, egli era convinto che la teoria dei tipi non fosse del tutto soddisfacente, sia perché rappresentava una restrizione ad hoc, sia perché gli assiomi su cui si fondava erano abbastanza lontani dall'iniziale requisito di evidenza per le verità logiche su cui si volevano fondare quelle matematiche.[5] Nel corso del 1912 egli sviluppò due punti che sarebbero risultati fondmentali nella sua concezione logica e filosofica: in primo luogo, la tesi che «qualsiasi teoria dei tipi dev'essere resa superflua da una corretta teoria del simbolismo»; in secondo luogo, la tesi che la diversità dei generi di cose che logicamente non possono essere scambiate le une con le altre dev'essere espressa da simboli di diverso genere che non possono essere scambiati.[6]

Nel 1913 Wittgenstein aveva accettato, cedendo alle pressioni di Russell e al suo stesso timore (immotivato) di non aver più molto da vivere, di dare una prima stesura relativamente organica alle sue idee. Le tesi centrali riproposte poi dal Tractatus ci sono quindi pervenute in una prima versione nelle Note sulla logica dettate da Wittgenstein in ottobre. In questa prima opera filosofica wittgensteiniana si ripartiva dall'idea, già acquisita, che un adeguato simbolismo logico doveva rendere superflua ogni teoria dei tipi, e la si sviluppava specificando che il simbolismo deve mostrare ciò che nessuna teoria potrebbe dire, e cioè per esempio che «A» e «B» sono lettere dello stesso tipo, ma non «A» e «x» o «y».[7]

 
Skjolden, in Norvegia, dove tra il 1913 e il 1914 Wittgenstein visse un periodo di particolare prolificità filosofica.

Isolatosi in un esilio volontario nel villaggio di Skjolden, in Norvegia, nel tardo 1913 Wittgenstein comunicava per lettera a Russell di essere giunto alla scoperta che «la totalità della logica deriva da un'unica proposizione primitiva». Egli notava, infatti, che le proposizioni logiche (in contrapposizione a quelle empiriche) possono essere determinate come vere o come false con la sola analisi della loro forma, senza bisogno di sapere se si compongono di elementi veri o falsi: per esempio «p o non-p» è sempre vera, «p e non-p» sempre falsa (indipendentemente dalla verità o falsità di p). La prima di queste due proposizioni è una tautologia, la seconda una contraddizione. Wittgenstein affermava che, una volta trovato un meccanismo logico (cioè un sistema di segni) capace di rendere evidente se una proposizione è tautologia, una contraddizione oppure né l'una né l'altra cosa (cioè non è decidibile sul piano puramente formale), si sarebbero determinate tutte e sole le proposizioni della logica, cioè tutte e sole le tautologie, a partire da un'unica proposizione primitiva: cioè appunto quella che esprime la regola per riconoscere le tautologie.[8]

In una serie di appunti dettati a G.E. Moore quando, nell'aprile 1914, questi andò a trovare Wittgenstein a Skjolden, si metteva ulteriormente a punto la distinzione tra "dire" e "mostrare".[9]

La problematica mistica modifica

La prima guerra mondiale, durante la quale Wittgenstein servì come volontario nell'esercito austro-ungarico, determinò un profondo mutamento nell'ambito di problemi a cui la sua filosofia si rivolgeva.

Già tra il 1903 e il 1906, all'epoca in cui aveva frequentato la scuola superiore presso la Realschule di Linz, Wittgenstein aveva perso la fede religiosa in cui era stato educato;[10] e quando aveva conosciuto Russell aveva dato a costui modo di stupirsi per aver trovato qualcuno di ancor più «tremendo» di lui con i cristiani.[11] Nel pieno della guerra aveva tuttavia gradualmente sentito rinascere dentro di sé un sentimento religioso. Fu nel libro Spiegazioni dei Vangeli di Lev Tolstoj, reperito per caso e acquistato in una libreria della Galizia dove non c'era nessun altro volume, che Wittgenstein nella tarda estate del 1914 trovò una sostanziale consolazione di tipo religioso.[12] La lettura di Tolstoj riaccese in lui una religiosità che egli, sulla scorta dell'esempio di un personaggio della commedia Die Kreuzelschreiber di Ludwig Anzengruber, si era abituato già dal 1912 a intendere come il sentimento di essere «assolutamente al riparo», in sé e nella propria fede, rispetto a qualunque possibile calamità esterna.[13]

 
Una pagina dei diari tenuti da Wittgenstein durante la prima guerra mondiale (pubblicati dopo la sua morte come Quaderni 1914-1916) contenente annotazioni dell'ottobre 1914.

