Utente:Simone Serra/Sandbox/E

Sandbox E di Simone Serra.

Il Collegio delle nobili Arti all'Aquila, la morte di Lalle Camponeschi

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Facciata della chiesa di Santa Giusta, nell'aspetto tardo romanico del dopo-sisma 1349

Per quanto riguarda i commerci i le Arti, queste ultime erano sorte già prima del 1331, come scrive Buccio di Ranallo, poiché le cita nel momento della traslazione del corpo di Celestino V a Collemaggio: Tutte le Arti annarovi, chiascuna con gran gente / Ciascheduna Arte fé ad Santo Pietro presente[1]. Nel 1355 Aquila si dette un reggimento delle Arti simile a quelle degli altri comuni. In quest'epoca in città scoppia anche una lotta commerciale tra i borghesi commercianti e i nobili possidenti, che video coinvolta la famiglia Camponeschi e Filippo da Taranto, dove l'elemento che fece esplodere la guerra fu un tentato ritorno nostalgico al feudalesimo. Le famiglie che si scontrarono furono i Pretatti e i Camponeschi, i primi esponenti del vecchio feudalesimo e molto vicini al governo di Napoli, gli ultimi promotori della nuova politica "comunale", e amati dai ceti meno abbienti. I Camponeschi del Quarto di Santa Maria, rappresentato dal ceto alto borghese e nobiliare, specialmente nella persona di Lalle I, promossero il libro commercio, lo sviluppo delle arti, della cultura, insomma di una politica che mirava a integrare il concetto di città-territorio.

Lalle Maggiore, approfittando di una guerra di successione tra famiglie, scatenò gravi faide tra guelfi e ghibellini anche all'Aquila, scontrandosi contro i Pretatti, ceto medio dell'opposto Quarto San Pietro, che era caro alla corona di Napoli, e che favoriva i populares del contado aquilano, nel momento in cui fu assassinato Andrea di Carloberto d'Ungheria, marito di Giovanna I di Napoli, e nipote di Roberto I d'Angiò.[2] Il matrimonio con Giovanna era stato celebrato nel 1345, ma Andrea venne ucciso dalla moglie, scatenando l'ira del fratello Ludovico, anche perché Giovanna s'era sposata nuovamente con Ludovico di Taranto, figlio di Filippo, Lalle Camponeschi, nelle lotte di Tarantino e dell'Ungaro, parteggiò per quest'ultimo, anche perché sperava di bloccare un ritorno al potere dei Pretatti. Nel 1347 Ludovico d'Ungheria passò in città, e Lalle credette di veder definitivamente consolidata la sua presenza al potere cittadino, poiché venne nominato Conestabile del Regno e comandante delle milizie, e seguì Ludovico a Napoli Con il successivo accomodamento dell'Ungaro con Giovanna di Napoli, venne nominato Filippo di Taranto governatore degli Abruzzi, che permise il rientro in città dei Pretatti. Camponeschi, comportandosi similmente come Cola di Rienzo, sollevò i populares contro la famiglia rappresentante della vecchia tirannia feudale, e nella città si susseguono numerosi scontri, con l'incendio e la distruzione del Palazzo del Capitano. Filippo acquartierò l'esercito alle porte della città, ma poi decise di tornare a Napoli, seguito da Lalle, il quale tentò una pacificazione. Buccio scrisse:

«Cavalcò tanto presto come chi in prescia ha da gire
Lu conte nostro Lalle lu volse pur seguire
Fine de là ad Bazzano non se volse partire
-Quando fo tra le forme: et lui se adcomiatone
All'hora Misser Filippo ad lui se voltone;
Preselo per le braccia, de poi così parlone:
Non te porrà partire con me verrai prescione.»

