Settimana rossa

insurrezione in Italia del 1914
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La Settimana rossa fu un'insurrezione popolare sviluppatasi ad Ancona e propagatasi dalle Marche alla Romagna, alla Toscana e ad altre parti d'Italia, tra il 7 e il 14 giugno 1914, come reazione all'eccidio di tre manifestanti avvenuto ad Ancona ad opera della forza pubblica.

Settimana rossa
Data7 - 14 giugno 1914
LuogoItalia, ma principalmente Marche, Romagna e Toscana
EsitoFine pacifica o soppressione violenta delle rivolte
Schieramenti
Comandanti
Effettivi
Migliaia di manifestantiMigliaia di poliziotti e Carabinieri
Circa 100 000 soldati mobilitati
Perdite
Migliaia di manifestanti feriti, alcuni uccisiDecine di agenti feriti
Voci di rivolte presenti su Wikipedia
Cartolina commemorativa di Antonio Casaccia, Attilio C(G)iambrignoni e Nello Budini, i tre manifestanti rimasti uccisi ad Ancona il 7 giugno 1914, eccidio da cui prese origine la Settimana Rossa

Dopo un'iniziale fiammata rivoluzionaria, con la proclamazione dello sciopero generale in tutta Italia, la Confederazione Generale del Lavoro decise, dopo solo due giorni, la cessazione dello sciopero ed il ritorno al lavoro, il che, assieme ad una politica oculata da parte del governo Salandra del Regno d'Italia, che evitò l'intervento massiccio dei militari, come pure richiesto dalle forze più conservatrici, consentì il rientro dell'insurrezione nella normalità.

I fatti modifica

Il comizio a Villa Rossa modifica

 
cartolina antimilitarista de "La Gioventù Socialista" con l'effigie di Antonio Moroni, giugno 1914

Domenica 7 giugno si celebrava in tutta Italia la "Festa dello Statuto" in occasione dell'anniversario della concessione dello Statuto Albertino da parte del monarca sabaudo Carlo Alberto. Le forze antimonarchiche decisero di indire per quella data manifestazioni di protesta, che rovinassero la festa a borghesi e militari.

 
"Volontà", pubblicazione anarchica di Ancona del 6 giugno 1914 che indice la manifestazione antimilitarista del 7 giugno

Su «Volontà», giornale degli anarchici anconitani, si leggeva: "Il 7 giugno è la festa del militarismo imperante. Faccia il popolo che diventi giorno di protesta e di rivendicazione".[1] L'opposizione alle politiche di guerra non era una lotta puramente ideologica. La missione in Libia impegnava moltissimi lavoratori, che venivano chiamati alle armi e, dopo aver abbandonato casa e famiglia, subivano una formazione militare che significava semplicemente disciplinamento e repressione, in un momento in cui una profonda crisi economica attraversava il paese, costringendo la popolazione più povera ad emigrare.

Pertanto, ad Ancona, come in altre località delle Marche, furono convocati comizi antimilitaristi, per chiedere l'abolizione delle "Compagnie di Disciplina nell'Esercito", dove molti militanti rivoluzionari venivano inviati a scopo "rieducazionale", e per protestare contro il militarismo, contro la guerra di Libia e a favore di Augusto Masetti e Antonio Moroni, due militari di leva. Il primo era rinchiuso come pazzo in manicomio criminale per aver sparato al suo colonnello prima di partire per la guerra di Libia, l'altro invece era stato inviato in una Compagnia di Disciplina per le sue idee (era un socialista della linea sindacalista rivoluzionaria).

Il presidente del consiglio Salandra, temendo che le varie manifestazioni programmate da anarchici, repubblicani e socialisti potessero degenerare in turbamenti dell'ordine pubblico, decise di proibirle.

 
Ancona - La Villa Rossa, sede nel 1914 del Circolo repubblicano "Gioventù Ribelle"

Gli organizzatori dell'iniziativa di Ancona, l'allora socialista Benito Mussolini, l'allora repubblicano Pietro Nenni e l'anarchico Errico Malatesta, decisero quindi di spostare il comizio pubblico in una sede privata, nel circolo repubblicano anconitano "Gioventù Ribelle", meglio noto come "Villa Rossa"[2], alle ore 16,00.

 
l'anarchico Errico Malatesta
 
Oddo Marinelli, esponente repubblicano delle Marche nel 1914

Alla presenza di circa 500/600 persone, repubblicani, anarchici e socialisti, parlarono, sotto la presidenza del segretario della Lega muratori e della Camera del Lavoro Alfredo Pedrini, i dirigenti del Sindacato Ferrovieri Italiano[3] Livio Ciardi e Sigilfredo Pelizza, Ettore Ercoli per i socialisti, Oddo Marinelli per i giovani repubblicani, Pietro Nenni, che fece un vivace e applaudito discorso antimilitarista, ed Errico Malatesta che, tra l'altro, attaccò duramente i socialisti per lo scarso rilievo dato dal loro quotidiano, l'Avanti!, alla battaglia politica contro le compagnie di disciplina[4].

 
Pietro Nenni, all'epoca della "settimana rossa" esponente repubblicano

La maggior parte degli storici dà per presente all'evento, anzi fra gli oratori, il giovane esponente repubblicano Pietro Nenni. Di diverso avviso è la ricostruzione del prof. Gilberto Piccinini, secondo il quale il 7 giugno Nenni si trovava a Jesi, dove pure erano previste iniziative di protesta antimilitarista[5]. La questione può dirsi risolta dalla lettura dell'interrogatorio reso da Nenni in data 26 giugno 1914 dopo il suo arresto[6], nel corso del quale egli ammise di essere stato presente al "comizio privato a Villa Rossa".

Quando verso le ore 18,30 la riunione ebbe termine e i partecipanti cominciarono a lasciare l'edificio, furono circondati dalle forze dell'ordine, che volevano evitare che potessero spostarsi nella vicina piazza Roma, dove si stava tenendo un concerto della banda militare nell'ambito delle celebrazioni per la festa dello Statuto.

 
Settimana Rossa - disegno raffigurante gli scontri del 7 giugno 1914 ad Ancona

La forza pubblica, comandata dal commissario di pubblica sicurezza Vitaliano Mazza, volutamente distribuita su due ali in modo da bloccare l'accesso alla piazza e far defluire la folla in fila indiana verso la periferia della città, dopo aver avvisato i manifestanti con i classici tre squilli di tromba[7], iniziò a picchiare indiscriminatamente, mentre dai tetti e dalle finestre delle case furono lanciati pietre e mattoni.

 
Ancona, Via Torrioni - Targa commemorativa dei caduti della Settimana Rossa collocata dagli anarchici e repubblicani anconitani nel 1960

Alcuni colpi di pistola vennero esplosi: secondo i dimostranti da una guardia di pubblica sicurezza, mentre i carabinieri sostennero che fossero partiti dalla folla. A seguito di questo, i carabinieri, comandati dal tenente Opezzi, aprirono il fuoco: spararono circa 70 colpi. Tre dimostranti furono mortalmente colpiti: il commesso Antonio Casaccia, di 28 anni[8], ed il facchino Nello Budini, di 17 anni, entrambi repubblicani, morirono in ospedale, mentre il tappezziere anarchico Attilio C(G)iambrignoni[9], di 22 anni, affacciato ad una finestra del circolo, morì sul colpo. Vi furono anche cinque feriti tra la folla e diciassette contusi tra i carabinieri[10].