Durante il lungo periodo trascorso nelle retrovie tra il 1914 e il 1916 questo tipo di riflessioni maturarono lentamente in Wittgenstein, anche grazie, in particolare, alle conversazioni che ebbe modo di intrattenere tra la fine del 1915 e l'inizio del 1916 con un medico della Croce Rossa, Max Bieler, di cui ebbe modo di divenire amico: sembra che proprio parlando con lui di Tolstoj e di Dostoevskij egli gradualmente preparò l'ingresso nella sua riflessione filosofica di temi collegati all'etica e alla religione.[14]

Nella primavera del 1916 infine, nel momento in cui, come desiderava dall'inizio della guerra, Wittgenstein si trovò finalmente al fronte, la problematica esistenziale fece bruscamente irruzione nelle sue riflessioni. I suoi diari testimoniano la comparsa, in giugno, di interrogativi e considerazioni su Dio, il senso della vita, la volontà, il bene e il male.[15] Il filosofo e biografo di Wittgenstein Ray Monk ha scritto:[16]

«Se Wittgenstein avesse trascorso l'intera guerra nelle retrovie, il Tractatus logico-philosophicus sarebbe rimasto quello che con ogni probabilità era nel 1915: un trattato sulla logica. Infatti, le osservazioni contenute nella versione definitiva relative all'etica, l'estetica, l'anima e il senso della vita trassero origine, precisamente, dall'"impulso alla riflessione filosofica" [...] generato dalla consapevolezza della morte, della sofferenza, della miseria.»

Questa esperienza diretta degli aspetti più terribili della guerra causò in Wittgenstein il mutamento che egli auspicava. (Wittgenstein era influenzato, per la sua visione del rischio mortale come occasione di maggiore lucidità quanto a sé stesso e alla realtà, sia dal William James di Le varie forme della coscienza religiosa, sia dallo Schopenhauer del Mondo come volontà e rappresentazione).[17] Con la certezza che «solo la morte dà significato alla vita»,[18] venne alla luce la profonda interrogazione del senso dell'esistenza. Allo stesso tempo, la problematica del senso della vita e di Dio (strettamente interconnesse, poiché «credere in Dio vuol dire comprendere la questione del senso della vita»)[19] gli sembrava collegata alla questione della logica, ma non in modo chiaro. Gradualmente, egli riguadagnò la concezione secondo cui logica ed etica sono tutt'uno ricollegandole entrambe alla sfera di ciò che non si può dire, ma solo mostrare: «L'etica non tratta del mondo. L'etica deve essere una condizione del mondo come la logica».[20] Tale sfera è, come poi chiarirà compiutamente il Tractatus, quella del mistico.[20]

A Olmütz, dove era stato mandato per ricevere l'addestramento da ufficiale, Wittgenstein entrò in contatto con un ex-studente di Adolf Loos, Paul Engelmann, che sarebbe presto divenuto per lui un prezioso amico. Si rivelò immediatamente una grande affinità spirituale tra i due, entrambi agitati in quel momento dalla problematica religiosa, e le loro lunghe discussioni tra l'autunno 1916 e il gennaio 1917 furono estremamente fruttuose. Fu questo, come scrive Monk, «il periodo di gestazione del Tractatus», nel quale per Wittgenstein divenne chiaro come logica e mistica siano ugualmente manifestazioni di una verità che non si lascia dire.[21]

In ultima analisi, nella versione definitiva del testo la dimensione logica e quella mistica si trovano del tutto interconnesse. Monk scrive:[22]

«Nella forma definitiva, il libro è un distillato di quanto scritto da Wittgenstein a iniziare dal suo primo soggiorno a Cambridge nel 1911. [...] La "Teoria logica" elaborata in Norvegia, la "Teoria della raffigurazione del linguaggio" messa a punto nei primissimi mesi del conflitto, il misticismo di stampo schopenhaueriano adottato nella seconda metà della guerra, trovano tutti ugualmente posto nell'ambito di una struttura cristallina e si presentano come parti della stessa incontrovertibile verità.»

Pubblicazione modifica

Wittgenstein tornò al fronte nel gennaio 1917 e nel corso dei mesi successivi, mentre l'esercito russo collassava e il vecchio impero zarista veniva sconvolto prima dalla rivoluzione di febbraio, poi da quella ottobre, e mentre quindi sul fronte orientale cessavano le ostilità, Wittgenstein stese la prima versione del Tractatus (pubblicata poi, nel 1971, come Prototractatus).[23] La versione definitiva del Tractatus fu probabilmente messa a punto nella primavera 1918, dopo che Wittgenstein era stato promosso tenente e dislocato sul fronte italiano all'inizio del marzo 1918.[24] Poiché gli fu concessa una licenza che durò da luglio a settembre, il testo ricevette la sistemazione definitiva, in agosto, nella casa di uno zio di Wittgenstein a Hallein.[25]

Le vicende della pubblicazione del Tractatus furono lunge e difficoltose. Ritenendo che il suo lavoro fosse essenzialmente in linea con la polemica di Karl Kraus (uno degli intellettuali da cui Wittgenstein adolescente era stato maggiormente influenzato)[26] contro il vaniloquio e il convenzionalismo morale, egli già nell'estate del 1918 propose il libro allo stesso editore di Kraus, Jahoda, che però lo respinse.[27]