La cattura e l'uccisione di Pietro Primo suscitò indignazione tra i cittadini tanto che il palazzo venne nuovamente assaltato, il capitano regio costretto alla fuga. Dopo la rivolta però gli aquilani subirono la vendetta della Corona di Napoli, con il ritorno dei Pretatti, e il rischio della perdita della demanialità. Buccio descrive che venne istituito in città un consiglio straordinario di 68 magistrati, che avrebbero amministrato la cosa pubblica, questi Sessantotto inviarono ambascerie di pace a Filippo, fecero rientrare il capitano, e mandarono altri legati ai sovrani di Napoli. Il sovrano angioino, per l'amore del suo avo Carlo che rifondò la città, concesse il perdono e nuovi benefici, come il diploma di Giovanna del 22 ottobre 1371, dove si concedeva la libertà d'elezione dei rappresentanti delle Arti. Tuttavia questa carta non concedeva la piena libertà, poiché ogni due anni occorreva rieleggere i rappresentanti, impedendo così la costituzione di vere e proprie dinastie economiche, come volevano gli aquilani; ad esempio nel 1368 Giovanna rifiutò una proposta dei cittadini di aumentare i membri del consiglio comunale a 100 uomini, ripartiti tra i maggiori esponenti dei quattro quartieri, ristabilendo semplicemente gli antichi privilegi concessi di Carlo I e II, di città demaniale esente dalla tassazione reale, ma soprattutto l'ufficializzazione delle Arti come parte dell'organismo amministrativo della città, ripartite in precise categorie le une dalle altre. Il governo dei Sessantotto fu sciolto e rieletto un nuovo governo dei rappresentanti artigiani e commercianti delle Arti, sotto la giurisdizione del Capitano regio.

L'Abruzzo nel Trecento

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L'apogeo dei commerci di Lanciano, la guerra con Ortona

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Storia di Lanciano.
 
Chiesa della Madonna delle Grazie a Ortona, fondata in merito alle clausole del lodo di pace tra Lanciano e Ortona del 1427. La chiesa oggi si presenta in una veste moderna a causa delle distruzioni della second aguerra mondiale

Lanciano, nel periodo di transizione tra Svevi e Angioini, perse la storica demanialità municipale guadagnata per breve tempo con Carlo I, venendo infeudata a Landolfo di Cautenay nel 1269, e alla sua morte gli succedette Matilde, che nel 1279 delegò il governo a Giovanni Di Montanson e Roberto De Mese[3]. Matilde poi si sposò con Filippo di Fiandra, detto anche Conte di Loritello perché stabilì il potere nel paese attuale di Rotello in Molise.

Lanciano fu direttamente governata da Filippo, ricadendo in una pensosa situazione simile a quella di Malmozzetto, tanto che i lancianesi si ribellarono, chiedendo nel 1302 a Carlo II d'Angiò di cambiare signore. Carlo II concesse l'indulto per i disordini scoppiati nel momento di cacciare Filippo, e nel 1304 venne istituita la carica del "mastrogiurato", che aveva il compito di amministrare la città nei periodi di festa.[4]. Sotto il successore di Carlo, Roberto I d'Angiò, Lanciano trascorse un sereno periodo economico, e venne confermati dei privilegi compreso la demanialità statale, e sorsero le prime idee di allargarsi commercialmente anche presso lo scalo fluviale d San Vito Chietino, perché il feudo non era più dell'abbazia di San Giovanni in Venere. Nel frattempo il governo passò a Giovanna I di Napoli, sposatasi in seconde nozze con Luigi Principe di Taranto, vennero confermati i privilegi, tanto che Lanciano raggiungendo i 6.000 abitanti, divenne una delle città più grandi d'Abruzzo. In questo periodo relativamente felice per la città, iniziarono i primi dissapori con la storica rivale Ortona.

Il momento dello scoppio della guerra tra Lanciano rappresenta un momento particolare della storia d'Abruzzo, nella branca delle speculazioni economiche, che finivano per coinvolgere direttamente anche la politica dei vari signori della zona. Infatti agli albori della lotta commerciale vennero coinvolte anche le famiglie dei Quatrario di Sulmona, esiliati nella città, e i patrizi di Chieti, da anni ostili allo sviluppo economico lancianese.[5] Si narra che la storia rivalità tra Lanciano e Ortona fosse nata il 4 ottobre 1250, quando venne incendiata una nave lancianese nel porto di Ortona. Gli ortonesi, dato che Lanciano allora non aveva ancora un sbocco marino, aumentarono le tasse per far usufruire i lancianesi del porto, fino a rispedire, con l'acuirsi della rabbia, le navi mercantili straniere che dovevano raggiungere Lanciano per le grandi fiere.

