Utente:Scipione3/famiglia de' Guadagni Aretina

Stemma Guadagni (Pal. Sacrati).
Stemma Guadagni aretino, il moro con l rosa in bocca. Arezzo - Borgo a Giovi, Villa Guadagni, parete del giardino.

I Guadagni sono una nobile famiglia originaria della Toscana , avente 3 principali genealogie, delle quali la più antica è quella fiesolana e poi fiorentina di Guittone. Dal XIII° secolo viene a formarsi il "ramo aretino" della famiglia (da Accatto), dal XV quello "francese" (dal fiorentino) e dal XVII quello "germanico" (austriaco, dall'aretino, i nipoti di Pietro Guadagni).

Storia familiare modifica

Secondo Eugenio Gamurrini il capostipite è Vinaldro (Vinadri) [1], al quale attribuisce la nascita al 920 (960, i "quarant'anni" nella genealogia) e prosegue con Pagano (1000) ed i figli Meglio (detto Emilio, 1040) e Giovanni detto Carroccio (1050). Meglio avrà figli Guittone e Pagano, Giovanni detto Carroccio avrà Guido, Giannino detto Migliorello e Pietro.

Altri "storici", inspecie (e da) Luigi Passerini [2] e la stessa Famiglia Guadagni (fiorentina) (essendo rimanente solo il ramo "di Guittone"), indicano invece quale capostipite "certo" Guittone, che appare in un documento del 1080 ("Guittone, figlio di un Migliore da Lubaco ... acquisitore di terre in un luogo detto Marusia del Popolo di San Martino ..."), poichè lo stesso non ha ritrovato alcuni documenti citati dal Gamurrini, che con Vinaldro attribuirebbe le origini "addirittura ai Longobardi" [3].

Secondo il Gamurrini, i Guadagni Giungono in città agli inizi dell'XI secolo (nel 1010, "quando fu fatta l'unione tra fiesolani e fiorentini, e che fosse ricevuta con molte altre al governo della Città, che li governava allora con 2 Consoli, all'uso de' Romani, che duravano un anno", cit.), mentre il Passerini ci dice, riferendosi a Guittone "... ma i suoi discendenti non discesero a Firenze fino agli ultimi anni del secolo XII".

Furono nel XIII secolo di partito guelfo (ramo familiare fiorentino). Cacciati dopo la battaglia di Montaperti 1260 tornarono in Firenze solo nel 1281, ben dopo la sconfitta dei ghibellini.

La famiglia era dedita ai proficui commerci che rendevano Firenze una delle piazze mercantili e finanziarie più ricche d'Europa. Con il successo arrivarono anche le cariche politiche: consoli, priori e gonfalonieri di giustizia.

ramo (o ceppo) aretino modifica

la nascita e le ipotesi di legami con le altre due omonime casate "fiesolan-fiorentine" modifica

 
Stemma Guadagni sopra la Porta d'Ingresso della Villa in Borgo a Giovi (edificio del 1480 circa, su probabile ristrutturazione edificio preesistente forse due o trecentesco) Il Moro con la Rosa in bocca.
 
Stemma Guadagni aretino: Moro con rosa in bocca

I Guadagni sono presenti ad Arezzo sin dal "primo '200" ed il capostipite è considerato Accatto ("Guadagnum elim Acatti de Jovi tiene Civi Aretino", quelli che saranno poi anche detti "i Guadagni di Giovi") il cui figlio Guadagno (n. 1280 circa) nel 1320 godeva della cittadinanza della Repubblica Aretina.

Eugenio Gamurrini, che ha ricostruito nel 1668 il capostipite della casata Guadagni Fiorentina (riunendo i due rami con capostipite Vinaldro nel 960 ed i nipoti Meglio e Giovanni detto Carroccio) ci dice che "a causa incendi e ruine causate dalle guerre civili del XIII° secolo, non si è potuto accedere antecedentemente nei documenti, andati perduti, e quindi al collegamento "esatto" con la discendenza fiorentina d'origine.

Infatti collegamento potrebbe sia esserci, che non esserci: potrebbe essere attraverso un ramo fiorentino spostatosi di cui appunto mancano le notizie, come pure potrebbe esserci stato lo sposalizio del padre di Acatto (o di suo nonno, ecc.) con una Donna Guadagno, ed Acatto che quindi dà tale nome al figlio, come altre possibilità, come pure tale collegamento potrebbe non esserci, e quindi il cognome esser nato in manera autonoma "parallela". Quale delle due?

Purtroppo fino ad oggi le documentazioni pervenuteci non ci danno notizie antecedenti ad Acatto da Jovi. Pertanto non è chiaro se i due rami fiorentino ed aretino Guadagnum Guadagno Guadagni debbano considerarsi da Vinaldro o meno. Certo è che Angelo, figlio di Guadagno, ripeterà il nome a suo figlio, come pure il fratello Pietro al suo primogenito, ed il di lui nipote Nicola si assocerà a tale tradizione, e questo "modo di fare" è presente anche nella famiglia fiorentina nel XII° e XIII° secolo, l'albero genealogico disegnatoci da Gamurrini ripete i nomi proprio nei secoli di maggiori guerre e tensioni, inspecie nell'interrotto "ramo secondario fiorentino".

Ma Acatto (l'accatto) è sinonimo di guadagno. Un "nuovo accatto" (e poi Guadagno) o invece il nome Guadagno a mantenere il legame con le origini a nipoti e pronipoti. Nello stesso periodo (XIII° sec.) perdiamo i nodi o le notizie aretine nei documenti.

Guardando le mappe, osserviamo che attualmente Giovi fa parte del Comune di Arezzo, e dista cinca 6 km dai "confini comunali" ma oltre 10 dalle Mura trecentesche. A 2-3 km da Giovi, in direzione sud (Arezzo) il nucleo di "Puglia d'Arezzo", mentre in direzione nord abbiamo il "Borgo a Giovi". Giovi nelle campagne, sul "Ponte alla Chiassa" coi corsi d'acqua e Molini ed i commerci, punto di snodo fuori dalle mura e sicurezza cittadine ma anche dai conflitti e faide cruente del tempo, la sicurezza è il Castello familiare ed "il sapersi destreggiare".

Acatto nasce probabilmente intorno al 1240. Ma dove e da chi? E Guadagno?

Fosse un nuovo "ceppo" od albero aretino? Certo è anche che il nome Guadagno "apriva le porte" e conveniva comunque averlo, e sapeva che per farlo doveva "esser portatore di pace e non di guerra", saper gestire le situazioni, i commerci ed i danari. E quindi anche politica cittadina. Acatto "era un qualcuno". E aveva il Molino (Mulino).

Il Farulli ci indica che alla V^ Crociata parteciparono 1600 armigeri aretini "ed un infinito numero di toscani ... così della fazione Guelfa, come Ghibellina", nel 1217. E ce li indica vittoriosi nell'assedio di Damiata, tra "i primi a piantarvi l'Insegna della Croce con somma gloria della città di Arezzo".

Lo Stemma dei "Guadagni da Giovi" è il Moro con la Rosa in bocca.

Mai nessuno al tempo si sarebbe sognato di indicare nel proprio blasone una tale onorificenza e motivo d'orgoglio, qualora non fosse stato vero! Ed il crociato illustre era quindi molto probabilmente il nonno di Acatto (facendo i conti, il padre pare "troppo giovane" o forse non ancora nato) che arriva (o ritorna) vittorioso in Arezzo.

E' probabilmente qui (od in quel periodo) l'anello di congiunzione con la famiglia fiorentina nata a San Martino a Lubaco: un Guadagni (guelfo) che partecipa alle crociate ed al proprio ritorno si sistema in Giovi (o nei dintorni d'Arezzo). Ed ottiene (od aveva già) il Molino.

Il Gamurrini ci illustra i documenti dell' XI° secolo nei quali appaiono i Guadagni, il primo del 1078 (arcivio Vallombrosa) che ci cita le terre confinanti con quelle di "de filiis Carocci filii Pagani Vinadri", l'altro (attualmente il primo "documento diretto" riguardante la famiglia) che certifica nel 1080 Guittone (di Meglio di Pagano) comprare dei terreni a Marusia, nelle vicinanze di San Martino a Lubaco. Gamurrini che, dopo aver riunito i due rami familiari di Migliore e Carroccio, ci informa inoltre "essendo necessario ritornare ai discendenti di Carroccio, da cui a mio credere possano avere avuto origine altre famiglie, che forse nel tempo se ne verrà a noi in luce, e forse da altri Antiquari più fortunati di noi, e però si porrà il ceppo con tutti quei rampolli che da noi si son potuti rinvenire." E prosegue: "Giannino detto Migliorello figliuolo di Gio. detto Carroccio fu fratello di Pietro, e padre di Marco detto Marchese, che generò Rustichello; di Mancino, che generò Buonaccorso; di Piglio, da cui nacquero Guadagno, Braccio, Alberto, Spada e Bruno. ... Nell'archivio di Vallombrosa ... si vede che Placida era la moglie di Mancino, da cui nacque Buonaccorso; e Richilda la moglie di Marco, da cui nacque Rustichello; e di Piglio fu moglie Libania". Detto "ceppo" di Carroccio, termina al 1180 coi citati figli di Pirro, ovvero Guadagno, Braccio, Alberto, Spada e Bruno, ed il figlio di Guadagno, Giovanni.

Proprio da detto ceppo, trasferitosi in Arezzo nel "primo '200", potrebbe esser poi nato Acatto e tutta la dinastia aretina.

 
Giovi artistico 270° 150 dpi

Ma un'altra ipotesi, altrettanto se non più probabile, potrebbe esservi, ovvero "un parallelismo zonale" sull'antichissimo asse etrusco Fiesole - Cortona - Arezzo - Chiusi, di nascita di un cognome in due o tre rami (capostipiti) distinti (ovvero i tre rami della famiglia Guadagni, certi, i primi due "discesi" poi a Firenze, mentre il terzo nasceva proprio da Acatto (o meglio da suo padre, di cu non sappiamo il nome ...) e dal significato appunto del nome stesso: il maggior e più ambito acatto: la Libertà, la Dignità e soprattutto (quindi) l'Onore.

Dobbiamo tener infatti conto della situazione feudale, nonchè di potere, al tempo, in generale e soprattutto aretina. Acatto nasce nel 1240 circa, e nel 1237 abbiamo ad Arezzo un "famoso" Processo. Derivante da una Legge papale del 1094, ovvero l'obbligo di castità per il Clero (prima inesistente). Difatti tale disposizione manteneva alla Chiesa i beni dei Signori (in molta parte ecclesiali o di tale discendenza), bloccando la dispersione dei beni ed arricchendosi invece con le donazioni successive (tant'è che poi, all'"unità d'Italia" nel 1861 risultava che i 2/3 del territorio italiano fosse di proprietà della Chiesa ...). In quanto i figli di qualsiasi ecclesiale che gestivano le proprietà, non potendo reclamare il nome del padre, alla morte ne perdevano poi la proprietà agli eredi, ed il tutto tornava alla Chiesa. La Chiesa ad Arezzo erano i Frati di Camaldoli, Ghibellini in quanto insigniti dall'Imperatore sul loro dominio, in cambio della relativa devozione politica.