Pietro Nenni, qualche tempo dopo, disse che a volere l'eccidio a tutti i costi era stata la polizia di Ancona, che lo aveva provocato e premeditato in combutta con le forze reazionarie.

Le reazioni all'eccidio modifica

Un'ondata di indignazione si sparse subito per tutta la città, mentre le forze di polizia si tenevano cautamente distanti.

La sera stessa del 7 giugno fu tenuta una riunione alla Camera del Lavoro di Ancona, nel corso della quale fu deciso lo sciopero generale, poi confermato dal voto dell'assemblea del giorno successivo. L'8 giugno ci fu un comizio in Piazza Roma nel quale parlarono Pedrini ed altri della Camera del Lavoro, Nenni e Malatesta: quest'ultimo incitò la folla a provvedersi di armi. La sera stessa venne svaligiata l'armeria Alfieri. Intanto giunsero ad Ancona diversi esponenti del sindacalismo rivoluzionario, come il socialista on. Alceste de Ambris e il repubblicano on. Giovan Battista Pirolini[11].

Il Comitato Centrale del Sindacato dei Ferrovieri (d'ispirazione massimalista, contrapposto a quello aderente alla Confederazione Generale del Lavoro, considerato troppo riformista) era riunito ad Ancona e, su proposta di Malatesta, dichiarò lo sciopero di categoria, che, per motivi organizzativi, iniziò il 9 giugno, in concomitanza con i funerali dei manifestanti uccisi, e in alcune regioni solo il 10.

 
funerali di Budini, Casaccia e C(G)iambrignoni il 9 giugno 1914 ad Ancona, da via XX settembre verso via Nazionale

I funerali dei tre giovani si tennero il pomeriggio del 9 giugno: ad essi partecipò una folla immensa (alcuni resoconti, probabilmente esagerando notevolmente, parlano di 30.000 persone, la maggior parte delle pubblicazioni di 20.000 persone[12] - dato anch'esso probabilmente sovrastimato), che attraversò tutta la città; a parte la violenza verbale degli slogan scanditi e qualche piccola scaramuccia[13] le esequie si svolsero in maniera abbastanza tranquilla.

 
biglietto di libero transito rilasciato dal Partito repubblicano di Falconara Marittima durante i moti della Settimana Rossa

Intanto la situazione si evolveva in vera e propria insurrezione rivoluzionaria: vennero abbattuti i casotti daziari, la Camera del Lavoro faceva vendere il vino a cinque soldi il litro, furono ordinate requisizioni di grano e la macellazione di animali. Furono organizzati blocchi stradali, per superare i quali occorrevano dei lasciapassare rilasciati dalla Camera del Lavoro.

 
Mussolini, all'epoca della "settimana rossa", direttore del quotidiano socialista "Avanti!"

La notizia dell'eccidio di Ancona si era sparsa immediatamente in tutta Italia, dando origine a manifestazioni, cortei e scioperi spontanei.

In particolare, ad infiammare gli animi erano gli appelli di Benito Mussolini, allora direttore del quotidiano socialista Avanti!, a diffusione nazionale, che proprio ad Ancona, poco tempo prima, al XIV Congresso del PSI del 26, 27 e 28 aprile 1914, aveva colto un grande successo personale, con una mozione di plauso per i successi di diffusione e di vendite del giornale del Partito, tributatagli personalmente dai congressisti.[14][15]

Così il futuro duce incitava le masse popolari sul giornale socialista[16]:

«Proletari d'Italia! Accogliete il nostro grido: W lo sciopero generale. Nelle città e nelle campagne verrà su spontanea la risposta alla provocazione. Noi non precorriamo gli avvenimenti, né ci sentiamo autorizzati a tracciarne il corso, ma certamente quali questi possano essere, noi avremo il dovere di secondarli e di fiancheggiarli. Speriamo che con la loro azione i lavoratori italiani sappiano dire che è veramente l'ora di farla finita

Mussolini strumentalizzò i moti popolari anche a fini politici interni al mondo socialista: la direzione del Partito Socialista uscita dal Congresso di Ancona era in mano ai massimalisti rivoluzionari, ma i riformisti erano ancora maggioritari nel gruppo parlamentare e nella CGdL.

 
manifestazione all'Arena di Milano il 10 giugno 1914

Il 10 giugno si tenne un comizio all'Arena di Milano di fronte a 60.000 manifestanti, mentre il resto dell'Italia era in lotta e paralizzata, la Romagna e le Marche insorte e i ferrovieri avevano finalmente annunciato di aderire allo sciopero generale. Dopo che gli oratori riformisti di tutti i partiti avevano gettato acqua sul fuoco dicendo che questa non era la rivoluzione, ma solo protesta contro l'eccidio di Ancona, e che non ci si sarebbe fatti trascinare in un'inutile carneficina, intervennero Corridoni e Mussolini. Quest'ultimo esaltò la rivolta. Ecco il resoconto del suo infuocato discorso, pubblicato il giorno dopo sull'Avanti![17]:

«A Firenze, a Torino, a Fabriano vi sono altri morti e altri feriti, occorre lavorare nell'esercito perché non si spari sui lavoratori, occorre far sì che il soldo del soldato sia presto un fatto compiuto. .... Lo sciopero generale è stato dal 1870 ad oggi il moto più grave che abbia scosso la terza Italia .... Non è stato uno sciopero di difesa, ma di offesa. Lo sciopero ha avuto un carattere aggressivo. Le folle che un tempo non osavano nemmeno venire a contatto della forza pubblica, stavolta hanno saputo resistere e battersi con un impeto non sperato. Qua e là la moltitudine scioperante si è raccolta attorno a quelle barricate che i rimasticatori di una frase di Engels avevano, con una fretta che tradiva preoccupazioni oblique, se non la paura, relegato fra i cimeli delle romanticherie quarantottesche. Qua a là, sempre a denotare la tendenza del movimento, si sono assaltati i negozi dagli armaioli; qua e là hanno fiammeggiato degli incendi e non già delle gabelle come nelle prime rivolte del Mezzogiorno, qua e là sono state invase le chiese. ... Se – puta caso – invece dell’on. Salandra, ci fosse stato l’on. Bissolati alla Presidenza del Consiglio, noi avremmo cercato che lo sciopero generale di protesta fosse stato ancora più violento e decisamente insurrezionale. .... Soprattutto un grido è stato lanciato seguito da un tentativo, il grido di: "Al Quirinale".»

In sintonia con lui si espressero sia il repubblicano che l'anarchico che intervennero poi.

