Per teorie complottistiche del Risorgimento s'intendono tutte quelle teorie, diffuse attraverso libri, blog e siti web, volte a dimostrare che il Risorgimento fosse un'operazione di elitaria di stampo pluto-massonico (vedi ad es. Angela Pellicciari) oppure una guerra di conquista sponsorizzata dalla finanza albionica (vedi ad es. Carlo Alianello).

Il revisionismo meridionalista del XX e XXI secolo modifica

Il revisionismo risorgimentale conobbe un'evidente radicalizzazione e ripresa a metà del Novecento, dopo la caduta sia della monarchia sabauda, che del fascismo, dai quali il Risorgimento era considerato un mito intangibile. Le mutate condizioni politiche consentirono l'emersione di un gruppo di studiosi iniziarono a ridimensionare il valore dell'operato dei Savoia, formulando in proposito giudizi sostanzialmente negativi. A circa cent'anni di distanza da de' Sivo, gli appartenenti a questo gruppo ne ripresero gli argomenti di critica, addebitando in particolare la causa di gran parte dei problemi del Mezzogiorno al processo di unificazione nazionale. Con il passare degli anni, questo filone di revisionismo risorgimentale ha trovato alcuni pubblicisti, sia meridionali che settentrionali, che con passione ma con poco metodo scientifico hanno rivisitato alcuni eventi controversi del processo di unificazione. Tra questi sono da menzionare Lorenzo Del Boca[1], Gigi Di Fiore[2], Pino Aprile[3], Fulvio Izzo[4], Antonio Ciano[5][6], Aldo Servidio[7], Pier Giusto Jaeger e Luciano Salera.

La massima parte di tali revisionisti sostiene che il Risorgimento e il processo di unificazione politica degli stati preunitari, con particolare riferimento all'annessione del Regno delle Due Sicilie al nascente Regno d'Italia, abbiano, mediante un'azione di conquista seguita da un'opera di colonizzazione e di sfruttamento sistematico delle sue risorse, causato le problematiche socio-economiche dell'area. È, infatti, opinione ampiamente condivisa da questi autori che le politiche messe in atto nelle province meridionali dai governi unitari a partire dal 1861, furono inadeguate o deleterie per il Mezzogiorno e ne arrestarono o compromisero lo sviluppo.

Carlo Alianello modifica

Carlo Alianello

Tra i pionieri del revisionismo vi è lo scrittore e sceneggiatore Carlo Alianello. Egli ricostruì i fatti risorgimentali dall'ottica dei vinti, esprimendo un duro atto di accusa verso gli ideatori dell'unificazione e le politiche del regno di Sardegna, pur non rinnegando l'unità della nazione.[8] Per le idee manifestate nella sua prima opera, L'Alfiere (1942), comparsa durante il ventennio fascista, in cui il Risorgimento era considerato un mito "intangibile",[9] Alianello rischiò il confino, che riuscì ad evitare solo per la caduta del regime.[9] Con l'instaurazione della Repubblica Italiana Alianello poté sviluppare la sua linea di pensiero con la pubblicazione de L'eredità della priora (1963), da alcuni considerata la sua opera massima,[9] e La Conquista del Sud (1972), saggio citato spesso nelle opere dei revisionisti a lui succeduti. In continuità con suoi precursori ottocenteschi, secondo Alianello le scelte operate nel processo unitario sarebbero state effettuate dai piemontesi con la complicità del governo britannico e delle massonerie straniere a scopo di mera occupazione.[10] Lo scrittore, contrariamente alla storiografia maggiormente diffusa, ritenne che il processo di unificazione non avesse avuto natura popolare e che fosse stato appoggiato dalle classi abbienti solamente per interessi personali.[11]

Michele Topa modifica

Nella linea di discendenza culturale, a Carlo Alianello succede il giornalista e divulgatore Michele Topa che, con le sue opere Così finirono i Borbone di Napoli (1959) e I Briganti di Sua Maestà (1967), contribuì a delineare un nuovo approccio al Risorgimento, visto dalla parte dei vinti.

Nicola Zitara modifica

Un personaggio di spicco del revisionismo più intransigente e di ispirazione indipendentista fu il giornalista e docente di diritto ed economia Nicola Zitara. Sulla stessa linea culturale di Alianello e Topa, Zitara considerò l'unità d'Italia il frutto di un'operazione di conquista militare ed economica ai danni del Sud, che sarebbe divenuto una colonia, relegata, in quanto tale, a mercato di sbocco e destinata a consentire lo sviluppo economico ed industriale dell'Italia centro-settentrionale. Nelle sue opere Zitara esprime le proprie convinzioni muovendo da un'analisi economica del Mezzogiorno pre e post unitario attraverso un'aspra critica al capitalismo e al liberismo, che fu condotta inizialmente seguendo i canoni propri dell'ideologia marxista. Del socialismo scientifico di Marx, però, Zitara, al pari di altri autori, sottolineò alcuni limiti, che a suo giudizio potevano essere superati integrando le teorie marxiane con un sua peculiare visione giusnaturalistica[12]. Zitara sostenne che l'unica via per la ripresa di economia e società meridionali fosse un ritorno all'indipendenza per le Due Sicilie e che alla base del sentimento indipendentista vi dovesse essere la riscoperta, da parte delle genti del Sud, della propria identità storica e culturale. Per Zitara, tale processo mnemonico di riappropriazione storica avrebbe avuto quale passaggio obbligato il Regno delle Due Sicilie: rimarcò sempre le eccellenze da egli e da altri autori registrate durante l'esistenza del Regno, assumendo lo stato delle Due Sicilie e i suoi simboli ad emblemi identitari, pur non sposando la causa monarchica[13].

«Non sono di idee monarchiche. Sono un marxiano convinto. Credo in una società di eguali e di giusti, ma ultimamente ho imparato che ritrovare le radici politiche della nostra antica indipendenza rappresenta un'esigenza imprescindibile, se vogliamo risorgere.»

La soluzione di indipendenza prospettata da Zitara si concretizza in uno stato da questi definito "Megaellenico" dove il principale fattore della produzione è il lavoro, e non il capitale, e la terra deve essere esclusa dalla proprietà privata, per rimanere unicamente un bene pubblico. Secondo il revisionista calabrese, il regno borbonico fu l'ultimo stato sovrano ad essere rappresentativo degli interessi delle popolazioni meridionali, le quali, secondo le sue tesi, al momento dell'annessione furono asservite agli interessi di un capitalismo definito "tosco-padano"[14].