Quando Alfonso d'Aragona ebbe intenzione di entrare nelle grazie di Giovanna II di Napoli per prendere il possesso della Corona, avendo fatto nominare dalla regina il capitano Braccio da Montone "gran connestabile degli Abruzzi", i lancianesi si accordarono con Alfonso affinché il 23 gennaio 1421 ottenessero il nuovo permesso di costruire il porto di San Vito. Ortona reagì incendiando ancora le navi lancianesi, costoro catturarono un gruppo di ortonesi per risposta. La battaglia avvenne sul fiume Feltrino, i lancianesi respinsero i soldati e fecero dei prigionieri, su cui si vendicarono barbaramente, mutilandoli dei nasi e delle orecchie, con cui fabbricarono una colonna infame, per la cui calcina usarono anche il sangue dei prigionieri trucidati, posta sul portico della Zecca, alla fine del Corso Roma.

Gli ortonesi risposero, attaccando direttamente il porto di San Vito come una banda di pirati, facendo dei prigionieri, e la situazione di guerra era diventata talmente insostenibile, che Alfonso convocò nel 1423 a Napoli i sindaci delle due città per evitare una vera carneficina. Nel frattempo la guerra continuava lungo l'Adriatico, e dovette intervenire il frate San Giovanni da Capestrano, che giunse a Lanciano il 6 dicembre 1426, e mandò un suo confratello a Ortona, per stipulare il trattato di pace[6]. Nel 1427 ci fu il famoso "lodo" di Giovanni di Capestrano, ratificato il 17 febbraio nella Cattedrale di San Tommaso Apostolo a Ortona, e si decise che, in base alla concessione del feudo di San Vito dall'abate di San Giovanni in Venere, i lancianesi avrebbero avuto l'autorizzazione di edificare finalmente il porto.

Il terremoto dell'Aquila del 1349

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Terremoto dell'Appennino centro-meridionale del 1349.
 
Facciata tardo romanica della Basilica di Santa Maria di Collemaggio: l'aspetto è quello della ricostruzione dopo il terremoto del 1349

Questo terremoto è il primo sufficientemente documentato, che sconvolse la neonata città d'Abruzzo dell'Aquila, e fu l'ultimo di una serie di scosse che colpirono L'Aquila e il resto dell'Abruzzo peligno-marsicano già dal 1315, che come registra Buccio di Ranallo. La magnitudo di questo terremoto sarebbe stata di 5.5 gradi della scala Richter, ma non ci furono particolari danni. Nel 1348 e nel 1349 una serie di terremoti con epicentro all'Aquila e nell'alto Molise oppure nella catena del Sirente-Velino misero in ginocchio la città, con una magnitudo di 6,5 della scala Richter. La devastazione del terremoto all'Aquila si verificò, seguendo anche la Cronaca di Buccio di Ranallo, tra il 9 e il 10 settembre, venne annotata anche dal poeta Giovanni Quatrario da Sulmona, che parlava della devastazione verificatasi anche nella sua città di Sulmona, e della crisi del commercio, avvenuta già anni prima, aggravata pure dalla peste nera. Il terremoto dovette colpire la città e il territorio aquilano in maniera abbastanza seria, anche se oggi, con i grandi restauri gotici della metà del Trecento, e del dopo sisma 1456 non è possibile comprendere cosa andò distrutto e cosa conservato. La cronaca di Buccio di Ranallo, testimone oculare di quegli eventi, nonostante la tipica enfasi dell'autore, testimonia chiaramente la devastazione della città aquilana. Lo storico Matteo Villani di Firenze testimonia nella Nuova cronica: «La città dell'Aquila ne fu quasi distrutta, che tutte le chiese e grandi dificj della città caddono con grande mortalità d'huomini e di femmine; [...] ed erano sì grandi (le scosse) che in piana terra era fatica all'uomo di potersi tenere in piedi.»[7]