Dal canto suo, Malatesta scriveva sul periodico anarchico «Volontà» del 13 giugno 1914[18], intitolando il suo articolo "LA RIVOLUZIONE IN ITALIA - La caduta della monarchia sabauda":

«Non sappiamo ancora se vinceremo, ma è certo che la rivoluzione è scoppiata e va propagandosi. La Romagna è in fiamme; in tutta la regione da Terni ad Ancona il popolo è padrone della situazione. A Roma il governo è costretto a tenersi sulle difese contro gli assalti popolari: il Quirinale è sfuggito, per ora, all'invasione della massa insorta, ma è sempre minacciato. A Parma, a Milano, a Torino, a Firenze, a Napoli agitazioni e conflitti. E da tutte le parti giungono notizie, incerte, contraddittorie, ma che dimostrano tutte che il movimento è generale e che il governo non può porvi riparo. E dappertutto si vedono agire in bella concordia repubblicani, socialisti, sindacalisti ed anarchici. La monarchia è condannata. Cadrà oggi, o cadrà domani, ma cadrà sicuramente e presto

 
"Avanti!", quotidiano socialista del 9 giugno 1914 che incitava i lavoratori allo sciopero generale

Con i suoi articoli Mussolini, facendo leva sulla popolarità di cui godeva nel movimento socialista e sulla grande diffusione del giornale, di fatto costrinse la Confederazione Generale del Lavoro a dichiarare lo sciopero generale, strumento di lotta che determinava il blocco di ogni attività nel Paese, di cui il sindacato riteneva di dover fare uso solo in circostanze eccezionali.

Nei giorni tra l'8 ed il 10 giugno lo sciopero si espanse a macchia d'olio in tutta Italia, si ebbero violentissimi scontri nella Romagna, a Milano, Torino, Bologna, Firenze, Napoli, Palermo e Roma.

 
Il socialista Arturo Labriola commemora i tre operai uccisi durante la Settimana Rossa, Napoli, 1914

Intere zone della penisola sfuggirono al controllo dello Stato, i comitati rivoluzionari cercavano di riorganizzare la vita nelle città in loro possesso. L'impronta fortemente antimonarchica e antimilitarista delle rivolte sembrò mettere il paese sull'orlo della guerra civile. Proprio per scongiurare il rischio che la monarchia potesse sentirsi minacciata e dichiarare lo stato d'assedio e il passaggio dei poteri pubblici ai militari, la Confederazione generale del lavoro dichiarò concluso lo sciopero dopo solo 48 ore, invitando i lavoratori a riprendere la loro attività:

«... Lo scopo per cui ci eravamo mossi è raggiunto; raggiunto non è invece lo scopo ideale che inspira tutto il nostro movimento. Un comitato unitario rappresentante tutte le forze sovversive organizzerà e svilupperà le nostre azioni avvenire. Ora torniamo tutti al lavoro, alle case, lieti del dovere compiuto, orgogliosi della minaccia che ci arde nel cuore. Dalla mezzanotte d'oggi - anche per disposizione delle organizzazioni centrali solo stasera ricevute - lo sciopero è sospeso!»

Ciò frustrò gli intenti bellicosi ed insurrezionali di Mussolini che, sull'Avanti! del 12 giugno 1914, non si paventò dall'accusare di fellonia i capi sindacali confederali, che facevano riferimento alla componente riformista del PSI, accusando: "La Confederazione del Lavoro, nel far cessare lo sciopero, ha tradito il movimento rivoluzionario".[19] Tuttavia più tardi il futuro duce, a mente fredda, rivide almeno in parte il proprio giudizio, affermando che l'ordine di cessazione dello sciopero era stato sì un errore, ma non tale da potersi definire un tradimento[20]

Malatesta, a sua volta, incitò alla prosecuzione dell'insurrezione, ignorando gli ordini della C.G.d.L.[21]:

«Si è fatto correr la voce che la Confederazione Generale del Lavoro ha ordinato la cessazione dello sciopero. La notizia manca di ogni prova, ed è probabile sia stata inventata e propagata dal governo [...] Ma fosse anche vera, essa non servirebbe che a marchiare d'infamia coloro che avrebbero tentato il tradimento. La Confederazione Generale del Lavoro non sarebbe ubbidita [...] E poi, ancora una volta, ora non si tratta più di sciopero, ma di RIVOLUZIONE. Il movimento incomincia adesso, e ci vengono a dire di cessarlo! Abbasso gli addormentatori! Abbasso i traditori! Evviva la rivoluzione!»

I moti in Romagna modifica

 
Alfonsine (RA), municipio assaltato dai manifestanti durante la Settimana rossa
 
Fusignano (RA), erezione dell'albero della libertà durante la Settimana rossa

In particolare, in Romagna, dove il movimento repubblicano e quello anarchico erano una componente fondamentale delle sinistre, la rivolta assunse un carattere decisamente rivoluzionario: la rabbia popolare prese di mira i simboli del potere laico e religioso. Nel ravennate il municipio di Alfonsine fu incendiato, la prefettura di Ravenna venne assaltata. A Ravenna, Bagnacavallo e Mezzano vennero distrutti i Circoli dei signori. A Villa Savio di Cervia il generale Luigi Agliardi, comandante la brigata di Forlì, venne fatto prigioniero assieme ad altri 6 ufficiali, poi liberato senza spargimento di sangue. La chiesa di Villanova di Bagnacavallo fu distrutta, quella di Mezzano fu incendiata e quelle di Santa Maria di Alfonsine e del S. Suffragio di Ravenna saccheggiate. A Fusignano e a Conselice venne eretto in piazza l'albero della libertà, ripreso direttamente dalla rivoluzione francese[22]. In molti centri i dimostranti ostruirono le linee ferroviarie per impedire lo spostamento delle truppe, tagliarono i fili telefonici e telegrafici e abbatterono i pali per bloccare le comunicazioni e quindi l'organizzazione della repressione. Fu impedita la partenza dei treni, vennero devastati i caselli daziari, uffici telegrafici e stazioni ferroviarie. L’ira popolare si espresse anche con requisizioni di armi, di automobili dei proprietari terrieri, vennero requisite partite di grano e costituiti magazzini popolari per la distribuzione di grano, olio e vino a prezzi calmierati.

Interrotta la distribuzione dei giornali, le false notizie circa il successo della rivoluzione aumentavano ancora di più l'entusiasmo degli insorti.

Così commentava le violenze commesse dagli insorti «Il Lamone», settimanale repubblicano di Faenza[23]:

««Cosa sono mai le violenze che tanto vi spaventano e che tanto orrore vi destano, di fronte alla somma di violenze che voi, tutto il giorno, tutto l'anno, perpetrate sulla pelle della povera gente, che uccidete o fate uccidere, o che depredate colle vostre leggi?»»

La fine dell'insurrezione modifica

Come detto, lo sciopero generale durò solo un paio di giorni, mentre il moto rivoluzionario andò man mano esaurendosi dopo che, per una settimana, aveva tenuto in scacco intere zone del paese.

Il 10 giugno attraccarono al porto di Ancona gli incrociatori corazzati Pisa e San Giorgio, l'incrociatore Agordat, supportate dai cacciatorpediniere Garibaldino, Bersagliere e Artigliere che sbarcarono circa 1000 militari[24].

L'11 giugno arrivarono alla Camera del Lavoro di Ancona automobili da Rimini, Forlì e una da Foligno, i cui occupanti comunicarono che la rivoluzione era scoppiata a Rimini, che il generale Agliardi era stato fatto prigioniero, come pure il Prefetto di Ravenna; che era stata proclamata qui e lì la repubblica, che il movimento si estendeva in buona parte d’Italia, e che il Re era fuggito: notizie che, in mancanza dei giornali nazionali bloccati dallo sciopero dei ferrovieri, eccitarono ulteriormente gli animi.