Gigi Di Fiore modifica

Lorenzo Del Boca modifica

Il revisionismo d'impostazione cattolica modifica

Altri tentativi di fornire una base storiografica alla tesi secondo cui lo Stato unitario sia il frutto di una sopraffazione di una minoranza contro la maggioranza degli italiani, sono opera di un gruppo di studiosi di ispirazione clericale, ideologicamente legati a quella componente cattolica pesantemente danneggiata dalla politica anticlericale attuata prima dai piemontesi e proseguita durante il Regno d'Italia. Il pontefice Pio IX scomunicò il governo liberale di Cavour per la violazione dei territori pontifici e per il severo trattamento riservato a tutto ciò che era riconducibile alla Chiesa cattolica. La protesta degli ambienti clericali non riuscì ad affermarsi di fronte al dirompente potere del neonato Stato e finì per essere relegata in una stretta cerchia di cattolici intransigenti. La polemica causata dallo scontro tra la Chiesa e il Regno d'Italia, a causa dell'invasione dello Stato Pontificio del 1870, sarà identificata in seguito come Questione romana.[15]

Tra questi pubblicisti una particolare interpretazione storiografica del Risorgimento viene data alcuni che, secondo Salvatore Lupo, si trovano in posizioni antirisorgimentali di parte ultracattolica[16] come Angela Pellicciari[17], Roberto de Mattei[18], Francesco Mario Agnoli,[19] e Massimo Viglione,[20].

Angela Pellicciari modifica

Le analisi della Pellicciari fanno risalire la questione risorgimentale all'ingresso in Italia delle "truppe giocobine francesi" guidate dal massone Napoleone Buonaparte che, secondo la studiosa, saccheggiarono l'Italia in nome della libertà e del risorgimento della gloria nazionale[21] affermando di voler "risvegliare il Popolo Romano assopito da molti secoli di schiavitù", e volendo imporre agli italiani un ordine anticristiano fondato sulla potenza di Satana, facilmente riconoscibile osservando che la stella inserita nello stemma del Regno d'Italia (1805-1814) altro non sarebbe che una insegna satanica: la pentalfa massonica.[22] La Pellicciari osserva che un'altra insegna satanica, un teschio di caprone, e' ben visibile sulla stele, che al Gianicolo ricorda gli studenti padovani morti difendendo la repubblica romana[23]. Sconfitto Napoleone la liberal-massoneria inglese avrebbe preso la guida del movimento allo scopo di sollevare gli italiani dal "peso dei millecinquecento anni di oscurantismo cattolico", evento che, ricorda la studiosa, fu definito “Risorgimento del paganesimo”, da Leone XIII[24].

Secondo la Pellicciari, replicando a Norberto Bobbio “L’abbattimento del potere temporale dei papi, ... non è certo il principale obiettivo dell’élite risorgimentale: a leggere quello che le fonti del secolo scorso scrivono (sia di parte massonica che cattolica), il Risorgimento mira alla pura e semplice scomparsa del cattolicesimo”[25], arrivando a definire il Risorgimento icome una guerra di religione, oggi dimenticata[26], scatenata da liberali e massoni contro la chiesa cattolica[27]. Secondo la Pellicciari a partire dal 1848, il Risorgimento può essere interpretato alla luce della battaglia liberale, avvenuta nel parlamento subalpino contro gli ordini religiosi, che nel 1848 porto' nel regno piemontese alle leggi Siccardi, all'espulsione dei gesuiti, all'arresto del vescovo di Torino Luigi Fransoni e, nel 1858, alla soppressione degli ordini religiosi mendicanti[28][29].

Secondo la Pellicciari, importanti articoli dello statuto albertino non sarebbero stati rispettati dalla monarchia sabauda e dai suoi governi: appena promulgato infatti, sarebbe avvenuta la prima "la prima seria persecuzione anticattolica dopo Costantino"[30], nonostante l'articolo 1 dello statuto definisse la religione cattolica come unica religione di stato. Ugualmente non rispettati sarebbero stati l'articolo 28 sulla libertà' di stampa, negata a quella cattolica, e il 29 che avrebbe dovuto difendere l'inviolabilità della proprietà privata, violato dagli incameramenti dei beni ecclesiastici derivanti dalle donazioni secolari della popolazione cattolica italiana[30][31] e che avrebbero "messo sul lastrico" 57.492 persone (ossia i membri degli ordini religiosi)[32]

Nella sua opera reinterpreta dal punto di vista cattolico anche anche alcune figure risorgimentali. Di Garibaldi, ricorda l'attività di scrittore e romanziere fortemente anticlericale che arrivo' a suggerire di mettere "i preti alla vanga" per la bonifica delle Paludi pontine, a suo giudizio anticipando di un secolo la "fantasia" di Mao Tse-tung. Asserisce, inoltre, che nelle sue memorie Garibaldi abbia taciuto di essere stato anche uno schiavista, e nelle sue memorie "non racconta del commercio di carne umana"[33]. Come prova di tale ipotesi, la Pellicciari riporta la frase "Garibaldi "m’ha sempre portati i Chinesi nel numero imbarcati e tutti grassi e in buona salute; perché li trattava come uomini e non come bestie", scritto dall'armatore ligure Pietro Denegri in riferimento al viaggio, compiuto nel 1852, della nave Carmen, comandata da Garibaldi nella rotta Callao-Canton-Lima[34]. Di Giuseppe Mazzini osserva che fu amico delle confessioni protestante, evangelica e anglicana, "nemiche della chiesa cattolica", e in opposizione a Montanelli, che gli attribuì il merito di aver parlato di Dio e quindi di spirito, afferma che ripudiò la rivelazione cristiana, condividendo l’odio anticattolico e anticristiano della Carboneria, la cui missione religiosa sarebbe stata la sostituzione del domma del progresso a quello della caduta e della redenzione per grazia "[35]. Viceversa lamenta la censura e l'oblio operati verso gli scritti di Giacomo Margotti di cui si occupa diffusamente nel suo libro "Risorgimento anticattolico"[36].

La sua interpretazione storica include include anche il giudizio negativo sui plebisciti avvenuti l'11 e 12 marzo 1860 in Emilia, Toscana, il 21 ottobre nell'Italia meridionale, 4 e 5 novembre nelle Marche e Umbria, a suo giudizio fatti per dimostrare al mondo, a conquista avvenuta, quanto fossero felici gli italiani del nuovo assetto. Per ottenere questo scopo afferma che venne chiamata al voto tutta la popolazione, azione che giudica "inaudita in un’epoca in cui aveva diritto di voto meno del 2% degli abitanti". Facendo riferimento a testimonianze del tempo, afferma a tal proposito che i risultati furono una "truffa gigantesca confezionata ad arte" e concorda con il non expedit di Pio IX in quanto "con un simile stato i cattolici non dovevano avere nulla a che fare"[37].

Osservando, e concordando esplicitamente con quanto Marx[38] afferma, Pellicciari ritiene che la rivoluzione industriale inglese avrebbe ridotto la popolazione in miseria, mentre sostiene che in Italia, "grazie alla capillare presenza cattolica", questa rivoluzione non provoco' gli stessi danni, al punto che nessun moriva di fame, contrariamente a quanto accadeva all'estero. La miseria generalizzata della popolazione sarebbe stata provocata dal Risorgimento che ridusse gli italiani sul lastrico, obbligandoli ad un’emigrazione di massa, sconosciuta nei millenni precedenti[39].