Al termine della guerra sul fronte italiano, all'inizio del novembre 1918, Wittgenstein fu fatto prigioniero. Durante la prigionia, protrattasi fino all'agosto 1919, ebbe modo di scrivere a Russell che era fiducioso di poter pubblicare il libro al suo rientro a casa.[28] Egli si rivolse dapprima alla casa editrice di Wilhelm Braumüller, che aveva pubblicato un altro autore che per Wittgenstein era stato un irrinunciabile punto di riferimento, Otto Weininger; Russell accettò di inviare all'editore, come questi richiedeva, un parere favorevole alla pubblicazione del testo dello sconosciuto Wittgenstein; ma quando Braumüller, convinto che la pubblicazione sarebbe stata economicamente svantaggiosa, chiese a Wittgenstein di pagarla a sue spese, questi rifiutò categoricamente. Quindi Wittgenstein si rivolse all'editore di una rivista con cui collaborava Frege, Beiträgen zur Philosophie des Deutschen Idealismus, ma l'ampiezza dello scritto risultò eccessiva per la pubblicazione su un periodico. Egli contattò quindi Ludwig von Ficker, editore della rivista culturale Der Brenner, a cui prima della guerra Wittgenstein aveva elargito una sostanziosa donazione, ma anche in questo caso la probabilità di un passivo in termini economici rese impossibile portare a termine l'impresa editoriale. Gli editori Otto Reichl e Hermann Keyserling, contattati su consiglio di Rainer Maria Rilke, che lavorava con Ficker, non furono più disponibili.[29]

 
L'interessamento personale di Bertrand Russell, amico e maestro di Wittgenstein, fu tra i principali fattori che permisero al Tractatus di essere pubblicato.

Nel dicembre 1919 Wittgenstein e Russell si incontrarono per la prima volta dopo la guerra e trascorsero una settimana insieme all'Aia. I due discussero a lungo del libro di Wittgenstein e Russell riuscì a comprenderlo abbastanza a fondo. Propose quindi di scrivere un'introduzione al testo che, grazie alla notorietà del suo nome, avrebbe dovuto renderne la pubblicazione assai più facile. Wittgenstein ne fu contento, ma in seguito, leggendo ciò che Russell aveva scritto, trovò che l'introduzione tradiva alcune gravi incomprensioni da parte sua; quando poi essa venne tradotta in tedesco, Wittgenstein affermò che non restava se non «superficialità e malinteso».[30] Quando propose di pubblicare il testo alla Reclam, accludendo l'introduzione di Russell a mero titolo di lettera di accompagnamento, ne ricevette un nuovo rifiuto. A questo punto, rassegnato, scrisse a Russell:[31]

«O il mio scritto è un'opera del massimo valore o non è un'opera del massimo valore. Nel secondo (e più probabile) caso sono io il primo a non voler che si pubblichi. Se invece è vera la prima ipotesi, allora è anche affatto indifferente se la si pubblichi venti o cent'anni prima o dopo.»

Russell comunque non cedette, e ricevette da Wittgenstein il permesso di tentare di far pubblicare il libro in Inghilterra. In partenza per un lungo viaggio in Cina, affidò il compito a un'amica, Dorothy Wrinch. Costei, grazie all'introduzione di Russell, riuscì a convincere Wilhelm Ostwald, editore della rivista Annalen der Naturphilosophie, a intraprendere la pubblicazione in Germania. Ostwald comunque, sostanzialmente non interessato al testo, non ne fece rileggere le bozze e lo stampò con sciatteria, cosicché nella prima edizione tedesca – comparsa nel 1921 con il titolo Logisch-philosophische Abhandlung – figuravano numerosi errori. Wittgenstein, quando ne entrò in possesso, la definì «un'edizione pirata».[32]

Nel frattempo comunque, negli ultimi mesi del 1921, Russell era riuscito a ottenere che l'editore Kegan Paul accettasse di pubblicare il testo in una collana diretta da Cecil K. Ogden. Costui ne curò l'edizione affidando la traduzione del testo tedesco comparso sulla rivista di Ostwald a un giovane studente di matematica del King's College, Frank Ramsey. Wittgenstein fu consultato per determinare come fosse più opportuno tradurre passaggi di per sé difficoltosi o resi inintelligibili dalla cattiva qualità dell'edizione tedesca; il lungo ma proficuo processo di revisione e perfezionamento della traduzione consentì di rendere il testo originale nel modo più lineare e adeguato alle intenzioni dell'autore. Le operazioni furono concluse nel maggio 1922 e l'edizione inglese (corredata dal testo originale a fronte e dall'introduzione di Russell) comparve, col titolo Tractatus Logico-Philosophicus, di lì a pochi mesi.[33]

Titolo, motto e dedica modifica

Il testo tedesco venne pubblicato con il titolo dato da Wittgenstein al suo manoscritto, Logisch-philosophische Abhandlung. Poiché la lingua inglese non offriva alcuna traduzione ovvia di quel titolo, Russell aveva suggerito di intitolare lo scritto Philosophical Logic; Wittgenstein commentò però che esso era semplicemente «sbagliato»: «In realtà non capisco neanche cosa significhi! Non esiste una cosa come la logica filosofica. (A meno non si voglia dire che poiché il libro è tutto un nonsenso anche il suo titolo può essere un nonsenso).»[34] Alla fine, nonostante Ogden avesse osservato che non era particolarmente accattivante, Wittgenstein accolse il suggerimento di G.E. Moore di adottare il titolo Tractatus Logico-Philosophicus, che ricalcava quello del Tractatus theologico-politicus di Spinoza[35] (e che venne poi a sua volta ricalcato da molte opere successive).[36] Tractatus logico-philosophicus (o, con le maiuscole secondo l'uso anglosassone, Tractatus Logico-Philosophicus) è una traduzione letterale in latino di Logisch-philsophische Abhandlung; nelle traduzioni in altre lingue il titolo è stato alternativamente reso conservando il latino o traducendolo nella lingua di destinazione.[37]

L'esergo del Tractatus è tratta dal saggio Das Denkmalsetzen in der Opposition dello scrittore austriaco Ferdinand Kürnberger, e recita: «... und alles, was man weiß, nicht bloß rauschen und brausen gehört hat, läßt sich in drei Worten sagen».[38] Nel contesto, il passo diceva:[39]

(DE)

«So haben ganze Welten von Vorstellungen, wenn man sie wirklich beherrscht, in einer Nuß platz, und alles, was man weiß, nicht bloß rauschen und brausen gehört hat, läßt sich in drei Worten sagen.»