Pescara dal Trecento al Quattrocento

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Nel 1349, 1363 e 1384 vennero emanati dei diplomi che esentavano la città dal pagamento delle tasse, visto il clima senz'altro precario in cui viveva il porto a causa di allagamenti, paludi che scatenavano epidemie di malaria, e attacchi turchi dal mare. Nell'ottobre del 1380 Rinaldo Orsini (figlio primogenito di Orso, signore di Vicovaro e Tagliacozzo, e di Isabella Savelli) acquistò per 40.000 ducati il feudo di Pescara da Giovanna I di Napoli[8]; nel 1384 il feudo venne concesso da Carlo III di Napoli a Corrado di Pagano.[9]. Nel caos politico cagionato delle lotte che vedevano contrapporsi Ladislao I di Napoli e Luigi II d'Angiò Pescara venne prima infeudata (nel 1390) a Luigi di Savoia (per volere di Luigi d'Angiò)[10][11], per poi passare a Francesco del Borgo, detto Cecco, vicario di Ladislao, rimasto signore di Pescara fino al 1409.[11] Francesco del Borgo fu colui che con il Caldora, prima di Carlo V rinforzò le mura del bastione (via dei Bastioni), con la costruzione di nuove torri di vedetta. Alla sua morte Pescara tornò nel regio demanio, assegnato da Giovanna II nel 1419 a Francesco Riccardi di Ortona, poco dopo si trovò negli scontri tra Alfonso I di Napoli e Renato d'Angiò per la conquista del trono partenopeo. Il capitano Jacopo Caldora nel 1439 s'impadronì del fortino di Pescara, insieme ai feudi di Ortona e Vasto, ricostruendo i castelli. Alla morte del Caldora nel 1443 e alla rovina del figlio Antonio, Alfonso d'Aragona nominò marchese di Pescara Berardo Gaspare d'Aquino, il quale nel 1460 per breve tempo lo concesse ancora ad Antonio Caldora, figlio di Jacopo, salvo poi confiscarglielo definitivamente.

 
Ricostruzione di Consalvo Carelli di Pescara nel 1424

Quando Giovanni d'Angiò, figlio di Renato, scatenò una guerra contro gli Aragona, l'università di Chieti approfittò della debolezza di Berardo d'Aquino per richiedere Pescara, per mezzo di Matteo di Capua, viceré in Abruzzo di Ferrante d'Aragona[12]. Il viceré acconsentì, dichiarando decaduto il feudo di Berardo, e la signoria di Chieti su Pescara durò sino al 1528, insieme ad altri castelli: Montesilvano Colle, Spoltore e Cepagatti. Fattore di golosità di Chieti per il piccolo paese fortezza era soprattutto il porto, per le sue rendite dei traffici, per le gabelle sul transito del ponte, quelle sulla pesca, sul traffico del sale e degli armenti, e approfittando del fatto che il paese fosse quasi disabitato per la malaria, fu per la città teatina un vero affare. Nel 1482 Pescara fu pesantemente danneggiata dalle milizie veneziane, in un attacco dimostrativo contro le pretese aragonesi al Ducato di Milano, poiché Pescara era ritenuta un posto strategico, al confine tra i due Abruzzi[13]. Anche Ortona infatti subì lo stesso trattamento. Pescara, dal momento dell'estrema decadenza alla rinascita spagnola, venne conquistata da Carlo VIII di Francia per breve tempo nel 1504, quando i francesi discesero in Abruzzo, e la fortezza presa a cannonate. Di qui la necessità, quando la città passerà al dominio spagnolo di Carlo V, di ricostruire la fortezza.

  1. ^ Buccio di Ranallo, CCXCVIII
  2. ^ A. Clementi, Ibid., p. 47
  3. ^ D. Romanelli, Scoverte patrie, Tomo II p. 161
  4. ^ Il Mastrogiurato, su mastrogiurato.it.
  5. ^ D. Romanelli, Ibid. Tomo II, p. 291
  6. ^ D. Priori, La Frentania, Vol. II, p. 340
  7. ^ G. Villani, Nuova cronica, Vol. I, edizione Firenze 1729, pp. 45-46.
  8. ^ ORSINI, Rinaldo
  9. ^ Bullettino delle sentenze, n. 7, 1810, pp. 364-365
  10. ^ López, p. 74
  11. ^ a b Strafforello, p. 167
  12. ^ G. Ravizza, Collezione di diplomi e di altri documenti de' tempi di mezzo e recenti per servire alla storia della Città di Chieti. Vol III, Napoli 1835, p. 1
  13. ^ E. Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia Vol. II, 1844, p. 293