Negli ultimi anni l'opera di revisione storica della Pellicciari, è stata diretta ad inquadrare l'unificazione italiana nella più ampia prospettiva europea. A suo avviso "il punto non è solo quello della brutalità della conquista sabauda del Meridione né dell’arretratezza economico-sociale del Sud", ma quello di "affrontare il tema della nostra identità nazionale", comprendere l'errore storico e culturale di un Risorgimento inteso come “risorgimento” dal cattolicesimo, quanto :"tutti gli italiani, di qualsiasi regione e di qualsiasi ceto fossero, si sono uniformemente riconosciuti per più di un millennio nella fede e nella cultura cattoliche: fede e cultura che l’élite liberale dell’Ottocento ha combattuto con tutte le forze"[40].

La tesi del complotto internazionale contro il Regno delle Due Sicilie modifica

Ferdinando II delle Due Sicilie

Secondo le fonti revisioniste il processo di annessione del Regno delle Due Sicilie sarebbe stato una pianificata operazione di complotto, attuata con il sostegno in particolar modo della Gran Bretagna.[41] Secondo questa tesi, il contrasto diretto tra la Gran Bretagna ed il Regno delle Due Sicilie avrebbe avuto radici nella progressiva affermazione di quest'ultimo quale potenza marinara posta al centro del Mediterraneo, e, quindi, in diretto contrasto con gli interessi inglesi[42][43]. A tal proposito, diverse fonti riportano come, in particolare sotto il regno di Ferdinando II di Borbone, la marina mercantile napoletana fosse progressivamente cresciuta dalle 5.328 unità (102.112 tonnellate) del 1834 alle 9.847 unità (259.917 tonnellate) del 1860, e come, soprattutto, fosse mutata la tipologia del naviglio a favore di unità a più elevato tonnellaggio, le quali consentivano, quindi, di condurre traffici commerciali su lunghe distanze[44][45]. Il proposito del sovrano di migliorare progressivamente l'influenza commerciale della propria Marina nel Mediterraneo era in netto contrasto con la strategia inglese di dominio dei traffici sui mari; i lavori per l'apertura del canale di Suez erano appena inziiati e dunque le Due Sicilie avrebbero potuto interferire negli interessi inglesi di traffico tra la madrepatria e le Indie.[46]

Anche la contesa dell'Isola Ferdinandea, emersa entro le acque territoriali siciliane nel luglio del 1831, viene generalmente considerata come un'altra causa di contrasto tra la Gran Bretagna e le Due Sicilie. La disputa sull'isolotto cominciò con la presa di possesso iniziale da parte della Gran Bretagna, che vi piantò per prima la propria bandiera il 10 agosto e la battezzò isola di Graham. Il 17 agosto, tuttavia, ritenendo la neonata isola posta all'interno delle proprie acque territoriali, lo Stato borbonico ne rivendicò l'appartenenza dandole il nome del proprio sovrano. Questa disputa, risolta velocemente con la scomparsa dell'isola a fine dicembre[47], è generalmente interpretata come un altro indice della volontà di Ferdinando II di affermare le Due Sicilie come potenza marinara tesa al controllo del Mediterraneo centro-meridionale[43], in contrasto diretto con gli interessi inglesi.

Il contrasto con l'Inghilterra non fu l'unica circostanza che, secondo i revisionisti, determinò la convergenza di interessi internazionali verso l'annessione delle Due Sicilie al Piemonte. Dal punto di vista delle relazioni internazionali, infatti, il Regno borbonico era in una situazione di isolamento diplomatico[48], iniziata già ai tempi di Ferdinando II. Quest'ultimo, infatti, aveva effettuato la scelta di perseguire una politica autarchica nella gestione dello stato, che sul fronte estero si tradusse nella non adesione ad un "partito" specifico. Il Regno delle Due Sicilie era piuttosto legato all'Austria (Maria Teresa, moglie di Ferdinando II, era austriaca) ed aveva relazioni di lunga data sia con la Francia di Napoleone III, che con l'Inghilterra (queste ultime risalenti al periodo di cattività speso in Sicilia da Ferdinando I). Ferdinando II aveva tuttavia dato segni fin dall'inizio del suo regno di volere assicurare al proprio paese un'indipendenza diplomatica[49], convinto com'era che la sua posizione di paese "tra l'acqua santa e l'acqua salata"[50] lo avrebbe protetto da ingerenze estere, a condizione di avere una potente marina militare.

L'isolamento voluto da Ferdinando II, secondo le teorie revisioniste, si estrinsecò nella scelta di restare neutrale nella guerra di Crimea, non concedendo l'uso dei suoi porti alle flotte inglesi e francesi[51], il che gli alienò non poche simpatie.

Viceversa, in tutto il decennio precedente all'unità d'Italia, Cavour fu molto attivo nella diplomazia europea per assicurare allo stato sabaudo la simpatia, se non l'alleanza, di Inghilterra e Francia. È noto, infatti, che nel 1855 egli inviò un contingente di truppe per combattere a fianco di quelle inglesi nella Guerra di Crimea. In questo modo, si guadagnò un seggio alla successiva conferenza di pace, dove riuscì far prendere ai rappresentanti inglesi e francesi una posizione sulla questione italiana. L'amicizia piemontese con la Gran Bretagna venne confermata dalla visita di stato che re Vittorio Emanuele II fece alla Regina Vittoria[52] al termine del conflitto. Sul fronte diplomatico francese, inoltre, e grazie anche alle arti seduttive di una sua parente nei confronti di Napoleone III[53] Cavour riuscì ad avvicinare a sé Napoleone III. L'amicizia con la Francia da parte del Piemonte si concretizzò con la collaborazione militare tra francesi e sabaudi contro l'Austria durante la Seconda guerra di indipendenza italiana, al termine della quale gli accordi di Plombières sancirono l'annessione della Lombardia al Piemonte.

La questione dello zolfo siciliano modifica

Secondo la critica revisionista, il comportamento degli inglesi sembrerebbe correlato anche con la questione dello zolfo siciliano[54][55]. Tale preziosa materia prima era gestita dalla Gran Bretagna in regime di monopolio, in virtù di una concessione fatta nel 1816 da Ferdinando I. A quei tempi, lo zolfo era una risorsa strategica per la fabbricazione di polvere da sparo, e la produzione delle miniere siciliane copriva l'80% della domanda mondiale[56]. Nel 1836, Ferdinando II ritenne svantaggiose per le casse dello stato le condizioni economiche della concessione assegnata agli inglesi, che traevano profitto dal minerale comprandolo a un costo molto basso e rivendendolo a prezzi elevati, senza garantire un buon introito al suo regno.[10] Il sovrano, che nel frattempo aveva rimosso la tassa sul macinato, si trovava in condizione di dover cercare altri mezzi con cui incamerare contributi per le casse del regno. La soluzione sembrò arrivare dalla Francia nel tentativo di modificare la partnership commerciale con gli inglesi. La gestione dello zolfo venne così affidata ad una ditta francese, la Taix Aycard di Marsiglia, che lo avrebbe pagato almeno il doppio rispetto agli inglesi.[10]

Tutto ciò provocò una forte reazione della Gran Bretagna che, oltre a preannunciare il sequestro delle navi siciliane,[57] mandò nel 1836 una flotta navale nel golfo di Napoli, minacciando bombardamenti. Ferdinando II non si fece intimorire e ordinò al suo esercito di proteggere le coste del regno.[10] Il tutto sarebbe sfociato in una vera e propria guerra se il sovrano francese Luigi Filippo non fosse riuscito a fare da arbitro tra i due stati. La contesa venne conclusa con l'annullamento da parte dello stato borbonico del contratto stipulato con la Taix Aycard,[58][59] l'obbligo di rifondere agli inglesi le perdite che sostenevano di aver avuto causa la rescissione del contratto, e di rimborsare ai francesi il mancato guadagno derivante dall'annullamento del nuovo accordo.[10]

Le dichiarazioni di Gladstone modifica

William Gladstone

Il politico conservatore inglese William Gladstone, che soggiornò a Napoli per circa quattro mesi, tra l'autunno del 1850 e l'inverno del 1851, rientrato in patria in febbraio, scrisse due lettere al Parlamento britannico, in cui sosteneva che lo stato borbonico fosse in una terribile situazione sociale. Gladstone, in particolare, sosteneva di essersi recato in alcune carceri napoletane e di essere rimasto scioccato dalle condizioni in cui versavano i detenuti[74].