Subito dopo il socialista on. Alessandro Bocconi, smentendo tali dicerie, propose che in seguito all'ordine della Confederazione Generale del Lavoro, che aveva disposto la cessazione dello sciopero, si dovesse riprendere il lavoro, proposta che venne accolta da fischi e insulti. Nenni disse che, qualora fossero state vere le notizie sull'estendersi del movimento, non si poteva abbandonare lo sciopero, e propose che Bocconi telegrafasse a Roma a qualche suo collega, mentre egli sarebbe andato di persona in Romagna per accertarsi dell'effettiva situazione. Dopo aver compiuto un rocambolesco viaggio in automobile in Romagna e constatato l'esaurimento dell'insurrezione popolare, il sabato 13 giugno fu proprio Nenni a presentare alla Camera del Lavoro di Ancona l’ordine del giorno per la cessazione dello sciopero[6].

Il 14 giugno, dopo 16 morti tra i rivoltosi, la situazione tornò definitivamente sotto il controllo dell'esercito.

Alla fine dello stesso mese, il 28 giugno 1914, l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo sposterà l'attenzione italiana sulle dinamiche europee che porteranno alla prima guerra mondiale, contrapponendo interventisti e neutralisti, fino all'ingresso in guerra dell'Italia il 24 maggio 1915.

I processi contro i capi della rivolta modifica

A causa dei "fatti" della settimana rossa Nenni venne arrestato il 23 giugno in pieno centro di Ancona, mentre stava leggendo l'Avanti![25]. Il giovane repubblicano anconitano Oddo Marinelli e l'anarchico Errico Malatesta riuscirono invece ad espatriare, il primo in Svizzera, l'altro in Inghilterra[26], sfuggendo quindi all'arresto[27].

Nenni fu detenuto nel carcere anconitano di Santa Palazia. Fu interrogato il 26 giugno[6] e riviato a giudizio il 20 agosto, avanti alla Corte d'Assise di Ancona. Il processo, spostato poi a L'Aquila per legitima suspicione, si aprì il 19 novembre; Nenni rivendicò davanti ai giudizi la nobiltà delle sue idee: «Io credetti con Giuseppe Mazzini che la vita è missione e che noi siamo qui a collaborare alla lotta dell’umanità verso una società di liberi e di uguali»[28]. Verrà poi amnistiato assieme a tutti gli altri imputati a seguito del provvedimento di clemenza reale promulgato il 30 dicembre, in occasione della nascita della principessa Maria di Savoia[29].

Malatesta verrà invece assolto in un altro processo, svoltosi a suo carico ad Ancona, per il tentativo di suscitare la guerra civile, il saccheggio e la strage e per aver determinato i suoi presunti correi, i tre anconetani Vitaliano Racaneschi, Rodolfo Scoponi e Vincenzo Cerusici, ad esplodere alcune rivoltellate il 9 giugno 1914 in occasione dei funerali delle 3 vittime dell'eccidio[30].

Valutazioni storiografiche modifica

Giudizio dei contemporanei modifica

Lo scrittore e militante anarco-comunista Errico Malatesta attribuì la sconfitta esclusivamente al tradimento della CGL:

«Lo stato d'animo dei lavoratori era propizio da sé ad un cambiamento di regime. L'accordo fra i partiti rivoluzionari si era fatto da sé... Si stava per passare agli atti risolutivi. Lo sciopero a tendenza rivoluzionaria so estendeva.. La rivoluzione stava per farsi, per impulso spontaneo delle popolazioni, e con grande probabilità di successo. Ma tutto ad un tratto, quando maggiori erano le speranze, la direzione della Confederazione generale del lavoro, con telegramma circolare, dichiara finito il movimento ed ordina la cessazione dello sciopero»

Gli altri osservatori non potevano tuttavia essere così semplicistici. Per riviste come Lacerba e La Voce la Settimana rossa aveva messo in luce, da un lato, la grave situazione di disagio economico in cui versava il Paese e la crescente sfiducia popolare nel parlamento e nel governo, da un altro l'incapacità del popolo italiano di saper vedere chiaramente le cause della situazione di crisi in cui versava. Scriveva a tal proposito Giovanni Papini:

«Nessuno s'è domandato il senso di queste improvvise epilessie popolari e ci ha riflettuto sopra, fuori dai quadri delle sue teorie e delle sue abitudini. Eppure esse ci ripropongono un problema che non è soltanto di questo mese - ma sarà di tutti i mesi per lunghi anni.»

Per quanto conserneva invece i "sovversivi", il giudizio di Papini era netto:

«Se veramente son persuasi che la monarchia borghese è l'ostacolo alla felicità italiana e che la salvezza sta in una rivoluzione che istituisca la vera repubblica proletaria non dovrebbe limitarsi a eccitare il popolo eppoi biasimare il governo che lo piglia a fucilate. Se vogliono davvero una rivoluzione dovrebbero prepararla bene e di lunga mano... Le rivoluzioni non riuscite fanno ridere. I tentativi, i conati, gli abbozzi, gli aborti di rivoluzioni son dannosi a tutti - e specialmente ai rivoluzionari»

A Papini faceva eco Giuseppe Prezzolini:

«Non c'è in Italia nei partiti avanzati la sufficienza intellettuale, morale e pratica per un nuovo governo. Non c'è la capacità delle classi proletarie. Non c'è l'autorità per rifare il paese. DI queste cose i migliori dei partiti socialista e repubblicano sono convinti quanto me»

Più vicino al socialismo, Gaetano Salvemini spinse più a fondo l'analisi, criticando il PSI e gli altri partiti democratici per avere distolto per anni i loro iscritti dai problemi concreti della vita nazionale, esaurendoli nell'anticlericalismo "commediante" e in una serie di rivendicazioni e lotte fine a sé stesse. I socialisti rivoluzionari, scriveva Salvemini, erano rivoluzionari solo a parole ed il loro rivoluzionarismo non approdava a nulla. Rimproverava poi ai capi dei partiti sovversivi di non aver dato, per esempio, ai rivoltosi la parola d'ordine della lotta contro il dazio del grano:

«La massa centrale della popolazione, che nei giorni scorsi di fronte agli incidenti ed ai vandalismo senza scopo si è sentita urtata ed irritata, avrebbe riconosciuto la giustizia di un movimento popolare contro il dazio sul grano, avrebbe detto, pur deplorando i disordini, che dopo tutto gl'insorti non avevano torto e che la colpa era del governo. Gli stessi uomini del governo avrebbero saputo quel che avrebbero dovuto fare per attutire la rivolta, e sarebbero stati costretti a farlo dagli incitamenti di quella massa intemedia apolitica che è la vera forza determinatrice definitiva di ogni azione di governo. La vittoria sarebbe stata facile e rapida; e la rapidità della soddisfazione ottenuta avrebbe messo fine alla protesta...»