(IT)

«Così interi mondi di rappresentazioni, se li si padroneggia veramente, trovano posto in un guscio di noce, e tutto ciò che si sa, che non si sia solo udito ruggire e rombare, si lascia dire in tre parole.»

Il senso di questo motto è stato spiegato collegandolo a quanto Wittgenstein afferma nella sua prefazione al Tractatus: «Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.»[40][41]

Il libro è dedicato «alla memoria del mio amico David H. Pinsent».[42] David Pinsent e Wittgenstein si erano conosciuti a Cambridge nel 1912 ed erano presto divenuti intimi amici. Avevano trascorso insieme le vacanze estive nel 1912 e nel 1913 e, durante il periodo trascorso in servizio militare nella prima guerra mondiale, Wittgenstein aveva tratto grande conforto dalla corrispondenza con Pinsent. Quando venne a sapere della sua morte in un incidente, nel maggio 1918, scrisse alla madre:[40]

«Solo in [David] ho trovato un vero amico, e le ore trascorse assieme sono state le migliori della mia vita, è stato per me un fratello e un amico. [...] Ho appena portato a termine l'opera filosofica alla quale avevo già iniziato a lavorare quando mi trovavo a Cambridge, e avevo sempre sperato di potergliela sottoporre prima o poi, ed era sempre legata a lui nel mio pensiero. La dedicherò alla memoria di David. Perché ha sempre mostrato grande interesse nei suoi confronti, e perché è a lui che devo perlopiù quella serenità che mi ha consentito di lavorarvi.»

Struttura e stile modifica

Il Tractatus logico-philosophicus è un breve testo (la prima edizione[1] occupava meno di 80 pagine) che si articola come una sequenza di 526 proposizioni numerate.[43] Le sette proposizioni principali sono contrassegnate dai numeri da 1 a 7; eccetto la settima, tutte hanno sotto-proposizioni (per esempio 1.1) e sotto-sotto-proposizioni (per esempio 1.11) fino a un massimo di cinque numeri dopo il punto.[44] Wittgenstein stesso spiega, in una nota alla proposizione 1:

«I decimali, che numerano le singole proposizioni, ne denotano l'importanza logica, il rilivevo che ad esse spetta nella mia esposizione. Le proposizioni n.1, n.2, n.3, etc. sono commenti alla proposizione n; le proposizioni n.m1, n.m2, etc., commenti alla proposizione n.m; e così via.[45]»

In linea generale le proposizioni non sono, in senso proprio, giustificate o argomentate:[46] Russell osservò che sono tutte enunciate come «un ukase dello zar».[47] Più in generale, l'approccio al libro è reso molto difficoltoso dal livello assai spinto dell'astrazione, dalla sinteticità estrema delle formulazioni e dalla rarità degli esempi.[46] D'altro canto la cura per la forma letteraria del testo, essenziale e priva di fronzoli retorici, è un carattere rilevante del Tractatus e testimonia della sua vocazione propriamente morale di dire ciò che può dirsi nel modo più schietto e chiaro possibile.[48]

Giovanni Piana ha osservato che la struttura frammentaria e il tono perentorio del Tractatus sostanzialmente sacrificano tanto la leggibilità quanto la possibilità di introdurre problematizzazioni di sorta a una fortissima esigenza di sistematicità.[49]

Contenuto modifica

Dire e mostrare: dalla critica alla teoria dei tipi alla mistica modifica

Il Tractatus nacque, da un punto di vista storico, come espressione della critica wittgensteiniana alla teoria dei tipi di Russell.

La scoperta da parte di Russell del paradosso che porta il suo nome aveva messo in crisi il programma logicista di fondare la matematica sulla logica (cioè di ricondurre tutte le proposizioni matematiche a un novero ristretto di proposizioni logiche evidenti, tali da poter essere trattate come assiomi). Il fatto che, utilizzando i tradizionali strumenti della logica, e in particolare gli insiemi e le loro proprietà, fosse possibile costruire una proposizione che risulta contraddittoria sia nell'ipotesi della sua verità, sia in quella della sua falsità, sembrava compromettere la possibilità di trattare la logica in generale come solido terreno fondativo per le proposizioni della matematica. Nei Principia Mathematica Russell, in collaborazione con Whitehead, aveva sviluppato la teoria dei tipi proprio per escludere la possibilità del paradosso e ricostruire una logica coerente, capace di servire allo scopo voluto dal logicismo: poiché il paradosso nasceva da un problema di autoreferenzialità (in particolare, dal fatto di ammettere la possibilità di insiemi che appartengono a se stessi) la teoria dei tipi proponeva essenzialmente una stratificazione gerarchica di tipi di oggetti logici, tale per cui un oggetto di un dato tipo potesse appartenere solo a un altro di tipo superiore, prevenendo così tutte le possibili autoreferenzialità.[50]