Nell'introduzione alle lettere, era scritto, tra l'altro:

«Non descrivo severità accidentali, ma la violazione incessante, sistematica, premeditata delle leggi umane e divine; la persecuzione della virtù, quand'è congiunta a intelligenza, la profanazione della religione, la violazione di ogni morale, sospinte da paure e vendette, la prostituzione della magistratura per condannare uomini i più virtuosi ed elevati e intelligenti e distinti e culti; un vile selvaggio sistema di torture fisiche e morali. Effetto di tutto questo è il rovesciamento di ogni idea sociale, è la negazione di Dio eretta a sistema di governo.»

Le due lettere vennero anche date alle stampe divenendo note come: Two Letters to the Earl of Aberdeen, on the State Prosecutions of the Neopolitan Government; ebbero diverse ristampe[76] e ne venne pubblicata anche una loro traduzione in francese, intitolata Deux Lettres Au Lord Aberdeen Sur Les Poursuites Politiques Exercées Par Le Gouvernement Napolitain.

Immediatamente dopo la loro pubblicazione, le accuse di Gladstone suscitarono reazioni tra i contemporanei, ed i primi commenti in risposta alle lettere si concentrarono sulla confutazione delle affermazioni del politico britannico. Alphonse Balleydier, ad esempio, in La vérité sur les affaires de Naples, réfutation des lettres de m. Gladstone, si propose di demolire gli assunti su cui Gladstone basava le sue "fabuleux échafaudage", deplorando, tra l'altro, il fatto che una volta giunto a Napoli, in luogo di visitare il ministro Fortunato o rendere omaggio al sovrano, si fosse recato subito nelle prigioni a parlare con i più accaniti avversari del governo napoletano[77] ivi detenuti.

Sempre in Francia, Jules Gondon, al fine di respingere le accuse di Gladstone, pubblicò il libro La terreur dans le royaume de Naples, lettre au right honorable W.E. Gladstone en réponse à ses Deux lettres à lord Aberdeen[78]. Il conte Walewski, ambasciatore francese che soggiornò a Napoli per quasi due anni, scrisse, invece, una lettera a Lord Palmerston, in cui affermò:

«Milord […], posso dirvi che i fatti narrati nelle lettere, sulle quali vi puntellate per assalire il Re di Napoli, sono in parte falsi ed in parte esagerati. Il Re di Napoli ha dovuto aggravare la mano su uomini che cospiravano per rapirgli la corona, qualsivoglia altro Governo in simili condizioni avrebbe fatto lo stesso, e ve ne ha non pochi ch'ebbero assai meno umanità.»

Domenico Razzano, nell'opera La Biografia che Luigi Settembrini scrisse di Ferdinando II sostenne che Gladstone, tornato a Napoli tra il 1888 e il 1889, avrebbe confessato di non essere mai stato in alcun carcere e di aver scritto le due missive dietro incarico di Palmerston, basando le sue dichiarazioni sulle affermazioni di alcuni rivoluzionari antiborbonici[80]. In un articolo comparso sulla pubblicazione Rassegna storica del Risorgimento, Maria Gaia Gajo, però, avanza dei dubbi in merito alla possibilità di un'intesa tra Palmerston e Gladstone, poiché, ritiene assurdo che, un liberale ed un conservatore (che in passato si era dimostrato un tenace oppositore della linea politica di Palmerston) avessero potuto collaborare in tal senso[81].

Un memorandum per S. M. Ferdinando II del 22 marzo 1850, che descrive le visite di un personaggio distinto a due carceri napoletane e le conversazioni intrattenute con le autorità delle prigioni, riguardo al trattamento dei detenuti (sia comuni, sia politici) e con i detenuti politici stessi (e con il Poerio in particolare), è stato, talvolta, interpretato come prova della presenza del Gladstone in quei luoghi[82]. Secondo Coppola invece il documento riporterebbe della visita effettuata, il 20 marzo, dal deputato inglese Alexander Baillie-Cochrane ai penitenziari partenopei[83].

Ad ogni modo, gli antirisorgimentali ritengono che le sue denunce sul presunto malgoverno dei Borbone, diffusesi in tutta Europa ed accreditate come vere, fossero un chiaro appoggio ai liberali italiani e permisero a piemontesi e inglesi di indebolire la posizione delle Due Sicilie nello scacchiere della diplomazia internazionale[10]. La diffusione di queste notizie, infatti, costò le dimissioni del primo ministro Giustino Fortunato, per non aver informato il re della vicenda[84]. Ferdinando Petruccelli della Gattina, in un articolo pubblicato sul giornale "Unione" di Milano il 22 gennaio 1861, parlò di Carlo Poerio, che scontò la sua pena sotto il governo borbonico, e di Gladstone, senza peraltro negare l'imprigionamento dello stesso:

«Poerio è un'invenzione convenzionale della stampa anglofrancese. Quando noi agitavamo l'Europa, e la incitavamo contro i Borboni di Napoli, avevamo bisogno di personificare la negazione di questa orrida dinastia, avevamo bisogno di presentare ogni mattina ai creduli leggitori dell'Europa libera una vittima vivente, palpitante, visibile, cui quell'orco di Ferdinando divorava cruda ad ogni pasto. Inventammo allora Poerio. Poerio era un uomo d'ingegno, un galantuomo, un barone; portava un nome illustre, era stato ministro di Ferdinando e complice suo in talune gherminelle del 1848! Ci sembrò dunque l'uomo opportuno per farne l'antitesi di Ferdinando - ed il miracolo fu fatto. E Gladstone fece come noi, magnificò la vittima onde rendere più odioso l'oppressore; esagerò il supplizio, onde commuovere a maggior ira la pubblica opinione.»