Nel 1238 questo avvenne al Processo, argomento che necessita di apposito sottocapitolo:

Il processo per la tutela dei beni ai figli minori di Ughetto di Sarna modifica

E qui, viene copia-incollata http://www.fedoa.unina.it/2027/1/Giorgi_Storia.pdf - il capitolo 3 (pag. 76-88)

3. Alle origini del patriziato aretino

A sostegno delle ricostruzioni a carattere generale sulle origini e sull’ideologia della componente aristocratica che sul finire del XIII secolo in molti comuni italiani e nelle realtà urbane del mondo tedesco si fusero con il ceto borghese-artigianale emergente per dare vita ai patriziati cittadini, risulta molto prezioso uno studio condotto da Giovanni Tabacco riguardante per l’appunto le caratteristiche originarie ed i valori fondamentali del ceto nobiliare aretino nel corso del XIII secolo. Attraverso un ricerca molto attenta e ricca di riferimenti documentari emerge la tesi fondamentale per la quale la nobiltà aretina ha avuto nella fase immediatamente precomunale e nel delicato passaggio istituzionale coincidente con l’emergere delle organizzazioni “del popolo” una matrice marcatamente militare e cavalleresca. Molto più sfumata e molto meno pertinente appare la definizione di una nobiltà giuridicamente indentificata dal vassallaggio e dal possesso di feudi. Una prima prova a sostegno di questa teoria è da rintracciare nell’attenta lettura della documentazione che nel 1238 costituisce un processo istruito per disporre se i beni e gli stessi figli minori di un tal Ughetto di Sarna debbano essere posti sotto la tutela dei curatori nominati dal questo, oppure se debbano rientrare nelle competenze del monastero di S. Flora e Lucilla. La disputa legale, risolta a favore dell’ente religioso, è nata poiché di questo personaggio, vissuto inizialmente nei castelli abbaziali di Sarna nel Casentino, e di Turrita - in prossimità di Arezzo - e poi nella città stessa, non è chiara la condizione di uomo libero oppure di individuo subordinato da originari legami servili all’abbazia. Questa documentazione non indagata in chiave meramente processuale e riferita alla particolare condizione personale di Ughetto e dei suoi figli è per l’appunto assai interessante poiché le parti in lite trovano almeno un accordo nel definire questo individuo come soggetto vissuto sia nei castelli del Casentino sia nella città di Arezzo al modo di un cavaliere. Le testimonianze prodotte da coloro che intendevano dimostrare la condizione di uomo libero tengono a sostenere che il defunto, al momento della distruzione del castello di S. Fiora in Turrita, era venuto ad abitare in città ed era stato ricevuto come cittadino del comune. Dalle istituzioni aretine aveva avuto un terreno dove vi aveva edificato una casa, e dove aveva vissuto per molti anni insieme alla propria famiglia. E’ chiara l’intenzione quindi di qualificare Ughetto come un uomo libero, di far emergere la sua piena condizione giuridica di cittadino, e di rimarcare la sua condizione sociale di uomo dabbene ed onorato. In particolare la situazione di cittadino è dedotta dalla proprietà di una casa ad Arezzo e da una pluriennale residenza nella città, con tutti gli obblighi che ne conseguivano. La condizione sociale è testimoniata dal comune giudizio, fondato sul genere di vita condotto da Ughetto, rappresentato dal fatto che egli era stato notato in molte circostanze intrattenersi in attività con armi e con cavalli, secondo il costume dei nobili. Inoltre insieme ad altri “milites” era stato legittimamente convocato alla cavalcata, poiché teneva un cavallo a favore e per la difesa delle istituzioni comunali, ed aveva denunciato un possesso patrimoniale tale da poter essere considerato al pari degli altri cavalieri. Sono prove e constatazioni queste di fatti d’arme che garantivano simultaneamente la condizione di cittadino e di nobile: di una nobiltà fondata sul genere militare di vita, in rapporto con una valutazione ufficiale del patrimonio privato. All’inizio del XIII secolo ad Arezzo sembra dunque normale nel concetto di nobiltà l’idea di un dispendio cavalleresco, in cui convergano un’adeguata base economica e consuetudini militari di vita. L’esistenza di un rapporto vassallaticofeudale non appare in alcun modo come elemento costitutivo nella definizione della nobiltà. Occorre al contrario constatare che il servizio feudale collegato ad un omaggio può essere fonte di ambiguità, allorquando non sia chiara la natura del rapporto personale. Tale relazione, infatti, potrebbe configurarsi come una dipendenza da un determinato signore entro la quale comunque vi sia la possibilità di disporre liberamente della propria persona e di godere di una certa autonomia economica. Al contrario il rapporto personale potrebbe essere inteso come un globale assoggettamento della persona e dei beni al signore. Nell’orizzonte mentale degli aretini di inizio Duecento a differenza dei coevi abitanti delle città tedesche il servizio nei confronti di un signore feudale non costituisce un valore tale da innalzare, e determinare così notorietà al soggetto subordinato perché beneficiato di riflesso dalla grandezza del proprio “dominus”. Le ragioni del monastero di S. Flora e Lucilla sono suffragate da altre testimonianze che se da una parte intendono dimostrare la dipendenza e gli obblighi servili di Ughetto, dall’altra però non se ne contesta la condizione di uomo che prima di trasferirsi in Arezzo viveva al modo dei cavalieri. Ricordando l’originaria e lunga residenza su terra abbaziale e soprattutto volendo rimarcare il significato di questa iniziale esperienza viene specificato che Ughetto al pari chi chiunque altro residente nei castelli di Sarna o di Turrita avrà certamente dato il “datium” all’abbazia, avrà combattuto, cavalcato insieme, espletato tutti i servizi dovuti a vantaggio del proprio signore. Per sgombrare qualsiasi dubbio, infine viene affermato che Ughetto è stato visto dare il pane, il vino e il letto all’abate - suo signore - e ai suoi nunzi. Questi atti rappresentano inequivocabilmente il cosiddetto servizio di albergaria, che contraddistingue chi è soggetto al potere di costrizione di un signore locale. Sono un onere che esprime la dipendenza piena ad un “dominus”. La ricostruzione di questa condizione non deve però essere scambiata come un piena dipendenza servile. Di Ughetto, infatti, non si vuole mettere in evidenza la totale assenza di libertà personale, ma solamente la condizione di un soggetto al quale si sarebbe potuto richiedere la residenza su terra signorile e i più vari servizi, remunerandolo con possedimenti e consentendogli anche armi e cavallo, a patto che fossero usati a vantaggio del proprio signore. Ora proprio l’ambiguità del rapporto personale che in questo caso giudiziario non si esplicita nella totale dipendenza né nell’impossibilità di disporre delle risorse economiche, fa di Ughetto un “ministeralis” italiano, sul modello dei “ministeriales” tedeschi, ed inoltre garantisce a tale individuo di prendere la residenza ad Arezzo ed essere equiparato ai più importanti cavalieri aretini. Ritornando per attimo infatti alle testimonianze a sostegno dell’identità di uomo libero, vi è chi ritiene il protagonista molto vicino e familiare degli Azzi, consorteria di tradizione longobarda che aveva dato ad Arezzo anche un vescovo all’inizio dell’XI secolo. In questa altalena di presentazioni dell’identità di Ughetto, emerge comunque la volontà di questo, una volta passato dalla sfera del governo abbaziale a quella della città, di prendere definitivamente posto fra i nobili, ossia fra i “milites”, che in uno stile di vita segnato dalla grandezza mostrano con decisione le proprie attitudini al comando e manifestano il desiderio di una preminenza sociale. Poco importa il senso della sentenza che giudica Ughetto uomo dell’abbazia di S. Flora e Lucilla e pone sotto tutela i beni ed i figli minori di quello, non riconoscendone l’identità cittadina e nobiliare. Tale verdetto infatti è con ogni probabilità indirizzato dai difficili tempi che il comune di Arezzo è costretto ad attraversare in quanto posto sotto scacco dalla pressione papale e soprattutto dalle scomuniche e dall’interdetto lanciato dal vescovo. Molto più denso di senso è la considerazione che alcuni hanno nella città di Arezzo per la quale soggetti come Ughetto, pur provenendo dal contado, pur avendo trascorsi in qualche modo servili, mediante la residenza, il possesso di una abitazione, un consistente patrimonio fondiario, e con le competenze di cavaliere, possono essere considerati pienamente oltre che come cittadini anche come nobili. Ancora è assai interessante verificare come nella ricostruzione processuale della vita e delle identità di Ughetto emerge tutta la capacità di Arezzo di attrarre in questi decenni - anche attraverso un’azione violenta - molti uomini dal suo comitato avvezzi alle armi e al comando nelle fortezze signorili e nei borghi incastellati, e destinati ad integrare la nobiltà militare di Arezzo. Un’aristocrazia dunque cittadina, ma molto eterogenea nella sua composizione. Vi sono - è il caso degli Azzi di Turrita - coloro che provengono da consorterie di “lambardi” largamente diffuse nel comitato aretino, come del resto anche in Toscana. Sono gruppi parentali di possessori notevoli, il cui patrimonio fondiario costituito da tempo immemorabile ha permesso una vita diversa da quella dei contadini. Per la protezione e l’incremento dei propri beni, e in relazione alle esigenze militari dei borghi e castelli in cui risiedevano prima di trasferirsi in città, sono indotti a praticare le consuetudini cavalleresche. Consorterie di “lambardi” queste, che già nei luoghi di provenienza - nel castello di Caprese - si distinguevano nettamente come nobili rispetto ai cosiddetti “populares”. Altri, è il caso di Ughetto, sono di origine rurale più umile e oscura, tanto da potersi supporre che abbiano ascendenza giuridicamente servile. Questi attraverso prestazioni militari qualificate si sono mischiati con i “lambardi” già nei luoghi di provenienza, imitandone le forme di vita cavalleresca. Altri, infine, procedenti dal nucleo più o meno antico della cittadinanza, sono quei cittadini originari e degni di onore a cui Ughetto ad Arezzo viene associato. Qualunque sia stata realmente la loro condizione all’inizio dell’età comunale, certo è che ad Arezzo al principio del XIII secolo, dallo spaccato emerso nelle testimonianze processuali, questi nobili di antica cittadinanza appaiono come i rappresentanti di una tradizione militare ad alto livello, propria della città. Una molteplice convergenza dunque, dal contado e dalla città, verso un concetto di nobile coincidente con l’idea di un tenore di vita libero e cavalleresco e di una connessa responsabilità militare. Ancora la citata minaccia di scomunica del vescovo di Arezzo ed il comune hanno costituito il motivo per la redazione di un’ altra fonte documentaria di grande importanza e di appena due anni precedente rispetto al processo relativo alla condizione personale di Ughetto di Sarna. Nel 1236 il podestà e il consiglio del comune aretino, per liberare la città dalla censure