La teoria dei tipi venne criticata da varie parti perché imponeva dei requisiti apparentemente troppo forti per poter essere trattati come assiomi evidenti, oltreché per la sua complessità e per il fatto di essere un'ipotesi ad hoc. Wittgenstein tuttavia muoveva a Russell obiezioni di altro segno. Egli concordava con lui sull'importanza di escludere l'autoreferenzialità: «Nessuna proposizione può dir qualcosa di se stessa, poiché il simbolo della proposizione non può essere contenuto in sé stesso; questa dev'essere la base della teoria dei tipi logici».[51] Ma da qui muoveva a una considerazione secondo cui ogni teoria dei tipi nella forma di una stratificazione gerarchica doveva essere resa superflua da un'adeguata teoria del simbolismo.[52] In altri termini l'impossibilità di proposizioni autoreferenziali è resa evidente secondo Wittgenstein nei simboli stessi di quelle proposizioni: la diversità dei generi di cose che logicamente non possono essere scambiate le une con le altre dev'essere espressa da simboli di diverso genere in cui si mostra che essi non possono essere scambiati.[53] Lo stesso vale per ogni altra proprietà logica rilevante. Se la proposizione dice qualcosa del mondo, parla del mondo, non può dire niente di sé stessa; la proposizione (cioè il simbolo) mostra se stessa e la propria struttura: «Che una certa cosa accade nel simbolo dice che una certa cosa accade nel mondo».[51]

Il simbolismo logico ha una natura tale per cui esso simbolizza, con le relazioni tra le sue parti, le relazioni sussistenti realmente; ma il simbolo, nel dire che queste relazioni reali sussistono, non può che limitarsi a mostrare le relazioni che fanno parte di esso in quanto simbolo. Secondo un esempio che ricorre sia nelle Note sulla logica,[51] sia nelle note dettate a G.E. Moore in Norvegia,[54] sia nel Tractatus (3.1432), Wittgenstein afferma:

«Non si deve dire: «Il segno complesso "aRb"» dice che a sta nella relazione R a b; ma: che «a» stia in una certa relazione a «b» dice che aRb. [...] In aRb non è il complesso a simbolizzare; ciò che simbolizza è invece il fatto che il simbolo a stia in una certa relazione al simbolo b.[51]»

Analogamente un segno semplice, per esempio «M», significa un oggetto semplice, e mostra questa semplicità che, essendo nel simbolo, è anche nell'oggetto reale da esso simbolizzato. Perciò dire che M è un oggetto semplice è del tutto ridondante, e anzi propriamente insensato, perché significa pretendere che sia vero ciò che non è né vero né falso, ma semplice condizione del simbolismo. «Che M è una cosa non può essere detto; è nonsenso: ma qualcosa è mostrato dal simbolo "M"».[54]

Dunque, se anche non criticava l'assunto fondamentale della teoria russelliana dei tipi – secondo cui un linguaggio logicamente adeguato non può coincidere con il proprio metalinguaggio – e anzi lo faceva proprio, Wittgenstein insisteva che ogni linguaggio che parli di qualcosa può farlo unicamente perché i simboli di cui quel linguaggio si compone mostrano la propria funzione simbolica.[55]

Come il Tractatus (4.12-4.121) chiarisce,

«La proposizione può rappresentare la realtà tutta, ma non può rappresentare ciò che, con la realtà, essa deve avere in comune per poterla rappresentare – la forma logica. Per poter rappresentare la forma logica, noi dovremmo poter situare noi stessi con la proposizione fuori della logica, ossia fuori del mondo. [...] Ciò che nel linguaggio esprime , noi non lo possiamo esprimere mediante il linguaggio.[56]»

Malgrado l'importanza di questa concezione dal punto di vista della logica, non bisogna trascurare le implicazioni che essa ha dal punto di vista del misticismo a cui il Tractatus approda.[57] [....]

L'ontologia del Tractatus modifica

Il Tractatus si apre con l'introduzione delle nozioni di mondo, fatto, stato di cose e oggetto, cosicché si può dire che le sue sezioni 1 e 2 (precisamente fino a 2.063)[58] costituiscono un'ontologia.[59] «Il mondo», scrive Wittgenstein, «è tutto ciò che accade. Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose»[60] (1, 1.1). E: «Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose. Lo stato di cose è un nesso d'oggetti (entità, cose)»[60] (2, 2.01). Per Wittgenstein, dunque, gli stati di cose sono nessi (ovvero configurazioni, complessi) di oggetti, i quali, invece, sono semplici e non compositi (cfr. 2.02, 2.021). Uno stato di cose, o un insieme di stati di cose, è un fatto. La totalità dei fatti è il mondo.[61]

Ciò è chiarito dicendo che gli oggetti sono la sostanza del mondo, cioè «ciò che sussiste indipendentemente da ciò che accade»[62] (2.024). Gli oggetti, in quanto sono semplici, sono immutabili: è la loro configurazione che varia, e cioè alcuni fatti accadono, si verificano, e altri no: «L'oggetto è il fisso, il sussistente; la configurazione è il vario, l'incostante»[62] (2.0271).[63]

All'oggetto appartiene in modo essenziale la possibilità di occorrere in stati di cose, e un oggetto è del tutto inconcepibile al di fuori della possibilità del suo nesso con altri oggetti; la possibilità di essere parte costitutiva di certi stati di cose fa parte della forma dell'oggetto, è qualcosa di intrinseco a esso (cfr. 2.011, 2.0121). Con la conoscenza di un oggetto, quindi, si possiede già la conoscenza degli stati di cose di cui può far parte; con la conoscenza di tutti gli oggetti, la conoscenza di tutti gli stati di cose possibili in quanto possibili (cfr. 2.0124).