La figura di Poerio, come persona di riferimento dei liberali napoletani, quindi, sarebbe stato una creazione mediatica, costruita ad hoc per incarnare la figura del "tipico" rivoluzionario liberale da contrapporre ad un'altra creazione mediatica, il "mostro Bomba", frutto, secondo Harold Acton, di una stampa, da un lato, suggestionata dal "giocoliere" Gladstone e, dall'altro, disprezzata dallo stesso Ferdinando II[86]; il Cotugno, in merito alle affermazione del Petrucelli sul Poerio, riporta che: «dimentico di quel che aveva scritto in onore del Poerio nel suo libro su "La Rivoluzione di Napoli del 1848", per odio di parte, lo aggrediva con plateali insulti nei Moribondi del Palazzo Carignano»[87]. Effettivamente, come mostrerebbero alcuni dati, la linea assunta dal sovrano napoletano verso i condannati per reati politici non fu delle più dure. Tra il 1851 ed il 1854, infatti, i tribunali meridionali comminarono 42 condanne a morte per delitti politici, ma, di esse, non ne fu eseguita alcuna, poiché furono tutte commutate da Ferdinando II (19 in ergastoli, 11 in trenta anni di reclusione e 12 in pene minori)[88]. Per contro, nello stato piemontese, era ampio il ricorso alla pena capitale: tra il 1851 ed il 1855, furono eseguite 113[89] condanne a morte. A tal proposito, nella seduta parlamentare del 26 marzo 1856, Angelo Brofferio, commentando lo sgomento suscitato da tre esecuzioni avvenute a Torino in una sola settimana, lamentò la necessità di un intervento sull'attività dei tribunali, condotta, a suo dire, in maniera deprecabile, e di una riforma del codice penale, che egli giudicava asperso di sangue[89][Da chiarire se non vi furono condanne a morte neppure per reati comuni nel regno delle Due Sicilie e chiarire se le condanne a morte in Piemonte furono per reati politici o comuni].

Nonostante ciò, anche una parte della stampa italiana, seguendo l'eco delle dichiarazioni di Gladstone, che continuò a propagarsi negli anni, si scagliò contro il sistema carcerario borbonico. Il 19 marzo 1857, il "Corriere Mercantile" di Genova, quindi l'Italia del Popolo nell'aprile dello stesso anno pubblicarono articoli in cui si sosteneva che nelle carceri meridionali era adoperata la cuffia del silenzio[90], che sarebbe stata inventata da Baione, ispettore di polizia di Palermo, ed utilizzata soprattutto nei riguardi di due prigionieri politici Lo Re e De Medici,[91], , il console generale delle Due Sicilie a Genova rispose al Corriere Mercantile dichiarando falso che a Napoli sia stato istituito lo strumento di tortura qualificato cuffia del silenzio[92]. Nel 1863, ancora, Pietro Corelli sostenne che, dopo l'arresto di Francesco Riso, in seguito alla rivolta della Gancia, la polizia di Palermo, avrebbe minacciato di adoperare la cuffia del silenzio su costui, se egli non avesse rivelato i nomi degli altri rivoltosi[93]. Si trattava, in sostanza, di uno strumento di tortura composto da una serie di fasce metalliche, da assicurare intorno alla testa del detenuto, e recante una lingua di ferro ricurva che entrava nella bocca fino al palato per impedire a questi di parlare. A queste affermazioni, risalenti al periodo risorgimentale, la storica revisionista Pellicciari, ribatte affermando che tale dispositivo di costrizione, sarebbe stato ampiamente adoperato dal sistema carcerario britannico[94], e sarebbe stato sconosciuto a Napoli e mai impiegato nei penitenziari delle Due Sicilie[90].

I rapporti tra Regno di Sardegna e Inghilterra modifica

Secondo la critica revisionista, una macchinazione contro il Regno delle Due Sicilie sarebbe stata ordita dal Regno di Sardegna e l'Inghilterra, con lo scopo di trarre entrambi profitto dal collasso dello stato borbonico[10]. Carlo Alianello sostenne che, oltre al regno sardo, anche la Gran Bretagna, una delle maggiori potenze mondiali, aveva i suoi punti deboli (come la Grande carestia in Irlanda, a quel tempo parte del Regno Unito, che, oltre a provocare migliaia di morti, portò un elevato tasso di emigrazione verso le Americhe).[10].

Tuttavia non vi è ancora molta chiarezza sul ruolo di Cavour nell'annessione del regno delle Due Sicilie. Secondo Arrigo Petacco, il primo ministro piemontese disapprovava la conquista del regno borbonico e cercò persino di stipulare un accordo con Francesco II per una formazione di uno stato federale, ma quest'ultimo si sarebbe rifiutato.[95]

Altri scrittori come Lorenzo Del Boca[96] e Aldo Servidio[97] riportano invece che nel 1856, quattro anni prima della Spedizione dei Mille, Cavour e il conte di Clarendon, emissario di Lord Palmerston nonché ministro degli esteri inglese, ebbero contatti per organizzare rivolte antiborboniche nelle Due Sicilie, aneddoto sostenuto anche dallo storico inglese George Macaulay Trevelyan, autore di diverse opere su Garibaldi.[97] Cavour avrebbe ordinato a Carlo Pellion di Persano di prendere contatti a Napoli con l'avvocato Edwin James, uomo di fiducia del governo inglese.[96][97]

Il conte di Clarendon si scagliò contro Ferdinando II, al quale, a suo dire, le potenze progredite dovevano imporre di ascoltare la voce della giustizia e dell'umanità.[98]

Gli aiuti stranieri ai Mille modifica

Lo sbarco dei Mille a Marsala da un disegno di un ufficiale osservatore, a bordo di una nave inglese.

Secondo più fonti revisioniste, il governo inglese avrebbe rivestito un ruolo importante nella spedizione dei Mille, finanziando la campagna militare di Garibaldi con 3 milioni di franchi francesi,[99] forniti anche con il contributo della massoneria statunitense e canadese.[100] Prima che i Mille giungessero in Sicilia, il contrammiraglio George Rodney Mundy, vicecomandante della Mediterranean Fleet della Royal Navy, aveva ricevuto ordine, dal suo governo, di assumere il comando del grosso delle unità navali della sua flotta e di incrociare nel Tirreno e nel canale di Sicilia, effettuando frequenti scali nei porti siciliani, oltre che a scopo intimidatorio, come riporta Alberto Santoni[101], e di raccolta di informazioni, anche al fine di attenuare la capacità di reazione borbonica, come sostiene Roberto Martucci[102].

Al momento dello sbarco a Marsala, erano presenti due navi da guerra britanniche nei pressi della costa. L’Argus e l’Intrepid, i due vascelli inglesi, giunsero circa tre ore prima della comparsa delle navi Piemonte (a bordo della quale si trovava Garibaldi) e Lombardo[103]. E' tuttora controverso il motivo della presenza delle imbarcazioni inglesi a Marsala[104], diversi storici revisionisti e fonti sia coeve che moderne danno per certo che essa fosse diretta ad appoggiare lo sbarco dei garibaldini[105][106][107][108]. Secondo D. M. Smith, le navi borboniche arrivarono a distanza di tiro quando i garibaldini erano tutti sbarcati[109].