ecclesiastiche, fanno una serie di promesse al delegato papale, offrendo una cauzione di mille lire pisane garantita dai cittadini più nobili e più potenti di Arezzo. Questi sono in numero di quattordici e fungono da veri e propri fideiussori. Il documento li esplicita nelle personalità di “Albertum de Monteacuto, Ugonem comitem de Montedullio, Rigonem domini Teste, Ildebrandinum de Petramala, Tertum de Bostolis, Orlandinum olim Guidonis de Albrigottis, Donatum filium domini Stephani, Forzorem quindam Pauli, Boniannem Vescontesse, Andream Iacobi Oderisci et Ugolinum Dodi Ranierum Iacobi Sinigardi et Brillum notarius et Rudolfinum Ildebrandini”78. In questo elenco possono essere esemplificate le diverse tipologie della nobiltà cavalleresca e militare aretina di inizio Duecento. Infatti tra le famiglie cavalleresche definibili con il termine di “lambardi” appartengono senza dubbio i Montauto, i conti di Montedoglio, i discendenti di Testa. I Bostoli, il gruppo parentale originario di Pietramala, ossia i Tarlati, e gli Albergotti sono rappresentanti invece della nobiltà residente in città, anch’essa a forte vocazione militare e soprattutto legata da rapporti parentali con l’aristocrazia feudale di contado. Il rimanente gruppo di garanti per comune di Arezzo sono quei cittadini di estrazione borghese non ancora nobilitatasi - per non aver ancora assimilato stili di vita “cavallereschi” - e dediti probabilmente alle arti liberali se è vero che tra questi alcuni esercitano la professione di notaio. Titolata è certamente la famiglia dei Montauto per aver ricevuto intorno alla fine del XII secolo investiture feudali tanto dall’eremo di Camaldoli - il viscontado di Anghiari - quanto direttamente dall’imperatore Enrico VI sulle loro possessioni. In virtù di ciò i Montauto possono esercitare la loro giurisdizione e godere di servizi di “albergaria”, su coloro che precedentemente erano a tutti gli effetti uomini liberi. I conti di Montedoglio investiti del titolo comitale all’inizio del XII secolo presentano forti similitudini con i signori di Montauto per la zona geografica che occupano con i loro possedimenti - le montagne a nord-est di Arezzo - e per la centralità della loro stretta relazione feudale-vassallatica tanto con l’abbazia di Camaldoli quanto con l’imperatore. Soprattutto il legame con l’abbazia casentinese determina una convergenza di interessi tra i Montedoglio ed il comune di Arezzo nei primi decenni del XIII secolo, quando sono ricordati in una bolla papale del 1223, insieme con il priore camaldolese di Anghiari, come responsabili di offese ai diritti patrimoniali del capitolo della cattedrale di Arezzo. La loro presenza poi fra le più nobili famiglie della città stessa di Arezzo, a distanza di una decina d’anni, dimostra di quali nuclei potenti l’aristocrazia militare cittadina si sia irrobustita nel corso dell’età consolare. Questa (Cfr G. TACACCO, Nobiltà e potere ... cit., pag. 7), irradiandosi nel territorio per coordinare intorno alla città le forze religiose ed economiche di chiese e monasteri, era riuscita ad attrarre ed incorporare un’aristocrazia dotata di basi e ragioni proprie di azione. Il comune aretino volendosi sostituire a quella potenza vescovile che fra X e XI secolo aveva coordinato via via più intensamente nel quadro diocesano i vari enti religiosi del territorio e che fra XI e XII secolo si era posta al vertice del potere politico del comitato, era riuscito a far convergere verso i propri fini anche le famiglie signorile dei Montauto e dei Montedoglio. Il graduale tramonto dell’egemonia vescovile sul comitato aretino coincide dunque con la progressiva attrazione dell’aristocrazia del comitato entro la sfera d’azione della città. Speculari ai Montauto e ai Montedoglio sono i discendenti di Testa. Al pari delle due famiglie signorili attestate nelle montagne appenniniche a nord-est di Arezzo godono della considerazione imperiale e dimostrano una vocazione militare e cavalleresca indubitabile. Nel 1220, infatti, Federico II, confermando un precedente diploma di Ottone IV, pone in rilievo la fedeltà all’impero di alcune famiglie aretine, annoverando fra di esse il nucleo parentale dei figli di Testa, ai quali viene confermato come feudo diretto il castello di Cignano - a sud-ovest di Cortona - con diritti di albergaria e piena giurisdizione spettante all’impero. Il possesso poi della fortezza di Montecchio, in prossimità di Castiglion Aretino, come bene patrimoniale di natura allodiale dimostra il potere militare e giurisdizionale di questa famiglia signorile. Il potere signorile di coercizione e di giustizia non proviene da un’investitura feudale, ma dalla piena e libera disponibilità di un patrimonio. La dominazione signorile in cui sono inseriti i figli di Testa attraverso castelli come quelli di Cignano e di Montecchio, fa dunque buon riscontro, sui margini orientali della Val di Chiana meridionale, alla dominazione dei Montauto e dei Montedoglio sull’Appennino ed inoltre mostra l’ampiezza che Arezzo esercita territorialmente. Deve essere inoltre aggiunto che la discendenza di Testa ha stretto rapporti ancora più intensi con il comune di Arezzo - prefigurando in un certo senso un processo di inurbamento - in quanto sempre all’inizio del XIII secolo risultano proprietari di una piazza. Nel diploma di Federico II, accanto ai figli di Testa e come loro consorti nel castello di Cignano, sono ricordati i Bostoli. Si tratta si un gruppo parentale analogo a quello ora esaminato per base territoriale, legami feudali con l’impero e presenza in città. In particolare quest’ultima è già forte nel XII secolo, poiché i Bostoli sono fra i consoli aretini nel 1175 e nel 1180 e ricoprono l’ufficio podestarile ad Arezzo nel 1202. Ancor più emblematico del loro ruolo primario esercitato in città è un fatto avvenuto nel 1216, quando il podestà dinanzi al consiglio cittadino li assolve dalle pene a cui erano stati condannati per l’occupazione dei castelli di Rondine in Valdarno e di Capolona nel Casentino, nonché per le violenze esercitate in città. Il podestà in particolare dispone di restituire ai Bostoli i beni precedentemente confiscati per la condanna ricevuta, a condizione che essi liberino da ogni giuramento loro prestato quegli uomini di Arezzo e del comitato aretino che si siano obbligati, e a condizione che non richiedano al comune di Arezzo il risarcimento dei danni loro recati con la distruzione di case e di torri in loro possesso. La consorteria dei Bostoli dunque sebbene abbia agito contro il comune come una piccola potenza organizzata ed autonoma, nell’atto di sottomettersi viene rispettata nella sua sostanziale integrità. Formalmente la pacificazione assume un carattere ambiguo, come di trattato tra organismi coesistenti e non perfettamente integrati l’uno nell’altro. Ciò merita tanto maggiore rilievo, in quanto i Bostoli sono pur cittadini di Arezzo, non per una subordinazione recente, ma per una lunga tradizione di residenza e di responsabilità politica nel comune. Sono anzi così profondamente radicati nel tessuto cittadino che nel 1222, quando Arezzo fa alleanza con Siena, i “buoni uomini di consiglio” chiamati a giurare i patti si presentano divisi in due gruppi, di cui l’uno fa espressamente riferimento alla famiglia Bostoli. I membri dell’altro gruppo si dichiarano seguaci dei Tarlati di Pietramala, altra famiglia tra le più nobili e nominata anch’essa tra quella che garantiscono per Arezzo nel documento del 1236. Anche questa ha avuto un proprio membro tra i consoli di Arezzo nel 1198, e i Tarlati risultano possedere beni in città per lo meno dalla seconda metà del XII secolo. Essi sono in stretta relazione coi Calmaldolesi di Anghiari, dove nel 1234 il priore locale nomina Ildebrandino podestà e rettore del castello. Ancora una volta è palese il connubio fra base cittadina e base rurale nelle parentele nobiliari di maggior rilievo ad Arezzo. Come ultimo esempio di contiguità e di confluenza tra aristocrazia rurale a base feudale e successivamente inurbatasi oppure attratta nell’orbita del comune e nobiltà di origine cittadina ma proiettata verso il contado e indirizzata a stabilire relazioni sociali e politiche con i poteri feudali, può essere riconosciuto nella potente famiglia Albergotti, presenti con allodi nella città, nelle sue immediate adiacenze e legata da rapporti di consortato con i Bostoli. Tra i “nobiliores et potentiores” dopo le famiglie che dal punto di vista più squisitamente identitario hanno consolidato una memoria ed una notorietà storica, come i Montauto, i discendenti di Testa, i Bostoli, i Montedoglio, gli Albergotti e i Tarlati di Pietramala sono citati anche tre notai e due individui la cui qualificazione in base al nome del padre non rimanda ad una discendenza nota. Questi ultimi sono di fatto privi del quel significato assolutamente originario di nobiltà, ossia la possibilità di far riferimento ad una tradizione familiare conosciuta o comunque conoscibile. Ciononostante questi fanno parte quasi tutti del consiglio generale cittadino e/o sono membri anche autorevoli della fazione guelfa. Tali informazioni, unite al fatto che tra i fideiussori di Arezzo nei confronti del vescovo di Arezzo vi sono anche tre notai, permettono con certezza di qualificarli come i più autentici rappresentanti della borghesia cittadina, per la loro origine ed il loro radicamento in Arezzo e per l’esercizio di professioni liberali. Dalle opportune descrizione compiute nello specificare le caratteristiche di quelle famiglie e di quegli individui che concorsero a garantire il futuro del comune aretino nei confronti della rinascente potenza del vescovo cittadino è possibile comprendere perché il concetto di nobiltà già ad inizio del Duecento non risiede in una sua qualificazione giuridica fondata a sua volta sul diritto e sui valori feudali. L’uso dei comparativi “nobiliores” e “potentiores” induce a riflettere che nell’estensore di un documento tanto importante come quello del 1236 vi sia stata la consapevolezza dell’esistenza di una base cetuale più larga di nobili e potenti e che per questo motivo non andava a coincidere con una ristretta aristocrazia feudale. Sono sia il ruolo politico esercitato in Arezzo e nel contado mediante relazioni di natura feudale con il potente convento camaldolese oppure l’investitura di poteri giurisdizionali da parte dell’imperatore, sia la visibilità sociale i requisiti che generano lo “status” di nobile da sostenersi necessariamente attraverso una solida base economica. Altra documentazione storica viene a confortare questa tesi. Nel 1222, infatti, per rendere operativa un’alleanza militare tra Arezzo e Siena i rappresentanti aretini si impegnano a costituire un contingente di duecento uomini scelti tra i migliori e più nobili uomini facenti parti del consiglio generale. Oltre l’uso ancora una volta del grado comparativo dei rispettivi aggettivi, è ancor più interessante notare come nella fonte scritta sia specificato che per sostituire le eventuali defezioni per morte o per rinuncia gli Aretini avrebbero fatto ricorso ad individui egualmente “buoni”, “nobili” e “potenti”. I concetti di “bonus”, di “nobilis”, di “potens” sono dunque tutti graduabili, e la loro giustapposizione significa, se non propriamente la coincidenza, certo la più o mena perfetta compenetrazione reciproca fra le condizioni di una solida e rispettata agiatezza, di una consuetudine antica di vita non vile e di un’attiva presenza nei rapporti sociali e politici. Sono queste tutte condizioni che convergono nel costituire il ceto preminente della città. Un ceto diversificato internamente secondo l’intensità delle condizioni che lo qualificano, fino a quelle nobilissime, potentissime e ottime delle famiglie ricche di beni e fortezze e poteri autonomi di coercizione nel comitato. Quali sono allora i valori intorno ai quali ruota il sistema della rappresentazione della realtà della nobiltà duecentesca ad Arezzo? A ben vedere sono quelli che costituiscono il modo cavalleresco di vivere, perché in quanto modello ideale ammette al suo interno le inevitabili graduazioni, ma al tempo stesso stempera i contorni della distinzione. Lo stile di vita cavalleresco proprio per la sua natura ideale e non prescrittiva, come al contrario in una definizione giuridica, risulta più duttile per afferrare in profondità il concetto di nobiltà in un’epoca come quella medievale in cui la sanzione giuridica della massima autorità sovrana - l’impero - era stata ripetutamente contestata. Un cittadino può essere più o meno “bonus”, “nobilis”, “potens”, ma non più o meno “miles”. Lo stile di vita militare può essere più o meno splendido, in quanto sorretto da una base economica, signorile e clientelare più o meno robusta, ma il concetto di “miles”, nel più largo senso di cavaliere, è fondato su una caratteristica immediatamente visibile e tale da creare un netto distacco fra le tradizioni di vita di famiglie diverse. Il vivere da cavaliere, infatti, genera una chiara separazione da coloro che combattono a terra, ossia dai plebei. Nelle contrastanti testimonianze e definizioni di Ughetto di Sarna, almeno su una informazione non sembra sorgere alcun dubbio. Per la determinazione del suo patrimonio - “CCCCC librarum” nel 1237 - egli può essere convocato per la cavalcata di guerra, pratica questa che contribuisce a segnare un preciso confine sociale fra “milites” e “pedites”. La natura cavalleresca della nobiltà aretina di inizio Duecento è riscontrabile anche dalle pratiche messe in atto per l’imposizione di contribuzioni e per la concessione di deroghe e privilegi rispetto a queste. Ciò appare con evidenza nel territorio aretino, già in un documento del 1198, quando i consoli della città stipulano un trattato con gli abitanti di Castiglione Aretino. I primi si impegnano ad estendere la propria tutela miliare a patto che i secondi promettano a loro volta a pagare ogni anno due soldi per conto di ciascuna famiglia. Il trattato specifica anche le circostanze e coloro che potevano godere di una completa esenzione dalle imposizioni degli Aretini. Tutti i Castiglionesi sono dispensati dal pagamento della contribuzione qualora l’esercito imperiale imponga loro l’obbligo di fornire il foraggio e la biada per i cavalli, valendosi del diritto di “fodro”. Diversamente i cavalieri, erano in ogni circostanza esentati dal pagamento dell’imposta destinata ad Arezzo. La pratica di concedere privilegi fiscali ai “milites” non è solo aretina o del suo contado. L’imperatore Enrico VI, intorno agli anni Ottanta del XII secolo, disponendo affinché i Fiorentini abbiano giurisdizione sulla città, tiene a specificare che questi diritti, anche in termini fiscali, non riguardano i nobili ossia i cavalieri. E’ possibile che la politica imperiale tenda, in questo caso come in altri, a restringere la sfera di applicazione dei diritti riconosciuti alle città, in uno sforzo di relativa parificazione dei poteri cittadini e signorili subordinati all’impero, ma è chiaro obiettivamente, l’incontro di questo orientamento imperiale con la spontanea resistenza dei nuclei signorili e delle famiglie militari al livellamento entro la generale categoria dei contribuenti impegnati verso le città. Ebbene il privilegio fiscale emergente dalla consuetudine, non sembra avere alcun fondamento in un ceto, concepito rigidamente quale “nobiltà di sangue”, una nobiltà definita dal vassallaggio e dal feudo. Tale esenzione viene concessa per le attitudini militari di un ceto sociale a cui si richiede, in relazione con le sue condizioni patrimoniali e col suo costume, un servizio di guerra di natura peculiare. Il nobile pretende esenzioni dalla contribuzioni normali, perché, in quanto “miles” è chiamato a prestazioni di grande rilievo. Sotto questo profilo la nobiltà militare di Arezzo e di certi grossi borghi del territorio può essere accostata alla “militia” vassalatica, che è dotata di beni feudali per i quali non deve censi ai “seniores”, in quanto impegnata, in ragione dei feudi ricevuti, in un sevizio di armi. E’ il caso ad esempio delle famiglie dei Montauto, dei Montedoglio e dei discendenti di Testa, investite di feudi direttamente dall’imperatore. Anche i cittadini nobili e cavalieri, fra XI e XIII secolo, devono, infatti, alla città uno speciale servizio in ragione della loro base patrimoniale. Ma non, occorre aggiungere, per una particolare natura feudale del loro patrimonio, o in quanto membri di una gerarchia vassallatica. La nobiltà cittadina del primo Duecento, per quanto robustamente integrata di elementi di più o meno grande rilievo provenienti dal contado, ha le sue radici cavalleresche nella storia stessa della città. A conferma di questa caratteristica originaria possono essere rammentate le ripetute azioni di guerra e di distruzione che si susseguirono appena dopo la costituzione del comune aretino e che portarono quasi contemporaneamente ad una contrapposizione tra questo e l’autorità vescovile investita dell’autorità comitale. Gli aretini vogliono ridurre la cattedrale entro la città, e la violenza con cui perseguono il loro intento, atterrando a più riprese le fortificazioni dell’episcopio, dimostra che non può essere la determinazione soltanto di “pedites”, ma che la città ha fin dalle origini comunali un nucleo vigoroso di “milites”. La determinazione di un’idea di nobiltà aretina fin dalle sue origini comunali come ceto politico dominante, riconosciuto illustre nella società, sostenuto da possedimenti patrimoniali e soprattutto manifestante un modo di vita cavalleresco, comporta delle importanti conseguenze. Sulla base di questa ricostruzione occorre innanzitutto abbandonare le teorie per le quali le fedeltà vassallatiche costituivano il necessario supporto istituzionale di una nobiltà ereditaria, giuridicamente privilegiata nelle città fino all’avvento dei regimi “popolari”. L’inurbamento o la presenza comunque di famiglie di origine feudale e rurale nella realtà aretina comporta certamente l’innesto e la permanenza delle fedeltà vassallatiche, le quali esercitano un peso notevole nel funzionamento della nobiltà e contribuiscono di fatto a conservare e a trasmettere di generazione in generazione un costume militare di vita e una potenza sociale. Queste però non sono elementi costitutivi della nobiltà, che istituzione formale non era nell’alto medioevo, e tale tese a diventare - in modo assolutamente imperfetto - soltanto in età comunale, via via che si precisano giuridicamente, attraverso lo sviluppo e la codificazione delle consuetudini, i poteri signorili e comunali di coercizione e di esazione. Questa inclinazione dei nobili a definirsi come “status” privilegiato fu concomitante con un orientamento generale verso la costruzione di corpi organizzati. Si costituiscono tanto le singole consorterie signorili, in cui i “nobiliores” disciplinavano la propria attività, quanto le società rionali, mercantili, artigiane di ispirazione popolare. E’ possibile quindi ipotizzare che la politica del comune al principio del XIII secolo sembra orientata ad esplicitarsi in rapporto con gli interessi di gruppi presenti simultaneamente nella città e nei suoi borghi e sobborghi o nel suo territorio, come piccole potenze intrecciate fra loro e coordinate con l’egemonia comunale. Ancora più articolata, poiché meglio definita dal punto di vista costituzionale appare la situazione aretina a metà del XIII secolo. Per effetto dell’influenza esercitata dalle vicende fiorentine ma in continuità con lo sviluppo delle “societates” aretine, le associazioni di popolo si presentano allora ufficialmente sul piano politico, coordinate da un capitano di popolo, dagli anziani del popolo, dal consiglio generale del popolo, operanti assieme col podestà del comune e con il consiglio dei duecento del comune. Le nuove istituzioni “popolari” emergono immediatamente anche in vicende politiche non limitate alla sola gestione della cosa pubblica aretina. Un esempio su tutti è rappresentato dalla ricostruzione delle modalità mediante le quali il comune aretino stipula un’alleanza con Firenze nel 1256. Compaiono, infatti, dodici anziani, scelti tre per ogni quartiere, i rettori delle arti e delle società coi rispettivi consiglieri, il consiglio generale del popolo formato a sua volta dai medesimi rettori e consiglieri e da altri “uonimi popolari”. Nei documenti sottoscritti per la regolarizzazione della scelta del rappresentante aretino che doveva comparire a Firenze è possibile riscontrare una maggioranza di individui che si qualificano in base alla professione liberale od artigianale esercitata, ma altri sono presenti si indentificano con la dignità di “dominus”. Risulta allora evidente che le famiglie di tradizione cavalleresca hanno dunque due modi non concorrenti per conservare un peso nella vita politica: o mantenere la loro presenza nel consiglio dei duecento, il tradizionale organo politico di età podestarile, oppure iniziare la penetrazione all’interno degli organismi di popolo. Si può allora intendere il significato della sopravvivenza di una vigorosa tradizione nobiliare per tutta l’età comunale ed oltre. La nobiltà considerata in quel modo economicamente robusto e socialmente violento che ad Arezzo è così manifesto, si era sempre indentificata con la classe militare e politica, in età pre-comunale e nella prima età comunale, ed ora, nel corso del XIII secolo, continuava ad operare impetuosamente in tutti i settori della vita cittadina in cui si enucleasse un potere. Come ceto egemonico la nobiltà militare delle città toscane aveva notevolmente contribuito a determinare l’orientamento istituzionale che aveva prodotto il comune e la sua prima evoluzione, e tendeva essa stessa a costituirsi, entro le istituzioni cittadine, come il ceto giuridicamente privilegiato. Ma le sue tradizionali discordie e la crescente attitudine delle altre forze cittadine ad organizzarsi, a creare nuclei di potere capaci di imitare l’autonomia di azione della sue consorterie, le impedì per tutta l’età comunale di cedere alla tentazione di chiudersi. Continuò a lottare militarmente nelle sue divisioni interne e per la città di cui rappresentava le ambizioni territoriali, e continuò a compromettersi con qualsiasi altra forza, ecclesiastica o popolare, emergente della città.