Questa teoria di portata ontologica è basata su considerazioni di carattere logico-linguistico.[58][64] La semplicità degli oggetti è la semplicità dei simboli che li designano (come nell'esempio, citato sopra, del simbolo «M», che mostra di simbolizzare un oggetto); il loro contenere la possibilità di tutti gli stati di cose di cui possono far parte è la determinazione, intrinseca ai simboli, delle occorrenze possibili di questi ultimi all'interno delle proposizioni: come scrive Piana, «in quanto una cosa ha queste e quelle possibilità relazionali, noi diciamo che essa ha una certa forma. La forma della cosa è l'ambito delle sue sintassi possibili».[65]

I diversi stati di cose sono logicamente indipendenti l'uno dall'altro: «Dal sussistere o non sussistere d'uno stato di cose», spiega Wittgenstein, «non può concludersi al sussistere o non sussistere d'un altro»[66] (2.062). Ogni oggetto può entrare in connessione con altri in alcuni modi determinati e dar luogo a diversi stati di cose, e deve dar luogo a uno di essi; ma mentre la possibilità di tutti gli stati di cose di cui un oggetto può essere parte costituente è necessariamente determinata a priori dalla forma di quell'oggetto, la realizzazione di uno di essi piuttosto che di un altro è un fatto, il cui accadere non può essere dedotto formalmente.[67] Il verificarsi o non-verificarsi di un fatto è del tutto contingente e può essere solo constatato a posteriori.[68]

La teoria del linguaggio come immagine modifica

Su questi presupposti si inntesta la «teoria del linguaggio come immagine» (o «teoria raffigurativa», o «teoria della proposizione come immagine»)[69] di Wittgenstein. «Noi», egli afferma, «ci facciamo immagini dei fatti»[66] (2.1). La possibilità che le nostre proposizioni hanno di essere sensate, ossia di essere suscettibili di venire determinate come vere o come false, dipende dal loro essere immagini della realtà, cioè dei fatti.[70]

Secondo Wittgenstein un'immagine, in generale, raffigura una configurazione reale di oggetti, cioè appunto un fatto, grazie alla configurazione dei suoi elementi;[71] una proposizione è un caso particolare di immagine, nella quale l'immagine logica, cioè il pensiero, riceve una forma sensibile (vocale o grafica a seconda che la proposizione sia pronunciata o scritta).[72] Wittgenstein propone una nozione generale di "immagine" descrivendo il modo in cui un'immagine, in generale, raffigura un fatto (la sua teoria del linguaggio consiste poi nell'elaborazione dell'idea che le proposizioni siano un tipo particolare di immagini): l'immagine è a sua volta un fatto, cioè una configurazione, secondo una struttura determinata, di alcuni oggetti; a ognuno degli oggetti che sono parti costitutive dell'immagine è coordinato un oggetto che è parte costitutiva del fatto raffigurato; se l'immagine è adeguata (cioè semplicemente se l'immagine è un'immagine in senso proprio), la configurazione delle parti costitutive dell'immagine corrisponde alla configurazione degli oggetti facenti parte del fatto raffigurato, indipendentemente dall'effettivo verificarsi o non-verificarsi di questo fatto.

 
Uno degli esempi citati da Wittgenstein per chiarire la natura raffigurativa della proposizione è lo spartito. Uno spartito può essere immagine di un brano musicale perché le sue parti corrispondono a parti del brano musicale e perché le relazioni tra le parti dello spartito corrispondono alle relazioni tra le parti del brano musicale. Il fatto raffigurante e il fatto raffigurato sono isomorfi (cfr. 4.014-4.0141).[71]