È tuttavia assodato che, dopo lo sbarco, vi fu a tal proposito un dibattito nel parlamento della Gran Bretagna, durante il quale il deputato Sir Osborne accusò le imbarcazioni britanniche di aver favorito l'approdo di Garibaldi a Marsala[110]. La risposta alla domanda di Orsborne che chiedeva se corrispondesse a verità, quanto riportato in articoli di giornali, posta al governo inglese nella seduta parlamentare del 21 maggio 1860[111] venne data da Lord Russell che, ricostruì la vicenda basandosi anche sul dispaccio telegrafico spedito dall'ufficiale in capo dell'Intrepid ricevuto dall'ammiragliato; nella sua risposta venne indicato che da quando correva la voce di una possibile insurrezione siciliana e del progetto della spedizione di Garibaldi i numeroso sudditi inglesi aventi case e interessi commerciali a Marsala (come i magazzini vinicoli di Woodhouse e Ingham.[110]) avessero chiesto al ministero degli esteri e all'ammiraglio Fanshawe[112] la protezione con invio di navi, a tale scopo Fanshawe dispose l'invio dei due vascelli che arrivarono a Marsala. Mentre era in corso lo sbarco dei garibaldini una fregata ed un vapore della marina militare napoletana si avvicinarono a Marsala, ma si astennero dallo sparare sulle navi garibaldine e sugli uomini durante lo sbarco, per quanto l'ufficiale dell'Intrepid affermasse che avessero l'opportunità di far fuoco su entrambi gli obiettivi. Successivamente allo sbarco il comandante del vapore napoletano chiese a Marryatt, comandante dell'Intrepid di prendere possesso dei due vascelli, l'ufficiale inglese rifiuto' non avendo ricevuto istruzioni contrarie all'ordine di condotta del governo inglese di mantenersi neutrale. Lord Russell aggiunse che sembrerebbe che il comandante napoletano avesse chiesto il richiamo a bardo dei vascelli inglesi degli ufficiali eventualmente a terra, richiesta prontamente accetta ed eseguita con l'innalzamento dell'apposito segnale sul pennone, dopo l'imbarco degli ufficiali inizio' il bombardamento da parte delle due navi borboniche; questa richiesta, secondo Lord Russell potrebbe essere interpretabile come un atto di cortesia internazionale da parte dell'ufficiale borbonico ma rimarco' non implicasse che le due navi inglesi si opponessero al suo fuoco. Il rappresentante inglese concluse la sua risposta affermando che non risultava che l'ufficiale inglese abbia ecceduto nello svolgere suo dovere, e trovandosi cola' per proteggere gli interessi britannici nulla fece di più[113].

Xilografia dell'Illustrated London News raffigurante una folla festante durante il passaggio di Garibaldi nel corso del suo soggiorno londinese del 1864.

Lo stesso Garibaldi, durante il suo viaggio in Inghilterra compito nel 1864, il 16 aprile durante un pubblico discorso al Crystal Palace Londra, ove era invitato dal Comitato Italiano, ringrazio' ampiamente l'Inghilterra per l'aiuto ricevuto: «... L'Inghilterra ci ha aiutato nei buoni e cattivi giorni. Il popolo inglese ci presto' assistenza nella guerra dell'Italia meridionale, ed anche ora gli ospizi di Napoli sono in gran parte mantenuti dalle largizioni mandate da qui. ... Se non fosse stato per l'Inghilterra gemeremmo tuttavia sotto il giogo dei Borboni di Napoli. Se non fosse stato pel governo inglese, non avrei mai potuto passare lo stretto di Messina. Concittadini il nostro arrivo a Napoli sarebbe stato impedito, se fosse stato possibile, dagli stessi despoti che oggi si sforzano di schiacciare la povera e piccola Danimarca[114]. ... » e, dopo altre frasi inneggianti all'Inghilterra concludeva il discorso promettendo che sarebbe stato pronto contraccambiare l'aiuto ad accorrere per assistere l'Inghilterra, se questa fosse stata attaccata e invasa da un nemico[115]. ,[116]

L'inventore statunitense Samuel Colt, affiliato alla loggia massonica "St John's" del Connecticut,[99] offrì all'esercito garibaldino 100 armi da fuoco che comprendevano rivoltelle e carabine, approfittando di poter pubblicizzare i suoi prodotti.[117] Dopo la conquista della Sicilia, Garibaldi sembrò soddisfatto delle armi fornite ed acquistò da Colt 23.500 moschetti al costo di circa 160.000 dollari.[117] Garibaldi inviò poi una lettera di ringraziamento all'inventore americano e Vittorio Emanuele II gli donò una medaglia d'oro.[117]

Il tradimento degli ufficiali borbonici modifica

Gli autori revisionisti sostengono che in aggiunta del supporto britannico e americano, i Mille ebbero dalla loro parte il rinnegamento di numerosi ufficiali delle Due Sicilie, reso possibile soprattutto dalle sovvenzioni finanziarie dell'Inghilterra. I franchi, che sarebbero stati forniti dai britannici furono convertiti in piastre turche (la moneta usata a quel tempo nel commercio internazionale) e sarebbero stati sfruttati in gran parte per garantire ai traditori il reclutamento nell'esercito del nuovo Stato, conservando il grado, le qualifiche, i comandi e lo stipendio. La formula andò a buon fine e i garibaldini avrebbero avuto dalla loro parte circa 2300 ufficiali[118][119].

Un esempio è quello di Tommaso Clary, comandante del forte di Milazzo, che, secondo Giuseppe Buttà, "fu vile o traditore".[120]

Un altro ufficiale accusato di tradimento fu Guglielmo Acton, nipote di John e cugino di secondo grado di Lord Acton. Con il grado di capitano di fregata, Acton era comandante della corvetta Stromboli[121], una delle navi della flotta borbonica che, nella mattinata dell'11 maggio 1860, avevano l'incarico di dare la caccia ai due vapori piemontesi che i servizi borbonici avevano indicato trovarsi nel tratto di mare compreso tra Trapani e Sciacca e che non contrastarono, se non con forte ritardo[122], lo sbarco dei Mille a Marsala. L'Acton fu sottoposto ad inchiesta per il suo comportamento durante lo sbarco; il giudizio della commissione della marina napoletana sulla sua condotta fu che essa era stata «irreprensibile»; comunque fu sospeso per due mesi finché venne assegnato al Monarca in armamento presso il cantiere navale di Castellammare di Stabia.[123] Dopo l'Unità, Guglielmo Acton fu nominato ammiraglio del Regno d'Italia divenendone, in seguito, anche senatore e Ministro della Marina del Governo Lanza (14 dicembre 1869 - 10 luglio 1873) dal 15 gennaio 1870 al 5 agosto 1872.