Da Guadagno (1280) al primo cinquecento modifica

La famiglia Guadagni aretina era di "partito ghibellino", come lo era l'omonima cittadina che, nella battaglia di Campaldino (1285, battaglia cui partecipò anche Dante), fu sconfitta dalle guelfe Firenze e Siena. (cit, Arezzo, storia): In seguito si affermò la signoria dei Tarlati da Pietramala, il cui principale esponente fu Guido Tarlati che pur essendo divenuto vescovo nel 1312 continuò a mantenere buoni rapporti con la fazione ghibellina, in Toscana e fuori, come ad esempio con gli Ordelaffi di Forlì. La signoria di Guido Tarlati mise temporaneamente fine alle dispute di fazione tra i Tarlati e gli Ubertini e la famiglia guelfa dei Boscoli; tanto feroci che San Francesco si era rifiutato a suo tempo di entrare in città, vedendola "infestata dai diavoli", episodio ricordato da Giotto negli affreschi della Basilica superiore di San Francesco d'Assisi.

Guido Tarlati risanò il bilancio dello Stato, portandolo a una tale floridità che Arezzo prese a battere moneta propria, ampliò la cinta muraria, concluse una onorevole pace con Firenze e riuscì ad allearsi con Siena e ad espandere il dominio territoriale verso sud e verso est, lui vescovo, a spese dei possedimenti pontifici; tanto che il Papa da Avignone lo scomunicò e lo dichiarò eretico. Ciò non gli impedì, nel 1327, di incoronare imperatore a Milano Ludovico il Bavaro.

In questo periodo si era anche sviluppata una forte borghesia mercantile che aveva imposto alcune modifiche nel governo della città, come la creazione della magistratura del capitano del popolo e delle corporazioni delle arti, e la costituzione di una magistratura rappresentativa delle quattro parti in cui la città venne divisa: porta Crucifera, porta del Foro, porta Sant'Andrea e porta del Borgo, alle quali si richiamano i quattro quartieri che disputano l'odierna Giostra del Saracino [6].).

Acatto Guadagni ebbe due figli, Guadagno e Fredotto, quest'ultimo appare in un documento del 1318 sposato con Maddalena Giana (alla quale Acatto certifica una "restituzione di dote") e cita il nome del loro figlio, Ser Feo. "... Ma il ramo principale comincia da Angelo, figliolo di Guadagno. Guadagno ebbe molti figli: Lippo, Luca, Bartolo, Lorenzo, Pietro (1326-...) ed Angelo (1320-...)" (Gamurrini).

In un documento del 1323 Guadagno d'Acatto appare come conferito all'Arte della Lana di Arezzo, Confraternita della quale è quindi da considerarsi "tra i membri più antichi", se non tra i fondatori.

Nel 1337 appaiono come testimoni in un atto di vendita "... alla presenza di Acatto, Puccio Guadagni da Puglia ..." (Farulli).

Nel 1339 Angelo Guadagni è Gonfaloniere di Giustizia (il primo grado di nobiltà cittadina) con assegnata la "Porta di Sant'Andrea" (la Magistratura della relativa Contrada), come appare anche nel 1340.

Pietro Farulli negli "annali" ci racconta che "nel 1340 i fiorentini tolsero ai Guadagni d'Acatto da Puglia il loro forte Castello di Giovi, e di Puglia, poichè come ghibellini tentarono cose nove contra il governo". E che nel 1343 "si sollevò la città di Arezzo e si ridusse nella sua antica libertà, ... e si fecero per la Città gran feste per la recuerata libertà. Cantarono con gran solennità nella Cattedrale il Te Deum con l'intervento di tutti i Magistrati e dell'istesso Vescovo". E cita tra i nomi dei cittadini che si sollevarono Guadagno Guadagni da Puglia.

E difatti nello stesso anno, sempre per la Porta di Sant'Andrea, nei documenti troviamo ancora Gonfaloniere Angelo Guadagni, che poi nel 1345 (anno nel quale si registra in Arezzo un forte terremoto) è uno dei Deputati a giurare nella "pace generale" che viene fatta in Arezzo tra i Comuni di Firenze, di Perugia ed i Magnati della città di Arezzo.

Nel 1347 gli aretini "nella Chiesa Cattedrale fecero Lega a difesa comune con li Senesi, Fiorentini e Perugini, e fu in quell'anno una grande carestia di modo che il grano valse 2 scudi lo staro. L'anno dopo, 1348, fu in Arezzo come in tutta l'Italia una crudele pestilenza che durò 4 mesi & assorbì la maggiorparte de' viventi. In Arezzo di 3 terzi ne perirono 2, e lasciarono i loro averi alla fraternità, che divenne opulente".

Questa citazione, poichè tale pestilenza è "evento storico talmente significativo che il 1348 è ormai da tempo ritenuto dagli storici quale "data di passaggio" dal medioevo all'evo moderno.

 
Bassorilievi di stemmi nobiliari di magistrati (al centro, uno stemma mediceo) sulla facciata di un palazzo rinascimentale ad Arezzo.

Del 1355 un documento ci cita come testimoni ad un contratto Vanni, Ser Guadagno, di Bonavita; mentre un altro nel 1364 ci cita Piero (di cungio Guadagno), dove il Farulli cita sempre la famiglia come "da Puglia".

Nell'anno 1373 è registrato come Confaloniere Migliore Guadagni, "che fece de' grandi Francesco di Uberto Albizi, e poi tutti gli Albizi, e perciò acquistò gran credito per averla presa con una Famiglia potente e Ricca".

Ma deve essere verificato da quale famiglia fosse Migliore, se da quela aretina, o più provavilmente fiorentina, visto che i Guadagni appaiono appunto poi ritirati dalla vita pubblica praticamente dal periodo della peste del 1348, ovvero dalla presa del potere guelfa del 1340 e successivi, con il conseguente esproprio forzato del Mulino di Giovi (il principale) che appunto tornerà alla famiglia poi solamente nel 1524. I Guadagni fiorentini, invece, erano forti alleati proprio degli Albizi


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dal cinquecento all'ottocento: i Mugnai d'Arezzo - il ritorno alle cariche Pubbliche e la Legge, la Cultura, l'ascesa "internazionale" familiare modifica

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il Molino principale di Giovi torna alla famiglia nel 1524 (e lo rimarrà per 300 anni)

Il Gamurrini ci informa che "Bernardino ritornato alla Città d'Arezzo da Giovi cominciò a domandare la Cittadinanza, come se ne vede patente del 1552 a' 13 di febbraio fatta in persona, ed a favore di Cristoforo suo figliolo, ... Il qual Cristoforo ottenne pure con i figlioli il quarto, e secondo grado, e che se non fusse stato in riguardo de' loro antenati già nobili, non aveiano così in un subito conseguito i gradi della nobiltà."

Facendoci notare che però al tempo "avevano sbagliato", in quanto non ammesso i Guadagni alla "prima Borsa" (ovvero il Gonfalonierato, per il quale bisognava altrimenti aspettare 25 anni ...), mentre invece tale Prima Borsa spettava loro "di diritto" in quanto avevano avuto Angelo Guadagni Gonfaloniere di Giustizia sin dal 1339 (e 1340, 1343 e 1345).

Nel 1560 Antonio Guadagni (di Cristoforo) fu Cameriere in Roma presso il Cardinale Bernardo Salviati (nipote di Papa Leone de' Medici e zio del Granduca Cosimo di Toscana), ma una morte in giovane età ne precluse le aspirazioni.

Di tale ramo di famiglia, il personaggio più illustre (secondo Eugenio Gamurrini, nel 1668) sarà Emilio Guadagni (1520-...) (di Cristoforo), che si laureò a Pisa e si rese famoso ed in stima presso il Pontefice Pio V dal quale nel 1566 fu mandato Governatore di Rieti ed anche Vicario Generale nella città de L'Aquila. Ritornato poi in Arezzo, si sposò con Marzia Bacci e poi si trasferì a Firenze dove il 2 maggio 1577 fu afferito all'avvocazione del Collegio (cosa riservata esclusivamente ai nobili cittadini). Deceduta poi Marzia, Emilio si sposò con la nobile fiorentina "Donna Caterina" de' Masi, ultima di tale stirpe, acquisendo quindi alla famiglia Guadagni aretina la tomba familiare Masi nella chiesa di Santa Maria Novella dove poi venne sepolto.

Il Gamurrini ci informa che "Fino del 1606, quella famiglia meritò da Cavalieri dell'Ordine di Santo Stefano d'essere conosciuta per nobile Aretina per più centinaia d'anni, come apparisce nel processo fatto per le provanze del Cavaliere F.Bernardino Tortelli, come si vede per la fede autenticata dal Cancelliere della Sacra Religione in Pisa, chiamato Cosimo di Antonio Corsi nel 1622.

Fulvio Guadagni (di Emilio) fu canonico nella Cattedrale aretina, e Protonotario apostolico; ed assieme al Vescovo d'Arezzo de' Ricci fu Commissario e Giudice della canonizzazione di Papa Gregorio Visconti, che è sepolto nel Duomo di Arezzo.

 
Borgo a Giovi, Giovi - Arezzo: Villa Guadagni - Cappelli - Salone d'ingresso (P.T): Stemma Guadagni "GENS GUADAGNA ARR FLOR AC ROMANA PATRITIA NON IMMEMOR MDCXXX".

Il fratello Pirro fu in Roma sin dalla giovane età e diventò Coppiere del Cardinale Pio. Per i suoi grandi meriti, nel 1623 fu dichiarato dal Senato Romano "Nobile Patrizio" ed insignito dell'ordine senatorio assieme al fratello Francesco ed a tutti i loro discendenti. Divenne anche Paciere del Senato, e successivamente Confaloniere nella sua Arezzo.

Francesco (di Emilio) Guadagni studiò a Pisa sin dalla prima gioventù, passò poi a Roma e quindi a Firenze alla Corte del Granduca d Toscana che lo elesse suo gentiluomo, mettendolo a ruolo dal 1619 al 1622 e fu ascritto con i suoi discendenti alla cittadinanza fiorentina, estratto di Collegio e nominato nel Consiglio. Sposò Margherita Bencivenni, figlia del Cavalier Camillo di Piero Bencivenni, dalla quale ebbe 4 figli: Giovan Battista, Carlo pio, Camillo ed Emilio."

Piero Farulli (nel 1717 descrivendoci i "famosi aretini" ci cita "fiorirono ancora in essa (famiglia) un Giovanni, un Guadagno, un Lorenzo, un Piero, un Neri tutti famosi legali".

Pietro (di Cristoforo di Pietro di Cristoforo), nato intorno al 1635, Patrizio Aretino, è "celebre filosofo, storico ed insigne poeta, come lo comprovano le sue spiritose, concettose, & erudite composizioni. Si trattenne molto tempo in corte dell'Arciduca d'Austria, vero mecenate, e protettore di letterati, dal quale fu nobilmente trattato e tenuto in fortissima stima.

Il Farulli ci informa che Pietro, con i suoi viaggi e l'essere "ambasciatore aretino a Vienna" diverrà l'ispiratore del "ramo Germanico (od Austriaco)" che viene fondato dal fratello che, ..."portatosi in Germania, si è quivi accasato con una illustre Contessa & ha fondato la sua famiglia col'esser dichiarato dal'invitto, e sempre Glorioso Leopoldo Imperatore e Conte, & ha procreato due figli che in oggi nell'arte militare son molto esperti."