In un lungo articolo su Azione Socialista, il socialista riformista Ivanoe Bonomi tracciava un ritratto di Mussolini, definendolo come un socialista romagnolo dotato del "romanticismo barricadero della sua razza [...] nutrito più della prima produzione marxista - ancora piena di illusioni insurrezionali - che non della più matura esperienza del socialismo tedesco". Si rivolgeva quindi a Turati ed ai riformisti rimasti nel PSI (da cui era stato invece espulso nel 1912) e si domandava se erano disposti "a lasciar travolgere il socialismo... nella preparazione di un altro conato insurrezionale":

«Se sì, il rivoluzionarismo mussoliniano avrà ormai attinto l'estremo della sua parabola e dovrà iniziare la sua melanconica discesa; se no, l'Italia deve fin d'ora a prepararsi ad assistere, dopo una breve tregua, ad una nuova e più intensa convulsione, inutile e senza profitto come quella che si è testé conclusa»

Il 20 giugno 1914 il gruppo parlamentare socialista, in maggioranza moderato e riformista, approvò un ordine del giorno in cui smentì Mussolini sui fatti della "Settimana Rossa", ribadendo la tradizionale posizione gradualista e parlamentare del gruppo dirigente "storico" del PSI[31], affermando che la rivolta fosse stata:

«... la fatale e anche troppo preveduta conseguenza della stolta politica delle classi dirigenti italiane, la cui cieca pervicacia nel sostituire alle urgenti riforme economiche e sociali i criminosi sperperi militaristi e pseudocolonialisti frustra l'opera educatrice e disciplinatrice del partito socialista per la trasformazione graduale degli ordinamenti politici e sociali e riabilita nelle masse il culto della violenza... [in contrasto con] ...il concetto fondamentale del socialismo internazionale moderno, giusta il quale le grandi trasformazioni civili e sociali ed in particolare l'emancipazione del proletariato dal servaggio capitalistico non si conseguono mercé scatti di folle disorganizzate, il cui insuccesso risuscita e riattizza le più malvagie e stupide correnti del reazionarismo interiore. Occorre dunque rimanere più che mai sul terreno parlamentare e nella propaganda fra le masse nella più decisa opposizione a tutti gli indirizzi di governo militaristi, fiscali, protezionisti e di vigilare per la difesa ad oltranza a qualunque costo delle insidiate pubbliche libertà, intensificando al tempo stesso l'opera assidua e paziente, la sola veramente rivoluzionaria, di organizzazione, di educazione, di intellettualizzazione del movimento proletario.»

All'o.d.g. seguirono due durissimi articoli di Claudio Treves ed Alessandro Levi su Critica Sociale, dove quest'ultimo attaccò direttamente Mussolini per la "prosa dionisiaca" dell'Avanti!, accusandolo di avere un linguaggio "degno di un anarcoide e non di un socialista", ed il Partito per essere venuto meno al suo dovere di guidare le masse nella protesta, lasciando che esse si abbandonassero ad atti violenti e teppistici.[32][33]. Da tali accuse Mussolini si difese in una lunga intervista a Il Giornale d'Italia, cui fece seguito un lungo strascico di polemiche tra riformisti e mussoliniani nel PSI. A difesa di Mussolini si schierò anche il settimanale socialista La folla di Paolo Valera.[34] Mussolini stesso si difese poi in un articolo sul bisettimanale Utopia, da lui diretto, riconfermando il suo giudizio positivo sulla Settimana rossa:

«Il movimento di giugno non è stato soltanto uno sciopero generale, ma qualcosa di più e di meglio; non è stato una sommossa cieca, ma una insurrezione obiettivi abbastanza precisi: se è mancato lo stato di fatti rivoluzionario, c'è però diffuso e profondo lo "stato d'animo" rivoluzionario... E qualche cose infatti è morta in Romagna e altrove in tutta Italia: qualche cosa si è decomposta; una sfiducia antica ha dato luogo ad una speranza nuova... L'Italia ha bisogno di una rivoluzione e l'avrà»

La Settimana rossa, in particolare nelle zone dell'anconetano e del ravennate, lascerà una traccia profonda nell'immaginario popolare come un momento in cui il proletariato aveva unitariamente dato prova della propria combattività, arrivando a sfiorare per un fugace attimo l'ebbrezza della rivoluzione sociale.

Giudizi successivi modifica

Scrisse più tardi Pietro Nenni[31]:

«Furono sette giorni di febbre, durante i quali la rivoluzione sembrò prendere consistenza di realtà, più per la vigliaccheria dei poteri centrali e dei conservatori che per l'urto che saliva dal basso... Per la prima volta forse in Italia colla adesione dei ferrovieri allo sciopero, tutta la vita della nazione era paralizzata.»

Lo storico comunista Enzo Santarelli così ha giudicato il pragmatismo di Nenni al momento della cessazione dello sciopero ad Ancona:

«… nell’epicentro del movimento, quando si riscontra che non esistono sbocchi politici, che la repubblica è di là da venire e che l’apparato dello stato ha retto, è lo stesso Nenni a presentare ad un'assemblea convocata presso la Camera del lavoro un ordine del giorno per la cessazione dello sciopero. Indipendentemente dalle critiche molto acerbe da parte di Mussolini, degli anarchici e dei sindacalisti rivoluzionari, c’è da osservare che è proprio l'agitatore repubblicano unitamente ad altri dirigenti locali, a proporre la desistenza della lotta, dopo il ritiro della CGdL e un sopralluogo in Romagna. Questo comportamento è già la spia di un maturo realismo e, nel momento della sconfitta, di una notevole dose di sangue freddo.»

Lo storico socialista Gaetano Arfé, dopo aver rilevato che il carattere della rivolta ebbe una impronta anarchica e repubblicana, scrisse[35]:

«… la predicazione mussoliniana aveva avuto la sua parte nel prepararla, ed è ancora Mussolini a far dell'Avanti! l’organo dell’insurrezione mancata e a portare buona parte del proletariato milanese su posizioni di combattiva solidarietà. (…) le velleità insurrezionali restano però localizzate all’epicentro dei moti. Nelle zone a più diffusa penetrazione socialista non si va generalmente oltre la solidarietà nella protesta contro gli eccidi. Anche però ad Ancona, donde il movimento aveva preso le mosse e dove aveva sede il suo stato maggiore – dal vecchio anarchico Malatesta al giovane repubblicano Nenni – nessuna preparazione c’era stata, nessuna direzione era emersa, nessun piano, neanche tattico, aveva guidato i dimostranti". Infatti i disordini appaiono dopo alcuni giorni molto frammentati da luogo a luogo, perché i capi della rivolta non ebbero prodotto alcun disegno rivoluzionario.»

In definitiva può concludersi che la rivolta fallì a causa della mancanza di unità e pianificazione: non c'erano organizzazioni della sinistra in grado d'incanalare le forze popolari e dare loro un programma rivoluzionario di radicale mutamento del sistema politico esistente.