La battaglia di Calatafimi, dipinta sovente dalla storiografia come un'eroica impresa garibaldina, secondo i revisionisti fu solamente una farsa. Il generale borbonico Francesco Landi fu colpevole, secondo Buttà, di una vergognosa condotta dopo il fatto d'armi di Calatafimi che «...segno' la caduta della Dinastia delle Due Sicilie».[120] Nonostante la netta superiorità numerica del suo esercito, Landi ritirò le proprie truppe dal campo di battaglia, permettendo ai Mille di poter avanzare senza troppi disagi a Palermo.[124] Accusato di tradimento, fu destituito e confinato ad Ischia per ordine di Francesco II. Landi morì il 2 febbraio 1861, si sostiene di crepacuore per essere stato ingannato dai garibaldini, i quali gli avrebbero promesso una somma di 14.000 ducati depositata al Banco di Napoli ma, in realtà, ne avrebbe trovati solo 14.[125]

L'elargizione di denaro da parte di emissari sabaudi è ben documentata anche nelle pagine del diario del conte Carlo Pellion di Persano. L'ammiraglio e futuro ministro della Marina, infatti, fu tra i mandatari di Cavour che ebbero il compito di assicurarsi i servigi, non solo degli ufficiali borbonici, ma anche di esponenti della nobiltà e della classe politica meridionale[126]. Il 6 agosto 1860, nel suo diario, costui così sintetizza la parte conclusiva di una missiva scritta al primo ministro piemontese: Termino col dargli la buona notizia che possiamo oramai far conto sulla maggior parte dell'ufficialità della regia marina napoletana[127]. In sostanza il Persano poteva disporre di grosse cifre da adoperare per foraggiare i sostenitori della causa unitaria sebbene spesso si fosse trovato a fare i conti con la cupidigia di alcuni di essi: Ho dovuto Eccellenza somministrare altro denaro. Ventimila ducati al Devincenzi, duemila al console Fasciotti, giusta invito del marchese di Villamarina, e quattromila al comitato. Sebbene tutto questo sia fatto secondo le formole, che ho stabilite, perché non un soldo passi per le mie mani, pure questa faccenda di denaro m'intisichisce[128].

Critiche al revisionismo complottista del Risorgimento modifica

L'approccio revisionista al Risorgimento è stato nel corso degli anni oggetto di critiche da parte di esponenti del mondo accademico e giornalistico. Il revisionismo del Risorgimento è tuttora oggetto di critiche da parte di personalità di diversa estrazione. Uno dei più noti detrattori è lo storico Ernesto Galli della Loggia, che controbatte su diverse asserzioni esposte dai revisionisti. Galli della Loggia nega il depauperamento del Sud dopo l’Unità e sostiene che il divario tra settentrione e meridione, al 1860, era già esistente.[129] Egli ha contestato una scarsa presenza di vie di comunicazione nel regno borbonico e ha definito la ferrovia Napoli-Portici "un giocattolo del re", giudicandola inferiore alla Torino-Genova o alle ferrovie costruite dagli austriaci in Lombardia.[129] Egli giustifica questo suo giudizio affermando che collegare Napoli con Portici non avrebbe potuto in alcun modo favorire l'economia, non solo per l'estrema brevità della ferrovia in sé, lunga pochi chilometri, ma soprattutto perché Portici non era una zona produttiva, ma solo una zona residenziale. Si è espresso negativamente sulla politica economica adottata dai Borbone in Sicilia, da lui giudicata "coloniale".[129] Lo storico ha inoltre smentito una componente anticattolica nel Risorgimento, considerandola invece "laicista, più o meno massonica".[129]

Francesco Perfetti, professore di storia contemporanea presso la Libera università internazionale degli studi sociali Guido Carli (Luiss) di Roma, ha dichiarato che la parola revisionismo dovrebbe essere eliminata perché si sarebbe caricata di una valenza politica e ideologica, suggerendo ai revisionisti cattolici di valutare il risorgimento con i criteri dello storicismo critico nel quadro europeo.[130]. Tra gli oppositori della tesi revisionista vi è anche il giornalista Giorgio Bocca, che ha definito "una balla" l'immagine di un Mezzogiorno fiorente depredato dal Nord e che la sua povertà risale a secoli prima dell'unità.[131] Bocca ha inoltre considerato "insensati" i movimenti meridionali, analogamente a quello leghista.[131]

Il giornalista Sergio Romano parla di un "travisamento nazionale". Egli ha dichiarato:

«Per unanime consenso dell'Europa d'allora il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta. La «guerra del brigantaggio» non fu il fenomeno criminale descritto dal governo di Torino, ma neppure una guerra di secessione come quella che si combatteva negli Stati Uniti in quegli stessi anni. Fu una disordinata combinazione di rivolte plebee e moti legittimisti conditi da molto fanatismo religioso e ferocia individuale. La classe dirigente unitaria fece una politica che favoriva le iniziative industriali del Nord perché erano allora le più promettenti, e non fece molto, almeno sino al secondo dopoguerra, per promuovere lo sviluppo delle regioni meridionali. Ma il Sud si lasciò rappresentare da una classe dirigente di notabili, proprietari terrieri, signori della rendita e sensali di voti, più interessati a conservare il loro potere che a migliorare la sorte dei loro concittadini.»

Critiche sono state mosse anche da Sergio Boschiero, segretario dell'Unione Monarchica Italiana, che ha denunciato il pericolo di un "revisionismo senza storici", mirante a demolire il mito risorgimentale. Secondo il movimento monarchico, sono stati analizzati alcuni testi di sedicenti storici che, attraverso la stampa, spargono odio in funzione antinazionale.[133]

Un attacco diretto contro il revisionismo venne formulato da Alessandro Galante Garrone, nell'editoriale "Ritornano gli sconfitti dalla storia", pubblicato in prima pagina sulla La Stampa il 27 settembre 2000, accompagnato dalla firma di 56 intellettuali e scritto a seguito di una mostra sul brigantaggio tenuta nell'annuale meeting di Rimini di Comunione e Liberazione. In esso Garrone afferma che questa revisione si traduce in una distorsione della realtà storica, divenendo una provocazione inaccettabile per l'Italia civile accompagnata dall'esaltazione delle forze sanfediste all'interno di un'aggressione più vasta contro i "principi laici e liberali che costituiscono una parte fondante della Costituzione repubblicana"[134] connessa a un "rifluire di ideologie reazionarie, di speranze di rivincita di sconfitti dalla storia".

Anche Emilio Gentile non risparmia critiche a questa revisione storiografica e rispondendo alla domanda che un intervistatore gli fa su Giacinto de' Sivo e Giuseppe Spada rileva: «Qui ci muoviamo nell'ambito della libellistica reazionaria...si tratta di una letteratura poco rilevante dal punto di vista storiografico...» e chiudendo il suo intervento ne mette in luce i risvolti propagandistici e l'assenza di serietà scientifica: «Però ripeto, siamo in ambito propagandistico, che non ha alcuna serietà scientifica.»[135].

Indro Montanelli, forte critico del revisionismo del Risorgimento, scrive nella sua Storia d'Italia:«[...] il Piemonte era di gran lunga, tra gli stati italiani, il più florido, il meglio amministrato e il più efficiente. Alcuni meridionalisti hanno sostenuto e sostengono che questo primato spettava al Regno delle due Sicilie [...], e citano a riprova il fatto che fu Napoli, e non Torino a inaugurare la prima ferrovia. Questa ferrovia però, che si snodava per poche decine di chilometri, rimase unica o quasi, mentre il Piemonte ne costruiva per 850 chilometri. Quanto al bilancio, mentre Napoli badava a tenerlo in attivo con una politica di tesaurizzazione che lasciava il paese senza strade, senza scuole, senza servizi, Torino aggravava il disavanzo, ma per potenziare l'agricoltura e ammodernare l'industria rendendola competitiva con quella straniera»[136]. Ciononostante, Montanelli era anche critico nei confronti della storiografia maggiormente diffusa, ritenendo "falso" il Risorgimento studiato nelle scuole[137].