Ce lo descriverà anche come "Patrizio aretino, insigne Filosofo, teologo, storico, ed insigne poeta, e di una vasta erudizione arricchito. Fu per il suo alto Sapere molto grato all'Arciduca Carlo d'Austria alla cui corte si trattenne molto tempo, e ne riportò molti premi, e grazie. Il Conte Guadagni di Germania e suo Germano, che e molto tempo fù il primo letterato, che in quello tempo avesse la città di Arezzo, ove di febbre acuta ne morì. I suoi concittadini, gli dedicarono due composizioni, un Elogium ed un Urbis et Orbis". [7] .

Pietro Guadagni è tra i Fondatori dell'Accademia degli Arcadi Forzati d'Arezzo il 3 gennaio 1692, che è la prima aggregata all'Arcadia di Roma ( [8] ),

sugli "annali degli Arcadi morti", una breve storia della sua vita ed opera:

Pietro Guadagni nobile di Arezzo, passata la sua gioventù con assiduità negli studi, postosi al servizio del'Arciduca d'Ispruch, e quindi a quello del Pricipe Rabatta allora Vescovo di Lubiana, appresso i quali Principi fu sempre in alta stima tenuto: nè minore se ne aveva conciliata appresso il Granduca di Toscana, talmente che in assenza del Conte Giovanni Chiaromanni suo Residente in Vienna, volle, che egli supplisse a tal carica.

Fù altresì celebre letterato, e molti Drammi compose, Commedie e Discorsi, i quali non sono usciti mai alle stampe, non avendo egli dato altro alla luce, che un libriucciolo di sessanta sonetti intitolato "l'Avvento, e la Quaresima", ed impresso in Vienna nel 1672. Quanto fosse egli verso la nostra Arcadia straordinariamente affezionato, chiaro si scorge dall'essere uno de' Fondatori della Colonia Forzata, avendo tra di noi portato il nome di Berico Aminiano, siccome tra gli Accademici Forzati quello del Pigro portava. Morì il 9 gennaio del 1704, in età di circa 70 anni. E fu sepolto nella Badia di S. Fiora, e Lucilla d'Arezzo.

Elasco Crannonio Sottocust. del Serbatoio d'Arcadia"

Nell'anno 1717 il 15 e 16 agosto il Conte Guadagni ed altri aretini parteciparono all'assedio della Città di Belgrado.


SEGUE - dopo il 1717 trovare le notizie.

l'ottocento: le truffe, i Tribunali, l'assurdo fallimento, la perdita del Molino modifica

 
Arezzo, Borgo a Giovi, Cappella Guadagni. Lapide a Luigi Guadagni


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dal novecento al nuovo millennio modifica

 
Villa Guadagni, Borgo a Giovi - Rosone interno (sopra porta "Sala") Il Moro con la Rosa in bocca (ed orecchino in oro).

- Carlo Guadagni, muore improvvisamente e fà fottere alla famiglia dai Frati di Camaldoli un patrimonio enorme, non lasciando atti scritti ai figli che perdono praticamente "tutti gli ingentissimi averi", truffati poi da un usucapione reclamato in abuso ad accordi "di garanzia" atti ad evitare l'esproprio dei beni della Chiesa nel periodo di anticlericalismo fineottocentesco. Infatti alla morte del Guadagni, nessun familiare (nè moglie nè figli) era a conoscenza degli accordi fatti "in parola d'onore", l'unico a conoscenza era "l'amico e uomo fidato", il Fattore. Fattore che tace alla famiglia tali accordi (probabimente "corrotto" dalla promessa della successiva attribuzione di alcuni beni truffati) e li rivela solamente "a tempo scaduto" quando ormai l'usucapione era "in vigore" e non si poteva fare più nulla onde riacquisire i tutti beni truffati.

Agnolo Guadagni - unico maschio - sposa Angiolina (erede di) Pietro Benvenuti (ricevendo la cospicua dote di 40.000 lire) e, nel 1923 dopo aver scoperto la perdita del patrimonio familiare, è costretto a vendere la casa e poderi relativi di Giovi, e si trasferisce con la famiglia in Arezzo, via Cesalpino. Ha 5 figli (Augusta, ---, Giuseppina, Umberto, Anna), dei quali solo Umberto di sesso maschile. Agnolo soffriva di Angina pectoris e il 15 lglio 1944 subì il rastrellamento nazista di Arezzo (causato da un attentato partigiano) e fu rinchiuso assieme alla moglie (ed a tutti gli altri abitanti del palazzo) nella cantina tutta la notte, in attesa della fucilazione della mattina successiva. La mattina successiva Agnolo (che era stato preoccupato e sveglio tutta la notte, come tutti) vide aprire la porta della cantina dagli "alleati" (neozelandesi ed inglesi) che avevano liberato Arezzo. Ma il suo cuore non resse l'emozione e di lì a 2 giorni, morì.

Umberto Guadagni nasce ad Arezzo 22 marzo 1906, si diploma geometra nel 1926, e dal 1927 lavora nelle Ferrovie, che lo trasferiscono con incarico dapprima a Roma (1934) e poi Mestre (1938). Coniugato nel 1936 con Lelia Alfani dalla quale ha 2 figlie: Maria Luisa nata il 27 marzo 1934 e Maria Grazia nata il 21 agosto 1940. Nel 1938 si trasferisce a Mestre dove si spegerà il 1 novembre 1999. E' l'ultimo maschio "diretto" nato a Giovi dai "Guadagni d'Accatto".

Umberto raccontava spesso alle figlie ed ai nipoti la storia della famiglia, della propria giovinezza ed averi e modi di vita, il lasciare diciassettenne l'antichissima casa di Giovi e tutte le ultimissime sfortune al patrimonio, risalenti ai primi dell'ottocento. Non ultimo, il poco rimasto (ma cifra allora considerevole) prestato ad un genero (onde salvare "il nome familiare") tramite documento che certificava l'importo, senza parificarlo a similari controvalori "in grano" od "in oro". Successe infatti che, con l'arrivo del secondo conflitto mondiale che lamoneta italiana (lira) ebbe una svalutazione di migliaia di volte. Nel dopoguerra la "cifra considerevolissima" iniziale diventò pertanto "una modica cifra" che venne facilmente restituita, ed Umberto, con la propria parte ... comprò una bicicletta!!!

L'appartamento di via Cesaplino, alla morte di Angiolina Benvenuti (anni '70) venne venduto ed il ricavato diviso equamente tra Umberto e le quattro sorelle.

Maria Luisa Guadagni, si sposa il 10/4/1965 con il dottore Emilio Toffanello ed ha 3 figli: Duccio (Mestre, 03/1/1966), Ilia (Mestre, 13/5/1968) ed Eduard (Mestre, 22/1/1970). Maria Grazia Guadagni ebbe da Alberto Del Din la figlia Alberta Maria Del Din nata a Venezia l'8 settembre del 1980.

Nel marzo 1996, in occasione dei 90 anni del nobiluomo Umberto Guadagni, le figlie, Maria Luisa e Maria Grazia, insieme ai nipoti ,organizzarono una bella festa di congratulazioni presso una sala del Ristorante "le Grazie" di Pregaziol (TV) cui partecipano quasi tutti i discendenti di Angelo rimasti, ovvero i fratelli Umberto ed Anna ed i loro figli e nipoti. Invitati tutti i viventi, i partecipanti, circa 35. Angiolo Tiranti, figlio di Anna, residente in Roma, porta come dono allo zzi' Umberto la Benedizione Papale, con grande gioia e commozione di tutti i presenti.

opere, fabbriche e monumenti promossi dai Guadagni di Giovi modifica

Angelo Guadagni (1320-...) Gonfaloniere, "fondò, e dotò la Cappella di San Giovanni dentro la Chiesa Collegiata di Arezzo, detta La Pieve" (chiesa San Donato).

File:Palazzo Guadagni a Giovi.JPG
Palazzo Guadagni a Giovi

Il suo pronipote Bernardino (di Cristoforo, 1480-...) farà realizzare nella Chiesa della Badia di Arezzo una cappella "tutta di macigno che in quei tempi più di pregio non potea" (cit.), tant'è che Giorgio Vasari nelle sue "Vite dei Pittori" ne fa onorabilissima menzione. Ancora, Bernardino Guadagni "abbellì con più e diverse figure la Chiesa di Giovi, dove anche fece realizzare un Altare, nonchè un antichissimo sepolcro al tempo di quelle fiere ed ostinatissime guerre civili di Guelfi e Ghibellini che indussero la famiglia a ritirarsi nel sicuro Castello di Giovi".

Cristoforo (di Bernardino), riacquisiti gli antichi titoli nobiliari e rientrato in Arezzo, avviò il cantiere della suntuosa fabbrica del "canto alla Croce" (dirimpetto alla Chiesa della Vergine del Carmine), Palazzo che divenne Seminario del Vescovo di Arezzo, Palazzo [4] che fu poi venduto dai figli Emilio, Pietro e Federigo al Cavalier Giovan Battista Concini (fatto pari, e Duca di Francia) [5] ed i cui eredi volevano estendere fino alla Porta di San Laurentino [6], operazione impedita dai Principi di Toscana che non volevano una simile fortezza dentro la città.

SEGUE

Stemma modifica

Guadagni fiorentini modifica

 
stemma Guadagni (fiorentini, da Guittone)

Lo stemma Guadagni è in campo rosso alla croce spinata d'oro. Il simbolo pare alluda a Croce alla Spina, località di San Martino a Lubaco da dove la famiglia avrebbe avuto origine[7].

Nel "ramo fiorentino" della famiglia, l'impresa personale dei membri è spesso l'unicorno, scelto da Vieri Guadagni nel 1409 con il motto Exaltabitur ("sarà esaltato"). Talvolta è stato usato anche il motto in tedesco Ich mach nicht ("io nulla posso").

Il Granduca di Toscana chiamò tale ramo familiare fiorentino "Guadagni Vecchi" o semplicemente "Guadagni", essendo questi conosciuti "da sempre" in Firenze ed alla loro casata.

Per distinguere i "Guadagni aretini", da Acatto, questi furon definiti "li Guadagni Nuovi".

Guadagni aretini (Giovi), i "Guadagni Nuovi" modifica

 
Stemma Guadagni aretino: Moro con rosa in bocca

Il D'Ugolino Verrino (Parigi, 1790 vol 1 pag. XL) ci descrive "i Guadagni di Giovi": "prendono la loro origine in rapporto alla Nobiltà Aretina da tal Guadagno d'Accatto, proveniente dal Castello di Giovi, il quale, essendo già verso gli anni di G.C. 1322 ricco mercante di Lana, s'annoverava tra i cittadini d'Arezzo. Era quella Famiglia ai tempi antichi notata fra i Ghibellini, e portava per sua Insegna, come tutt'ora mantiene, uno Scudo, entro il quale vedesi una Testa di Moro con una Rosa in bocca al naturale, in Campo d'argento." [9]

  • [10] GUADAGNI - L’arme : nel Castello di Giovi : in campo argento, alla testa di moro di nero, tenente in bocca un ramo di rosaio fiorito di un pezzo di rosso. ARGENTO: con l'oro è uno dei due metalli usati in araldica. Negli stemmi disegnati in bianco e nero, si indica lasciando in bianco il campo. In araldica sostituisce il bianco in quanto più splendente. Simboleggia la purezza, l'innocenza, la giustizia e l'amicizia ; MORO (TESTA DI): rappresenta i Mori catturati durante le crociate, quindi la cavalleria ; ROSA: simbolo di bellezza ma anche di nobiltà, onore e meriti riconosciuti; secondo il linguaggio dei fiori dell'Aymé Martin significa grazia, bellezza.