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Note modifica

  1. ^ citato in LA SETTIMANA ROSSA DEL 1914.
  2. ^ Sita nel centro storico di Ancona, nei pressi dell'incrocio tra via Torrioni e via Montebello.
  3. ^ Sindacato di ispirazione rivoluzionaria, autonomo dalla Confederazione Generale del Lavoro, avente sede nazionale proprio ad Ancona.
  4. ^ cfr. Marco Severini (a cura di), La Settimana rossa, Aracne editore, Ariccia, 2014, pagg.13-14.
  5. ^ Vedi l'intervento del prof. Gilberto Piccinini nel corso della conferenza "Vittoria Nenni, un'anconetana nell'inferno di Auschwitz" tenutasi ad Ancona il 6 maggio 2016.
  6. ^ a b c Vedi il verbale del suo interrogatorio reso il 26 giugno 1914: «Premetto che io, tanto nelle conferenze tenute che negli articoli scritti nel giornale "Il nuovo Lucifero" ho propugnato il concetto repubblicano ed ho anche detto che come la storia ci ha ricordato la rivoluzione francese del 1789 per cui la società subì una trasformazione nella sua costituzione politica, così io prevedevo che doveva - in una epoca più o meno lontana - avere luogo un altro rivolgimento politico con l’avvento del proletariato. Dato il mio carattere vivace posso aver ecceduto in frasi alquanto grosse, tanto che subii dei procedimenti penali, specialmente per articoli sul "Lucifero" ma fui sempre prosciolto. Quanto ai fatti che si svolsero qui in Ancona dal 7 al 13 giugno volgente io darò conto giorno per giorno dell’opera mia. Nella mattina di domenica sette, quando Malatesta fu arrestato in Piazza Roma non mi ci trovai: ero in casa. Uscito nella stessa Piazza Roma che attraversai per recarmi alle poste seppi che era stato arrestato Malatesta e qualche altro. Di ritorno, pel Corso trovai l’avv. Marinelli e con lui mi recai alla Camera del Lavoro ove stavano circa 200 persone che si mostravano agitate per l’arresto di Malatesta. Marinelli propose nominarsi una commissione di cinque persone, con l’incarico di recarsi dal Questore all’oggetto di ottenere il rilascio degli altri. In questo momento entrò Malatesta nella Camera del Lavoro, e tutto finì: si decise poi di tenere un comizio privato a Villa Rossa, verso le ore 16 per protestare contro le compagnie di disciplina. Malatesta parlò contro l’"Avanti!" e poi parlarono diversi altri. Finito il comizio molti si allontanarono ed altri si apprestavano a giocare alle bocce o alle carte, come ci accingevamo a fare anche io ed altri amici. Ad un tratto intesi urli e schiamazzi nella sottostante via Torrioni; mi affacciai alla terrazza e vidi che i carabinieri respingevano verso Villa Rossa un centinaio di persone che volevano passare, che poi acconsentirono inquantoché sopraggiungevano altre. In questo momento furono scagliati da Villa Rossa pochi sassi ed altri, credo in maggior copia, da persone che stavano sulla mura che è dietro Villa Rossa. A questo punto si intesero i colpi d’arma da fuoco sparati sulla strada dai carabinieri. Infatti portarono nella Villa un ferito o morto che fosse, tale Giambrignoni: io mandai subito a chiamare all’Ospedale Militare il Dr. Tacchini che lo visitò. Siccome sulle prime non rivelò tracce della ferita credette che fosse morto di un colpo. Noto che l’avv. Marinelli che era rimasto a Villa Rossa, appena vide che si scagliavano sassi, si precipitò nella via sottostante; cosa che feci anch’io dopo portato via il ferito Giambrignoni. Il tenente dei RR.CC. può dire che io feci opera di pacificazione, cercando di calmare gli animi eccitati e riuscendo ad allontanare i più riscaldati. Poi andai al cinematografo Goldoni ove già si era recata la folla e consigliai ai dirigenti di chiudere il cinematografo per evitare conflitti, lo feci poi anche al Caffè Garelli; quindi mi ritirai con mia madre. Giorno otto. Il lunedì mattina fu tenuta una riunione alla Camera del Lavoro, dico meglio la prima riunione venne tenuta la domenica sera e fu deciso lo sciopero generale, non so chi vi prese parte. Nel mattino di lunedì vi fu una riunione, alla quale io non partecipai, alla Camera del Lavoro, e fu confermata la deliberazione di sciopero generale. So dai giornali che vi intervenne Malatesta: non so se vi fu l’avv. Marinelli. Nelle prime ore del mattino venne a casa mia il sig. Nino Battistoni, inviato speciale del "Giornale del Mattino" di Bologna e di altri giornali, a chiedere notizie. Poi mi recai in Piazza Roma ove ci fu un comizio di protesta per i fatti della sera precedente. Io mi limitai a fare un discorso di compianto per le vittime e di protesta, come possono deporre il sig. Rovesti Archimede corrispondente della "Tribuna", Luzi Renato del "Corriere della Sera" e l’avv. Marche e tale Scoponi che va sempre con Rodolfo Gabani. Malatesta è vero consigliò che bisognava provvedersi di armi, aggiunse però che potevano e dovevano servire a suo tempo, cioè quando la rivoluzione si maturava. Parlarono il Pedrini ed altri della Camera del Lavoro dicendo poche parole. Mentre aveva luogo il comizio, io mi accorsi che, dietro il pancone dove suona la musica, una massa di persone che aveva riconosciuto il delegato Carulli lo rincorreva. (A questo punto il Procuratore Generale, per ragioni di servizio ha dovuto assentarsi). L’avv. Marinelli che mi stava vicino, corse per impedire eccessi e non seppi altro. Nel pomeriggio dello stesso giorno otto, io mi trovavo in compagnia di Malatesta e dell’avv. De Ambris che volevamo condurre a visitare Villa Rossa: mentre percorrevamo Via Cialdini, incontrammo il Commissario di P.S. Frugiuele con la truppa, dal quale appresi che correva in Via Mazzini ove si tentava di svaligiare un negozio d’armi. Io allora pensai di ritornare per i miei passi, recarmi in Via Mazzini e persuadere quegli sconsigliati, che avevano già ferito un delegato di P.S. di desistere dal loro proposito. Infatti ottenni di passare attraverso i cordoni di truppa, seguito dal solo De Ambris e persuasi i tumultuanti ad allontanarsi con me verso Piazza Roma, ove parlammo De Ambris e io: raccomandai la calma perché non era possibile soverchiare la forza e quindi si sarebbero fatte altre vittime senza scopo alcuno. C’erano presenti il maestro Angelo Sorgoni, che mi venne a stringere la mano e Luigi Spotti. La sera stessa seppi dello svaligiamento compiuto dell’armeria Alfieri poco dopo il mio discorso, del che rimasi indignatissimo come possono dire l’avv. Marinelli e Renato Gigli. Verso le ore 23 andai alla stazione a ricevere l’On. [Giovanbattista . N.d.E.] Pirolini. Giorno 9. Il martedì ci siamo visti, la mattina, io, il Pirolini, Marinelli e qualche altro, abbiamo pensato di proporre che una Commissione si