Un esempio a cui si può ricorrere, poiché fu quello che suggerì a Wittgenstein stesso l'idea della proposizione come immagine,[73] è il seguente: in seguito a una controversia generata da un incidente d'auto, in un tribunale viene preso in considerazione un modellino che rappresenta la situazione discussa. La relazione delle due automobili in miniatura rispetto l'una all'altra e al piano su cui sono incollate rappresenta una relazione tra automobili reali, e può rappresentarla correttamente (se la situazione rappresentata è sussistita al momento dell'incidente) o scorrettamente (se la situazione rappresentata non è sussistita).[74] Questo esempio intuitivo del funzionamento di un'immagine è però suscettibile di essere generalizzato, poiché per Wittgenstein la nozione di immagine assume un valore assai più astratto.[75] Per Wittgenstein infatti anche la proposizione «aRb» è l'immagine di un fatto (cfr. 4.012); così come uno spartito o un disco fonografico sono immagini di una musica (cfr. 4.014).[76] Ciò che conta infatti, in ultima analisi, al fine della capacità di un fatto di essere immagine di un altro fatto è che la configurazione delle parti di cui il fatto raffigurante, in quanto fatto, è composto corrisponda alla configurazione delle parti che compongono il fatto raffigurato:[75] «Che gli elementi dell'immagine siano in una determinata relazione l'uno con l'altro rappresenta che le cose sono in questa relazione l'una con l'altra»[77] (2.15). Tale struttura comune che un'immagine e il fatto che essa raffigura hanno in comune è la struttura dell'immagine (cfr. 2.15).[75] Lo spazio di possibilità di tale struttura dell'immagine è la «forma di raffigurazione» di quell'immagine (cfr. 2.151). E la più generale delle forme di raffigurazione è la forma logica:[78] «Ciò che ogni immagine, di qualunque forma essa sia, deve avere in comune con la realtà, per poterla raffigurare – correttamente o falsamente –, è la forma logica, ossia la forma della realtà. [...] Ogni immagine è anche un'immagine logica»[79] (2.18, 2.182). Quanto all'immagine logica dei fatti, essa non è che il pensiero (cfr. 3), del quale Wittgenstein dà un'interpretazione sostanzialmente anti-psicologistica:[80] il pensiero non gli interessa cioè in quanto accadimento "nella testa" degli uomini, ma in quanto questione puramente logica, e specificamente in quanto forma dell'immagine in generale (di modo che ogni immagine è anche un pensiero e ogni fatto può essere oggetto di un pensiero).[80]

Nell'ambito della teoria wittgensteiniana dell'immagine è importante notare che gli elementi di cui le immagini si compongono funzionano diversamente dalle immagini stesse:[81] anche in questo senso il modellino dell'incidente è inadeguato a esemplificare la concezione dell'immagine di Wittgenstein. Le parti di cui l'immagine si compone infatti non devono necessariamente essere simili alle parti del fatto raffigurato come le automobiline sono simili alle automobili reali; ciò risulta evidente se si pensa che la proposizione «l'auto A ha tamponato l'auto B» è, per Wittgenstein, un'immagine tanto quanto lo è il modellino, senza però evidentemente che il segno «l'auto A» e il segno «l'auto B» assomiglino ad automobili. Non solo: se un'immagine si compone di elementi non semplici, ma complessi, che sono a loro volta immagini (come nel caso delle automobili in miniatura), allora queste sono a loro volta immagini proprio perché le loro parti sono connesse secondo una struttura che è in comune al fatto rappresentante e al fatto rappresentato. L'analisi deve però poter giungere a un termine, dove le parti costitutive di una configurazione (sia essa quella raffigurante o quella raffigurata) sono semplici, o almeno hanno un'«organizzazione interna simbolicamente irrilevante».[82]

Nella proposizione, questi sono i nomi. I nomi si limitano a significare oggetti, come in generale gli elementi semplici delle immagini si limitano a stare per gli oggetti, senza propriamente raffigurarli.[81] Solo l'immagine nel suo complesso raffigura propriamente; ma non raffigura oggetti semplici, bensì stati di cose. «Gli oggetti io li posso solo nominare. I segni ne sono rappresentanti. Io posso solo dirne, non dirli» (3.221); viceversa «le situazioni si possono descrivere, non denominare. (I nomi somigliano a punti; le proposizioni, a frecce. Esse hanno senso.)» (3.144).[83]

«Un nome», scrive Wittgenstein, sta per una cosa, un altro nome sta per un'altra cosa ed essi sono connessi tra loro: Così il tutto presenta – come un quadro plastico – lo stato di cose»[84] (4.0311). Proprio in quanto ha senso, «l'immagine concorda o non concorda con la realtà, essa è corretta o scorretta, vera o falsa»[85] (2.21). Più in dettaglio: «L'immagine rappresenta ciò che rappresenta, indipendentemente dalla propria verità o falsità, mediante la forma di raffigurazione. Ciò che l'immagine rappresenta è il proprio senso. Nella concordanza o non-concordanza del senso dell'immagine con la realtà consiste la verità o falsità dell'immagine. Per riconoscere se l'immagine è vera o falsa noi dobbiamo confrontarla con la realtà. Dall'immagine soltanto non può riconoscersi se essa sia vera o falsa. Un'immagine vera a priori non v'è»[86] (2.22-2.225).[87] Nella misura in cui essa è un'immagine, lo stesso vale per la proposizione: essa può essere vera o falsa a seconda che il fatto che essa descrive sussista o meno, cioè che il suo senso concordi o meno con la realtà (cfr. 3.1-3.21).

La logica estensionale modifica

La concezione della filosofia modifica

[...]

Un linguaggio logico adeguato rende possibili tutte e sole le proposizioni dotate di senso; che una proposizione sia insensata si vede dal fatto che essa, in quel linguaggio, non può essere formulata. Che un fatto sia possibile si vede dal fatto che esso sia descritto (raffigurato) da una proposizione dotata di senso; che sia impossibile dal fatto che non possa essere descritto (raffigurato) da alcuna proposizione dotata di senso. Che un oggetto esista si vede dal fatto che il suo nome compaia in proposizioni dotate di senso; che non esista dal fatto che il suo nome non compaia se non in proposizioni insensate.