Guadagni del Lion Nero modifica

Il Blasone della Famiglia Guadagni del Lion Nero (fiorentina) è: "D'argento, alla testa e collo di moro al naturale, vestita di verde, tenente in bocca un rametto di rosaio fiorito di un pezzo di rosso".

E' evidente che lo stemma è di chiara derivazione da quello aretino di Giovi, identico ma con l'aggiunta del "vestita di verde". Il "richiamo all'origine" ed "Onoreficenza ulteriore acquisita".

Probabilmente son i dscendenti di Emilio Guadagni (1520-...) (di Cristoforo), o di Francesco (di Emilio), od altri. Da verificare.

Guadagni di Monterchi modifica

Il Blasone della Famiglia Guadagni di Monterchi (Ar), nei pressi di Anghiari dove vi era una bellissima e grande villa in cui soggiornò persino Garibaldi nel 1850 [11] quando "di Guadagni" rimaneva solo "il nome" *[12]) è invece: Troncato d'oro e d'azzurro, alla fascia di rosso passata sulla troncatura, e accompagnata da due stelle a otto punte e una losanga, 2.1, del secondo nel primo, e da una stella a otto punte e due losanghe, 1.2, del primo nel secondo.

  • [13] ORO: è il metallo più nobile. Si indica punteggiando il campo dello scudo o le figure così colorate. E' simbolo di ricchezza, comando, potenza. - AZZURRO: si indica con linee orizzontali e, essendo il colore del cielo, rappresenta la gloria, la virtù e la fermezza incorruttibile. - Fascia ROSSO: si rappresenta con linee verticali e, richiamandosi al sangue versato in battaglia, rappresenta il valore, l'audacia, la nobiltà ed il dominio. (qui però è orizzontale) - STELLA: molto usata in araldica a simboleggiare la guida sicura o l'aspirazione a cose superiori. - LOSANGA: manca

il "titolo nobiliare" aretino modifica

I Guadagni fiorentini (da Guittone), hanno il titolo di Marchese, nonchè di "Patrizio" (fiorentino).

 
Giovi, Arezzo, Villa Guadagni - Cappelli (1480 circa). Salone d'ingresso (P.T), 1630 - "GENS GUADAGNA ARR FLOR AC ROMANA PATRITIA NON IMMEMOR MDCXXX" - la corona di Marchese e Patrizio, il Cavallo D'Arezzo, l'S.P.Q.R romano, il Giglio Fiorentino, il Moro con la Rosa in bocca.

I Guadagni aretini hanno il Primo Grado di Nobiltà cittadina, ed appaiono come "Famiglia Patrizia" (ovvero "Primo Grado - Lusso") avendo avuto nomine al Primo Grado (Gonfaloniere di Giustizia) con anzianità di oltre 200 anni nel 1756 (417 anni). In un libro settecentesco (Farulli) sono nominati quali "Conti" (ma non si capisce a quale ramo o discendenza familiare si riferiscano, o se sia un errore).

I Guadagni aretini (discendenti di Emilio, di Fulvio, di Pirro e Francesco ...) sono Marchesi nonchè Senatore Romano e Patrizi Aretino e Fiorentino, nonchè Cavaliere di Santo Stefano.

I Guadagni di Acatto, avevano il primo grado di nobiltà aretina sicuramente dal 1339 (Angelo è Gonfaloniere di Giustizia) e precedentemente Guadagno (che risulta cittadino aretino almeno nel 1320) risulta appartenente all'arte della lana (doc. del 1323).

Con i tumulti trecenteschi accennati, Gamurrini ci spiega: "onde non è meraviglia se, quella famiglia per le guerre civili, che dopo si suscitarono più gravi in Arezzo per le fazioni Guelfe, e Ghibelline, prevalendo in què posteriori tempi nel governo della Città la parte Guelfa, che per innanzi si era sempre governata per parte ghibellina, fusse, come molte altre ghibelline, discacciata dagli Uffizi, e dalla Patria medesima, con il privarla anche delle sustanze, e che si ritirasse con tante altre nei Castelli più forti, avendone molti i ghibellini, e forse anch'essa il Castello di Giovi, dove vi hanno sempre posseduto case forti, e Cappelle antiche in quella chiesa, come anche oggi si veggano, ma ritornati poscia alla Città, domandarono la civiltà, che gli fu subito concessa, ed ebbero l'anno 1566 il Quarto Grado, che è la porta della nobiltà, godendosi mediante questo, quasi tutti gli Uffizi della Città, fuori che quello del Confalonierato, ... e Pietro di Cristoforo di Bernardino de' Guadagni si vede estratto nel grado secondo degli V iniziali della Grascia al lib 29 dell' Estrazioni, nel 1586, come tutti gli altri Magistrati; onde è da notarsi, che quella famiglia godendo fin del 1339 il primo grado, che è il Confalonierato, doveva essere imborsata per reintegrazione ne' suoi perduti gradi, e non domandare il Quarto, Porta della nobiltà, mentre da essa si trova senza interrompimento di linea derivare la presente da quei, che furono nobili fino dal 1300 come qui appresso si mostra da noi nell'albero provato da scritture autentiche, che possano vedersi da chi si sia. ... Da che si vede chiaramente la discendenza di quelli Guadagni da quegli antichi, che godevano tutti i gradi della Città di Arezzo fino del 1300, mentre questi del nostro secolo si veggano godere gli stessi gradi di quegli.

Bernardino ritornato alla Città d'Arezzo da Giovi cominciò a domandare la Cittadinanza, come se ne vede patente del 1552 a' 13 di febbraio fatta in persona, ed a favore di Cristoforo suo figliolo, ... Il qual Cristoforo ottenne pure con i figlioli il quarto, e secondo grado, e che se non fusse stato in riguardo de' loro antenati già nobili, non aveiano così in un subito conseguito i gradi della nobiltà."

Da Roberto Giorgi (2007): Per giungere ad una quantificazione del ruolo politico delle 55 famiglie “patrizie”, si è fatto ricorso ad una serie di documentazione depositata presso l’Archivio di Stato di Firenze, nella quale sono conservate tutte le “imborsazioni” che i “riformatori” aretini compivano ogni cinque anni al momento di rimettere mano alle disposizioni statutarie. Sono state oggetto di analisi le procedure di formazione delle otto borse per il “supremo magistrato dei priori”, in considerazione del fatto che tale operazione risulta essere paradigmatica della divisione della popolazione aretina attiva in otto gradi - quattro per l’ordine della cittadinanza e quattro per l’ordine della nobiltà – in ottemperanza, come già abbiamo rilevato, agli statuti del 1447 e che per almeno tre secoli non subirono alcuna modifica. L’arco cronologico compreso è pari a quasi due secoli, e con intervalli sufficientemente omogenei, nell’ordine all’incirca di dieci anni, sono stati consultati i registri che vanno dalle riforme ed “imborsazioni” del 1551 fino a quelli del 1746. I risultati sintetizzati da questa ricerca figurano in una tabella dove i Guadagni appaiono con 9 Gonfalonieri, 21 secondi, 13 terzi e 8 quarti per un totale di 51 cariche (la media è di 53). Per accedere alla carica, bisognava aver compiuto almeno 35 anni.

Ricerche approfondite sono state condotte anche in merito all’andamento dei patrimoni tanto dei “patrizi” che dei “nobili” iscritti nei rispettivi “libri d’oro” settecenteschi nel periodo compreso tra il 1553 ed il 1745, con una cadenza che, ad eccezione della seconda metà del Cinquecento, è mediamente ventennale. Le fonti utilizzate sono i cosiddetti “Libri della Lira” i quali periodicamente venivano compilati oppure aggiornati per la determinazione tanto dell’ “imponibile” quanto dell’importo della imposizione, detto “dazio”, calcolato sui beni mobili ed immobili e che gravava sugli aretini che godevano della cittadinanza. I risultati sono riportati in una tabella (dato in "lire fiscali") dove i Guadagni nel 1553 appaiono 9° (3232 lire) con 1 carica, come pure nel 1602 (4057), 2 cariche; nel 1622 7° (5207), 3c.; nel 1642 6° (5335 "ricchezza max"), 3c.; nel 1661 6° (5286), 3c.; nel 1672 20° (1274), 3c.; nel 1687 25° (1018), 2c.; nel 1710 22° (1018), 2 cariche. La scalata economica dal 1553 è costante per oltre un secolo, ma tra il 1661 ed il 1672 avviene un crollo con perdita di oltre il 75% del Patrimonio (valutato in "lire fiscali"), portandosi poi costante a 1018 L.fisc. nel 1687 e 1710 ovvero meno di 1/5 rispetto al periodo 1622 - 1661. Da capire cosa sia successo.

Tornando al titolo nobiliare, lo stemma (principale) nella Villa di Borgo a Giovi porta la corona di Marchese, le gemme Patrizie, 3 scudi: centrale con l' S.P.Q.R. in diagonale, ai lati il cavallo aretino (a dx) ed il giglio fiorentino (a sx), sotto al centro il moro con la rosa in bocca, il tutto incorniciato dalle fronze e sotto la dicitura (su due livelli) "GENS GUADAGNIA ARR.FLOR.AC ROMANA" "PATRITIA NON IMMEMOR" XDCXXX. Cui aggiungere "Cavalieri di Santo Stefano" (le medaglie e cimeli di Umberto furono rubati nel 1972).

memorie di Umberto a Duccio modifica

il "Libro" della Famiglia Guadagni modifica

Fin da piccolissimo, quando Duccio era ospite nella casa di Mestre del nonno Umberto Guadagni (Giovi - Arezzo 22 marzo 1906 - Mestre 1 nov. 1999) osservava nella parete del "corridoio riservato", appeso fronte alla porta della camera di Umberto e Lelia, il dipinto del grande Albero genealogico familiare. Che riportava in fondo, sulla destra, il nome di Umberto e delle sue figlie Maria Luisa e Maria Grazia. Sulla parete opposta, fronte all'armadio a muro e alla porta della camera di Maria Grazia, sopra ad una piccola consolle, un grande Libro (circa 25 x 35 cm.) con "copertina grossa" in cartone rivestita in similpelle verde smeraldo scuro, ricamata in oro, dal titolo "Famiglia Guadagni".