fosse recata dal Procuratore del Re per ottenere che si fosse fatta giustizia contro i carabinieri autori degli omicidi, ed ottenuta una promessa formale se fosse cessato dallo sciopero dopo i funerali. Questa proposta venne infatti fatta in Piazza Roma dall’On. Pirolini e accettata anche dall’on. Bocconi. Si oppose Malatesta dicendo che essi non volevano in galera nessuno e niente se ne fece. Il martedì nel pomeriggio ebbero luogo i funerali degli uccisi. Io mi trovavo con mia moglie davanti alle bare; giunti nelle vicinanze del Gambrinus avvenne un fuggi fuggi. Io ricoverai la mia signora impaurita nel portone di un palazzo di Via Mazzini; ma poi convinto che si trattava di un panico, la feci riuscire e ci avviammo al Corso quando udimmo, nello stesso Corso, degli spari. E allora credetti prudente condurre via mia moglie, che ricoverai semisvenuta in una casa dietro il Goldoni e poco dopo la condussi a casa ove trovai la mamma con la mia bambina. Io ebbi la convinzione che nessun colpo si era sparato dalla casa Marchetti ma che probabilmente qualcuno dalla strada, credendo che arrivasse la forza pubblica, aveva sparato un colpo, che si credette dalla folla, sparato dalla casa. Aggiungo che dopo accompagnata a casa la mia signora col sig. Nino Battistoni uscii e persuasi le persone, che stazionavano nelle vicinanze del palazzo donde si credeva partito il colpo, ad allontanarsi, perché io e l’avv. Giardini avremmo fatto una inchiesta per appurare i fatti. Giorno 10. Nella mattina di mercoledì fino alle 15 sono stato con l’avv. Marinelli in tipografia a preparare il giornale ove venne il Conte Perozzi il quale venne a domandare se si poteva fare una intesa coi repubblicani facenti capo all’on. [Domenico - N.d.E.] Pacetti. Noi domandammo dell’On.le Pacetti, il quale ci fece rispondere che avrebbe convocato il suo Comitato, ma poi niente se ne fece. Nelle ore pomeridiane dello stesso giorno ci fu una riunione alla Camera del Lavoro; intervennero i componenti del Comitato Esecutivo nonché i rappresentanti dei vari partiti fra cui Marinelli, Malatesta e altri. Io, dopo aver protestato contro gli atti individuali di violenza che si andavano commettendo, proposi che si nominasse un Comitato di cinque persone che si assumesse la responsabilità del movimento, purché però le masse si mantenessero ubbidienti. Questa proposta venne appoggiata da Marinelli ma si opposero Malatesta e Ciardi dicendo che vi era la Commissione Esecutiva della Camera del Lavoro, cui spettava provvedere e la mia proposta fu bocciata. Giorno 11. Intanto il giovedì arrivavano alla Camera del Lavoro automobili dalla Romagna, cioè Rimini, Forlì e una da Foligno, annunziando che la rivoluzione era scoppiata a Rimini, che il generale Agliardi era stato fatto prigioniero, e che tale sorte era pure capitata al Prefetto di Ravenna; che era stata proclamata qui e lì la repubblica, che il movimento si estendeva in buona parte d’Italia, e che il Re era fuggito. Queste notizie naturalmente eccitarono gli animi e turbarono anche me; ed allora ci fu alla Camera del Lavoro una riunione alla quale parteciparono: l’On. Bocconi, per i socialisti, io e Marinelli per i repubblicani ufficiali, Malatesta ed altri per gli anarchici ed un mazziniano che non ricordo. L’On. Bocconi propose che in seguito all’ordine della Confederazione generale del Lavoro, che aveva disposto la cessazione dello sciopero, si doveva riprendere il lavoro, proposta che quando si seppe fuori fece cattiva impressione ed il Bocconi venne male accolto. Io invece dissi che, per solidarietà, non si potevano abbandonare quelli delle altre parti d’Italia, qualora fosse vero quanto si diceva sull’estendersi del movimento e quindi le nostre deliberazioni sulla cessazione o meno dello sciopero, dovevano essere subordinate agli accertamenti sul se vere o no le notizie come sopra pervenute. Per l’oggetto proposi che Bocconi telegrafasse a Roma a qualche suo collega ed io sarei andato in Romagna per accertarmi ocularmente. La proposta fu accolta da tutti gli interessati all’adunanza predetta, e poi dal comizio che ne seguì. Nella sera non mi fu possibile trovare un’automobile. Venerdì 12. Venerdì mattina mi prestò l’automobile il conte Perozzi, e si decise di tenere un comizio alle 16, quando io sarei tornato dalla Romagna per decidere. Partiamo io, Giovanni Bitelli, un ferroviere della Fornace e il dr. Ugo Saltara; per evitare Case Bruciate ove si diceva che operava la forza pubblica, dovemmo andare pei monti e ci si guastò l’automobile; per la riparazione perdemmo tre ore a Pesaro. Tanto a Forlì che a Rimini trovammo che l’agitazione era finita. A Forlì salì sull’automobile l’On. Comandini che venne con noi in Ancona, ove giungemmo alle tre dopo mezzanotte. Giorno 13. Nella mattina di sabato, io presentai l’ordine del giorno per la cessazione dello sciopero, che fu accettato da tutti. Io, oltre le riunioni anzidette, non ho partecipato a qualsiasi riunione alla Camera del Lavoro né ho preso parte affatto ad alcuno dei provvedimenti da essa emessi nei giorni dell’agitazione. Solo una volta, a un comizio nella stessa Camera, ove un operaio propose che dovessero rimanere chiuse tutte le botteghe io mi opposi dicendo che bisognava lasciar modo ai cittadini di mangiare, e proposi anche che rimanessero aperti gli alberghi. Sapevo già che casotti daziari erano stati abbattuti, e che innanzi alla Camera del Lavoro, io vidi delle botti giovedì o venerdì, si faceva vendere il vino a cinque soldi il litro. Come seppi pure che quelli della Camera del Lavoro rilasciavano, a chi li chiedeva, dei lasciapassare perché si era diffusa la voce, ed era vero, che in alcuni posti non lasciavano passare. Non so che la Camera del Lavoro avesse fatto ordini di requisizione di grano od altro, né so che avesse dato ordine per mattazione di animali. Nel complesso credo di non aver commesso azioni criminose e mi dichiaro innocente. Nomino mio difensore l’avv. Augusto Giardini di qui.»
  7. ^ A questo riguardo, secondo Giuseppe Galzerano, il giovane avvocato repubblicano Oddo Marinelli avrebbe contestato al tenente Opezzi che comandava i carabinieri, di aver dato l'ordine di attacco senza aver fatto suonare i rituali tre squilli di tromba. Cfr. Giuseppe Galzerano, "Abbasso la guerra!", in Oggi7, magazine domenicale di "America Oggi"
  8. ^ Erroneamente indicato in molte pubblicazioni e siti web come ventiquattrenne, egli era nato ad Ancona il 18 febbraio 1886. Cfr. Marco Severini (a cura di), Dizionario biografico del movimento repubblicano e democratico delle Marche 1849-1948, Codex, Milano, 2012