 
La tomba di Wittgenstein presso l'Ascension Parish Burial Ground di Cambridge. La piccola scala posata sulla lapide allude alla proposizione 6.54 del Tractatus: «Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo essere asceso su essa.) Egli deve trascendere queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo».[88]

Di ciò che non si può dire modifica

Dal Tractatus al «secondo Wittgenstein» modifica

Per mezzo del Tractatus Wittgenstein riteneva di aver risolto (o, piuttosto, dissolto) tutti i problemi filosofici, avendo mostrato l'insensatezza delle domande e delle risposte della filosofia e avendo tracciato un limite a ciò che si può dire. Nella prefazione egli scriveva: «La verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile ed irreversibile. Io ritengo, dunque, d'avere definitivamente risolto nell'essenziale i problemi».[89]

Ciononostante, a partire dalla seconda metà degli anni 1920, egli tornò sulle sue posizioni, giungendo a elaborare alcune concezioni filosofiche tanto diverse da quelle esposte nel Tractatus da permettere una distinzione piuttosto netta, e ampiamente accettata dalla critica, tra un «primo Wittgenstein» e un «secondo Wittgenstein».[90][91]

Piana ha caratterizzato l'evoluzione del pensiero di Wittgenstein nei termini di un «passaggio al punto di vista del gioco».[92] Nel Tractatus il linguaggio logicamente adeguato che Wittgenstein costruisce pretende di esprimere l'essenza del mondo, realizzando un simbolismo nel quale – essendo esclusi tutti i sinonimi e tutti gli equivoci, nonché tutte le autorefernzialità – ogni fatto può essere sensatamente descritto, e ciò che in quel linguaggio risulta impossibile dire è anche ciò che dal punto di vista della conoscenza non c'è bisogno di dire: in modo che lo spazio del mistico (cioè appunto di ciò che cade al di fuori del punto di vista della conoscenza) coincide appropriatamente con lo spazio del silenzio. La regolarità del linguaggio teorizzato dal Tractatus è assoluta e la logica da cui dipende quella regolarità assolutamente unica. Il prezzo pagato per questo risultato è che in accordo con se stesso il Tractatus, come ogni altro testo filosofico, è un cumulo di insensatezze, e se insegna qualcosa ciò dipende da quanto esso mostra, non da quanto esso dice.

Influenzato dalle critiche dell'intuizionismo di Brouwer al logicismo e, forse, anche dalla propria esperienza come docente in alcune scuole elementari dell'Austria rurale durante gli anni del dopoguerra, {cn} Wittgenstein abbracciò gradualmente una concezione molto più ampia e molto meno rigida del linguaggio. Come testimonia ad esempio l'opera Osservazioni sui fondamenti della matematica,[93] la regolarità assoluta del linguaggio si trasforma in una regolarità simile a quella di un gioco:

«Le parole del linguaggio non sono più cifre che rinviano a nessi assoluti. Un linguaggio è un gioco. Niente altro che un gioco.[94]»

In questa autocritica di Wittgenstein ha origine una delle nozioni più importanti per la sua riflessione della maturità, quella di gioco linguistico. Dapprima con riferimento ai procedimenti di prova, intesi come procedimenti di calcolo, della matematica, quindi con riferimento al linguaggio in generale, viene abbandonata l'idea che la logica sia unica e che ogni sua trasgressione sia illegittima: sono possibili al contrario «trasgressioni legittime», che sono legittime semplicemente in quanto danno luogo a regole nuove e, con esse, a giochi nuovi – specificamente, a giochi linguistici nuovi.[95]

«Adottare il punto di vista del gioco significa sostenere anzitutto che vi è una molteplicità di giochi linguistici. E perciò anche che non vi sono inferenze corrette e scorrette che siano tali in se stesse, e quindi in rapporto ad ogni linguaggio.[95]»

[...]

Contro la distinzione schematica tra un primo e un secondo Wittgenstein, comunque, sono state mosse rilevanti critiche.[96][97]

Fortuna dell'opera modifica

Il Circolo di Vienna modifica

«[...] gli stessi neopositivisti videro nel Tractatus una delle fonti principali di tre cardini della loro filosofia: il cirterio verificazionistico del significato proposizionale, la tesi della natura puramente tautologica delle verità logiche e quella dell'insensatezza della metafisica, in quanto costituita da proposizioni che violerebbero quel criterio. Così, in quel vero e proprio manifesto del Circolo di Vienna che è l'opuscolo intitolato La concezione scientifica del mondo, Wittgenstein, assieme ad Einstein e a Russell, è esplicitamente indicato come uno degli ispiratori del movimento neopositivistico.[98]»

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Wittgenstein e la filosofia analitica modifica

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Note modifica

  1. ^ a b (DE) Ludwig Wittgenstein, Logisch-philosophische Abhandlung, in Annalen der Naturphilosophie, vol. 14, 1921, pp. 185-262.
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  3. ^ Don Gillies e Giulio Giorello, La filosofia della scienza nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 193, ISBN 978-88-420-9266-7.
  4. ^ Ray Monk, Ludwig Wittgenstein: Il dovere del genio, Milano, Bompiani, 1991, pp. 37-40, ISBN 88-452-1788-4.
  5. ^ Monk 1991, pp. 40-46.
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  11. ^ Monk 1991, p. 50.
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  100. ^ D'Agostini 1997, pp. 29-31.

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