Da piccolissimo, lo presi in mano, e "fui redarguito" poichè "era sacro" (come se fosse) e "non dovevo toccarlo" (il che voleva dire, sarei stato picchiato qualora lo avessi preso, molto peggio se l'avessi addirittura rovinato). Me lo facevano vedere, tenendolo in mano loro. Aveva delle belle figure, all'inizio una pagina con uno stemma rosso crociato a spina, poi un altro con "una faccia marrone di profilo", con una rosa rossa in bocca. E tante pagine scritte. Prima a libro, poi "a scheda", poi nuovamente "a libro" e poi ancora "a scheda". Dopo averlo visto alcune volte, non andavo ancora a scuola, non mi interessava più. Sapevo solo la cosa importante: "esser pregiato" e che non dovevo toccarlo.

Poi, quando ero in quarta elementare (1974-75), studiando la Storia del Medioevo ed il periodo del Feudalesimo e di Carlo Magno, con la suddivisione gerarchica piramidale del potere in Feudatario (Vassallo), Valvassore, Valvassino (e Valvassetto) e la successiva "era dei Comuni" in Italia, con la nascita dei Nomi (cognomi) delle importanti dinastie, attraverso anche gli "alberi genealogici", di cui avevo sentito parlare sin dalle successioni di Cesare, quel libro mi parve un qualcosa "di familiare". Non lo avevo più preso in mano dopo qualche ovvia volta, di nascosto, attentissimo a non rovinarlo, ma non era per leggerlo, ma per "il gusto del proibito", non potevo e quindi "non mi interessava" (ed avevo poco tempo). Imparai a leggere, e quando rivedevo tale libro, aveva il titolo del cognome del nonno, il papà della mamma e della zia.

A me, sembrava "normale" che "tutti", nella loro casa, avessero un libro con il loro nome (e l'Albero genealogico), che partiva dal Medioevo. Solo che magari era nascosto o "ben protetto" e non lo facevano vedere (per "non imbrodarsi"), come faceva mio nonno che lo teneva nel "corridoio riservato" (e non in "bella vista" nel tavolo della sala).

A nove anni capitò poi che, "ospite dal nonno", chiesi poterlo guardare, e mi fu concesso (a patto non l'avessi rovinato).

il "grande Guadagno" modifica

il "segreto" del Mugnaio modifica

Nella litigiosissimma Arezzo altomedievale ogni signore aveva il proprio "Castello" (o vari castelli), rifugio e difesa per la famiglia, i servi e le proprietà ed i valori. Ed aveva un piccolo (e proporzionalmente costoso) numero di uomini armati al proprio servizio.

Un Castello nella città murata era molto costoso e comunque "miccia di disgrazie, litigi e faide".

Il Mognaio Guadagni doveva difendere il bene più prezioso (ma ingombrante), il grano. E gli uomimi servivano a lavorare i campi, poiché in questo modo c'era più ricchezza e raccolto per tutti.

Il Granaio, doveva essere luogo "invalicabile", ovvero "imprendibile" a qualsiasi armata cristiana, di questo o di quello, con qualsiasi pretesto. E l'unico posto imprendibile, senza il bisogno di uomini armati, era un luogo sacro, ovvero la Chiesa e la sua Canonica.

Pertanto a Giovi vi era un'enorme Canonica (il Castello di Giovi, turrito) contiguo alla chiesetta (dapprima in legno, poi in pietra ed "arredata" dai Guadagni stessi), dove era custodito tutto il grano e le riserve alimentari, e dove abitava e si rifugiava la famiglia stessa in caso di pericolo, col "resto del paese" rifugiato nella chiesa (nei casi peggiori). Luogo Sacro ed inviolabile.

La Chiesetta era nel dominio dei Frati di Camaldoli, investiti dall'Imperatore sulla ghibellina Arezzo. Per forza di cose, i Guadagni aretini, era anch'essi ghibellini.

I Guadagni aretini hanno avuto per almeno sei secoli un rapporto privilegiato con tali frati, fiducia ultracentenaria purtroppo poi causa dell'immbroglio fineottocentesco che li rese invece "poveri", avendo poi i frati rubato loro tutti i beni.

Ma i segreti del mognaio eran molti.

Al Mulino "andavano tutti", egli aveva rapporti con tutti, egli custodiva il bene più importate e prezioso, il grano (i soldi non si mangiano).

I segreti del Mulino: Trucci trucci Cavallino, Mena l'asino al Mulino ...

al Grande Mulino de' Guadagni ci stava il Cavallo. Non un "Cavallo Arabo" (elegante e leggero, da salto e corsa ...) ma un grosso e grande "Cavallo da tiro". Quello grande e tutto grosso, con la lunga criniera e le zampe grosse, coi ciuffi sulle caviglie. Il cavallo delle battaglie medievali. Non doveva essere veloce, ma potente. In battaglia, ed al Molino.

Perchè al Mulino c'era una grandissima pala ...

"Trucci trucci Cavallino ..." modifica

Trucci Trucci Cavallino

Trucci trucci (H)avallino,

mena l'as(s)ino al Mulino.

Il Mulin s'è rovinato, il Mugnaio s'è 'mpiccato.

S'è 'mpiccato a 'nà hatena, la su' moglie fa da (s)cena.

La su' moglie ha fatto 'n figlio, che si hiama Piccirillo.

Piccirillo è 'ndato 'n Francia, hon la spada e hon la lancia,

ad ammazzare il Rè!

Il Rè 'un c'era.

Era 'ndato alla Fiera.

Alla Fiera di Hortona, (d)ove si balla e dove si sona,

dove si vendon i hucchiai ...

Tutti ladri i bottegaiiih !

Fin da bambino, la più bella e divertente filastrocca era "Trucci Trucci Cavallino".

Si montava a cavalcioni sul ginocchio (o sulle ginocchia) della mamma (o zia, o nonna Lelia) che ti teneva per entrambe le mani rivolto verso di lei,

e mentre la decantava, ti faceva sobbalzare (facendo perno sulla punta del piede e sollevando il tallone su e giù) contenporaneamente tenendoti per le mani ma muovendo su e giù anche le braccia, come appunto ci si trovasse in sella ad un cavallo.

La storiella, finiva con il "Tutti ladri i bottegaiiih" e contemporaneamente "ti disarcionava" o meglio ti spingeva con la testa e schiena all'indietro (tenendoti ovviamente per le mani) come fosse un'improvvisa impennata del cavallo. Duccio si divertiva che si buttava all'indietro quasi fino a terra, e qualche volta batteva pure il capo, ma tanto "ce l'aveva duro" e tutt'alpiù si teneva il bernoccolo, pur di divertirsi al limite massimo.

Poi ti ritirava su, ed il "giro in giostra casalingo" era finito.

Dovevi scendere.

Ma Duccio non voleva scendere mai!

Voleva sempre il bis, tris, e ancora ed ancora ... appunto la mamma veniva sostituita dalla zia o dalla nonna, quando presenti.

Era "la Filastrocca del Mognaio" d'Arezzo.

Eh, si, Il Piccirillo del Mognaio d'Arezzo, Cavaliere, Nobile, sarebbe potuto andare in Francia ad ammazzare il Rè, Re che viene persino accentato (la pronuncia normale è senza accento, e diventa Rè, con una piccolissima pausa e stretta di mani al bambino, onde dare importanza al "gesto cavalleresco" ... con la Spada e con la Lancia .... il Sarracino d'Arezzo ... le crociate ed il Mulino, Fortuna della famiglia ... il "grande Guadagno" ...) le origini e l'onore che permettono al Piccirillo Guadagni avvicinare, parlare e sfidare a duello il Rè di Francia ... che però " 'un c'è". 'Un do' era (ito)? (diventa danzante, decantandola ed anche con il movimento di mani e braccia) ... Alla Fiera di Cortona, dove si balla e dove si suona ...

Sin dal 'primo '200 Accatto (che è sinonimo di Guadagno) ed i suoi discendenti potevan reclamare la sfida col Re di Francia. Man mano, nella Storia, son venute le cariche, ma durante il periodo delle guerre civili, dei tumulti, delle vendette. Firmano la pace, ma seguon anche le esclusioni dalle cariche, il ritiro a Giovi, la rinascita cinquecentesca col Molino di Giovi (oltre agli altri), gli avvocati, il ritorno alle cariche pubbliche, gli onori, i letterati, gli ambasciatori, il nuovo "ceppo tedesco", i disastri ottocenteschi (fallimento, perdita principale molino, truffa fine ottocentesca dai Frati di Camaldili) conclusisi nel 900 e poi con il secondo confitto mondiale, che hanno portato alla dissipazione e scomparsa di un patrimonio notevole, non solo visto economicamente. ogni Guadagno d'accatto poteva reclamare gli onori conseguiti dai suoi avi. Onori di "poter sfidare anche il Re". Ma, anche i Re, oggi "non ci son più", e ne restan pochi. Ma nella mentalità del bambino, eroe, che morirebbe per onore ... o vincerebbe il Re, c'è l'nghippo che " 'un c'è " ed il tutto si straforma nel gioco e ballo del Cavallino a Cortona, con l'impennata finale.

Umberto, ultimo maschio nato Guadagni (d'Accatto) ed a Giovi (nella Villa citata di Borgo a Giovi) ci tramanda la sua filastrocca.

"Trucci Trucci d'Arezzo" o anche "dei Mognai d'Arezzo" o "dei Guadagni d'Acatto da Giovi".

Note modifica

GUADAGNI di Firenze. — Originaria del contado fiorentino, si stabilì in Firenze sul finire del XII secolo; c fin dal 1204 un Guadagno di Guittone come priore dei mercanti era al governo della Repubblica. Tra il 1289 e il 1528 i Guadagni dettero 1 gonfalonieri e 19 priori. Stabi- lito il principato, conseguirono per ben sette volte la dignità senatoria. Ebbero inoltre tre consoli, molti podestà, capitani del popolo, castellani e ambasciatori. — Marino Guadagni protonotario apostolico ed uno dei segretari di papa Giovanni XXII. — Bernardo, carmelitano scalzo, vescovo di Arezzo e poi cardinale del 1731. Filippo due volte ministro generale dell' ordine dei Teatini. — Arma : Di rosso, alla cróce spinata d'oro. — Cimiero: Una testa di unicorno d'argento. — Motto : Exaltaritur.

Bibliografia modifica

  • Marcello Vannucci, Le grandi famiglie di Firenze, Newton Compton Editori, 2006 ISBN 88-8289-531-9
  • Istoria genealogica delle famiglie nobili toscane, et vmbre. Descritta dal p. d. Eugenio Gamurrini, monaco casinense, nobile aretino, accademico apatista; abate, consigliero, & elemosiniero ordinario della maestà cristianissima di Lodouico 14. re di Francia, e di Nauarra; teologo, e familiare dell'altezza serenissima di Cosimo 3. principe di Toscana consecrata alla medesima altezza. Stamperia di Francesco Onofri, 1668. Guadagni - Sezione 10 pagine da 406 a 427 - 3 rami famiglia - pag. 422 famiglia aretina.
  • Girolamo Crispi, Notizie Istoriche degli Arcadi Morti - Volume 2 pagina 265, Stamperia Roffi, Roma, 1720;
  • L. Passerini, Genealogia e storia della famiglia Guadagni, Firenze 1873

Collegamenti esterni modifica

Voci correlate modifica

  • Giovi, per il ramo aretino della famiglia.

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