  9. ^ Nel 1892 Desiderio Ciambrignoni, presumibile padre di Attilio, chiese ed ottenne dal Tribunale di Ancona il permesso di cambiare il cognome dei propri figli. Infatti il messo comunale per ben tre volte aveva erroneamente registrato il loro cognome come Giambrignoni, anziché Ciambrignoni. Il Tribunale emise il provvedimento richiesto nel gennaio 1893; presumibilmente nelle more era nato Attilio, anch'egli registrato all'anagrfe come Giambrignoni, ma non indicato nel decreto dell'Autorità giudiziaria, relativo solo ai tre fratelli Teresa Barbara, Guerrina e Silvio. Cfr. Silvia Bolotti, I protagonisti: i caduti di Ancona e Fabriano, in Marco Severini (a cura di), La Settimana rossa, Aracne, Ariccia, 2014, pagg.332-333
  10. ^ Il Lucifero, edizione straordinaria del 9 giugno 1914, nell'articolo Le belve umane, si scagliò contro la versione della Questura che, a fronte di tre morti fra i manifestanti, aveva parlato di carabinieri feriti, pur «con ferite guaribili da 2 a 12 giorni», stigmatizzando la fantasia di «certi giornalisti» moderati che avevano scritto di carabinieri «stramazzare al suolo, grondanti sangue», mentre poco dopo quegli stessi erano stati visti «bene allineati, soddisfatti, senza un filo di sangue, nel cortile della loro caserma!». Cfr. Marco Severini (a cura di), La Settimana rossa, Aracne, Ariccia, 2014, pag.15
  11. ^ Nato a Cilavegna (Pavia) il 20 dicembre 1864, Deceduto nel novembre 1948. Pubblicista e giornalista. Cfr. il sito storico della Camera dei Deputati
  12. ^ cfr. Marco Severini (a cura di), La Settimana rossa, Aracne editore, Ariccia, 2014, pag.20.
  13. ^ Ad un certo punto furono esplosi dei colpi di rivoltella per i quali furono mandati a processo i tre anconetani Vitaliano Racaneschi, Rodolfo Scoponi e Vincenzo Cerusici quali responsabili del fatto e Malatesta quale sobillatore; essi vennero poi tutti assolti. Vedi l'articolo de "L'Ordine. Corriere delle Marche" riprodotto nella Galleria fotografica
  14. ^ cfr. Alfonso Maria Capriolo, Ancona 1914: la sconfitta del riformismo italiano, in Avanti! online, 25 aprile 2014 Archiviato il 19 settembre 2016 in Internet Archive.
  15. ^ Nel periodo di direzione di Mussolini, l'Avanti! era salito da 30-45 000 copie nel 1913 a 60-75 000 copie nei primi mesi del 1914. Cfr. Valerio Castronovo et alii, La stampa italiana nell'età liberale, Laterza, 1979, p. 212. Vd. anche Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, 1883-1920, Collana Biblioteca di cultura storica, Einaudi, Torino, 1965, pag. 188.
  16. ^ cfr. Avanti! del 9 giugno 1914, testo riportato parzialmente in Mussolini partecipa alla "Settimana rossa”, ma senza convinzione - 10 giugno 1914 nel sito dedicato alla storia del comune di Alfonsine.
  17. ^ cfr. Avanti! dell'11 giugno 1914, testo riportato parzialmente in Mussolini partecipa alla "Settimana rossa”, ma senza convinzione - 10 giugno 1914 nel sito dedicato alla storia del comune di Alfonsine
  18. ^ Errico Malatesta, «Volontà», supplemento al n. 23 del 12 giugno 1914, riportato in La Settimana Rossa Archiviato il 28 giugno 2016 in Internet Archive. su Anarcopedia, l'enciclopedia anarchica multilingue sul web.
  19. ^ Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Roma, Giulio Einaudi Editore, 1965, p. 213.
  20. ^ cfr. "Utopia", Milano, nn. 9-10, 15-31 luglio 1914, riportato in il sito dedicato alla storia del comune di Alfonsine
  21. ^ Errico Malatesta, «Volontà», n.23 del 13 giugno 1914, riportato in La Settimana Rossa Archiviato il 28 giugno 2016 in Internet Archive. su Anarcopedia, l'enciclopedia anarchica multilingue sul web.
  22. ^ «Un gruppo di giovani, alla insaputa del Comitato d’agitazione, si recò nel bosco del marchese Calcagnini, dove sradicarono un diritto frassino lungo 15/16 metri e lo portarono in Piazza Correlli di Fusignano e lo piantarono di fronte alla chiesa del Suffragio con in cima una rossa bandiera presa dalla sede dei socialisti. Eretto l’albero della libertà, si riunì spontaneamente una folla di dimostranti e curiosi che salutarono con evviva la rivoluzione, poi il concerto cittadino si prestò a suonare la Marsigliese, l’Inno dei lavoratori e l’Inno di Garibaldi. Con questa spontanea cerimonia il Paese assunse un aspetto festoso. Un certo Antonio Preda, dilettante fotografo, volle ritrarre la scena che riprodusse in cartoline illustrate e che servirono per alcuni giornali illustrati nazionali, ma servirono anche alla Polizia per individuare i partecipanti e procedere agli arresti». Cfr. Giuseppe Manfrin, Ancona, la settimana rossa, da "Avanti! della Domenica" - 10 marzo 2002 - anno 5 - numero 10, testo riportato in Il socialista
  23. ^ Cfr. «Il Lamone», 21 giugno 1914, riportato in Anarcopedia, l'enciclopedia anarchica multilingue sul web Archiviato il 28 giugno 2016 in Internet Archive.
  24. ^ cfr. Marco Severini (a cura di), La Settimana rossa, Aracne editore, Ariccia, 2014, pag.21.
  25. ^ Cfr. Marco Severini, Nenni il sovversivo. L'esperienza a Jesi e nelle Marche (1912-1915), Venezia, Marsilio, 2007, pag.99
  26. ^ A Londra, dove trascorse tutto il periodo della prima guerra mondiale.
  27. ^ cfr. Luca Frontini, La dimensione processuale, in Marco Severini (a cura di), La Settimana rossa, Aracne editore, Ariccia, 2014, pagg.107-117.
  28. ^ cfr. il sito sulla storia di Alfonsine
  29. ^ R.D. n.1408 in Gazzetta Ufficiale del Regno del 30 dicembre 1914. Cfr. Pietro Nenni, Vento del Nord, Einaudi, Torino, 1978, pag. LXII
  30. ^ vedi l'articolo de "L'Ordine. Corriere delle Marche" riprodotto nella Galleria fotografica
  31. ^ a b Cfr. Nenni e la Settimana Rossa nel sito dedicato alla storia del comune di Alfonsine.
  32. ^ Il Vice [C. Treves], "Cause ed effetti", Critica Sociale, 16 giugno 1914
  33. ^ Alessandro Levi, "I diritti del riformismo. Per parlare chiaro", Critica Sociale, 30 giugno 1914
  34. ^ Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1965, p. 213.
  35. ^ Cfr. Gaetano Arfé, Storia del socialismo italiano 1892-1926, Einaudi, Torino, 1965

Bibliografia modifica

  • Luigi Lotti, La Settimana rossa, Le Monnier, Firenze 1972
  • La Settimana rossa nelle Marche, a cura di Gilberto Piccinini e Marco Severini, Istituto per la storia del movimento democratico e repubblicano nelle Marche, Ancona, 1996
  • Alessandro Luparini, Settimana rossa e dintorni. Una parentesi rivoluzionaria nella provincia di Ravenna, Edit Faenza, Faenza 2004
  • Massimo Papini, Ancona e il mito della Settimana rossa, Affinità elettive, Ancona 2013
  • Marco Severini (a cura di), La Settimana rossa, Aracne, Ariccia, 2014

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