Nel maggio 2010, il presidente della repubblica Giorgio Napolitano, durante le celebrazioni per l'unità d'Italia a Marsala, ha invitato a non «ripescare le vecchissime tesi, non degne di un approccio serio alla riflessione storica, di un Mezzogiorno ricco, economicamente avanzato a metà Ottocento che con l’Unità sarebbe stato bloccato e spinto indietro sulla via del progresso»[138].

Note modifica

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  11. ^ Da noi il popolo minuto aveva sempre considerato i piemontesi non come italiani ma come stranieri, non gente della nostra terra ma invasori, saraceni, turchi, austriaci o francesi che fossero. Solo i signori erano italiani, ma per gli interessi loro. Un esercito d'occupazione, insomma, con le sue crudeltà, i suoi saccheggi, le case distrutte, le donne violentate a forza. Carlo Alianello, La conquista del Sud, Rusconi, 1972, p.229
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  49. ^ È famoso a tal proposito il commento del console inglese a Napoli all'atto della sua salita al trono, che individuava la necessità di "dargli [a Ferdinando II] qualche salutare lezione in proposito"
  50. ^ L'espressione si riferisce al fatto che la sicurezza del Regno delle Due Sicilie era garantita dall'essere protetto a nord dallo Stato della Chiesa, ai tempi considerato intangibile, e da tutti gli altri lati dal mar Mediterraneo, che era protetto dalla flotta militare
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  84. ^ Raffaele De Cesare, La fine di un regno: Ferdinando II, S. Lapi, 1909, p.68
  85. ^ Carlo Alianello, La conquista del sud, Rusconi, 1972, p.25
  86. ^ Il richiamo alle affermazioni di Petruccelli è utilizzato da Acton per sottolineare come i liberali napoletani restarono coesi fintantoché fu in vita Ferdinando II, «principale bersaglio dei loro strali», ma, morto quest'ultimo, furono incapaci di una seria azione politica finendo per scagliarsi «l'uno contro l'altro per sbranarsi». Harold Acton, p. 4
  87. ^ Cotugno (lettere), p. 34
  88. ^ Angela Pellicciari, 2000,  p. 188
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  90. ^ a b Angela Pellicciari, 2000,  p. 190
  91. ^ vedi pag 700 Alfredo Comandini, L'Italia nei cento anni del secolo XIX (1801-1900) giorno per giorno illustrata, Volume 3, A. Vallardi, 1918
  92. ^ vedi pag 702 Alfredo Comandini, L'Italia nei cento anni del secolo XIX (1801-1900) giorno per giorno illustrata, Volume 3, A. Vallardi, 1918
  93. ^ Pietro Corelli, La stella d'Italia; o, Nove secoli di Casa Savoia, Vol. 5, Milano, Alessandro Ripamonti Editore, 1863, p. 388. ISBN non esistente
  94. ^ In Gran Bretagna, infatti, le pene corporali stabilite dai tribunali non erano infrequenti.
  95. ^ Intervista ad Arrigo Petacco autore del ”Il Regno del Sud”, in www.giornale.ms. URL consultato il 03-11-2010.
  96. ^ a b Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia, Piemme Editore, Milano, 1998, p. 36.
  97. ^ a b c Aldo Servidio, L'imbroglio nazionale, Napoli, 2000, p. 65.
  98. ^ Rosario Romeo, Vita di Cavour, Bari, Giuseppe Laterza & Figli, 2004, p. 327, ISBN 88-420-7491-8.
  99. ^ a b Errore nelle note: Errore nell'uso del marcatore <ref>: non è stato indicato alcun testo per il marcatore viglione
  100. ^ Errore nelle note: Errore nell'uso del marcatore <ref>: non è stato indicato alcun testo per il marcatore Lorenzo Del Boca 1998, p.61
  101. ^ Alberto Santoni, Storia e politica navale dell'età moderna: XV-XIX secolo, Roma, Ufficio storico della marina militare, 1998, pag. 305.
  102. ^ Roberto Martucci, L'invenzione dell'Italia unita: 1855-1864, Firenze, Sansoni, 1999, pag. 165, ISBN 88-383-1828-X.
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  104. ^ > Giuseppe Pandolfo, Una Rivoluzione tradita:da Marsala a Bronte, Italo-Latino-Americana Palma, 1986.
  105. ^ Félix Dupanloup, La sovranitá del Pontefice secondo il diritto cattolico e il diritto europeo, Tipografia Monaldi, 1861, pag. IV.
  106. ^ Andrea Carteny, Contro l'unità d'Italia, di Pierre Joseph Proudhon, Miraggi Edizioni, 2010, pag. 12.
  107. ^ Angelo Tamborra, Garibaldi e l'Europa, Roma, Stato maggiore dell'Esercito, Ufficio storico, 1983, pag. 27.
  108. ^ Francesco Protonotari, Nuova antologia, Vol. 548-549, Direzione della Nuova Antologia, 1982, pag. 61.
  109. ^ pag. 88 D. M. Smith, Garibaldi, una grande vita in breve, Lerici, 1966
  110. ^ a b Editori Vari, Cronaca degli avvenimenti di Sicilia da aprile 1860 a marzo 1861, Harvard College Library, 1863, p.80, cit.:«Nella camera de' comuni d' Inghilterra il deputato sir Osborne accusa i legni inglesi di aver favorito lo sbarco di Garibaldi a Marsala : il ministro lord Russell fa una risposta, in ogni parola della quale si può desumere qualche spiegazione sullo spirito della politica inglese ne' fatti di Sicilia.»
  111. ^ pagg. 42-43 in Giuseppe da Forio, Storia di Giuseppe Garibaldi - Volume secondo - Documenti, Napoli, Stabilimento tipografico Perrotti, 1870
  112. ^ Comandante la flotta inglese nel Mediterraneo
  113. ^ Il testo integrale dell'interpellanza e' riportato, numerato come doc. 23 pagg. 42-43 in Giuseppe da Forio, Storia di Giuseppe Garibaldi - Volume secondo - Documenti, Napoli, Stabilimento tipografico Perrotti, 1870.
  114. ^ In quel anno la Danimarca venne attaccata da Austria e Prussia
  115. ^ pagg. 906-907 in Giuseppe da Forio, Vita di Garibaldi, Napoli, Stabilimento tipografico Perrotti, 1870(?)
  116. ^ Patrick Keyes O'Clery, L'Italia dal Congresso di Parigi a Porta Pia, Roma, 1980, p.118.
  117. ^ a b c Herbert G. Houze, Samuel Colt: arms, art, and invention, Yale University Press, 2006, p.187.
  118. ^ Errore nelle note: Errore nell'uso del marcatore <ref>: non è stato indicato alcun testo per il marcatore Lorenzo Del Boca 1998, p. 61
  119. ^ Errore nelle note: Errore nell'uso del marcatore <ref>: non è stato indicato alcun testo per il marcatore autogenerato1
  120. ^ a b Errore nelle note: Errore nell'uso del marcatore <ref>: non è stato indicato alcun testo per il marcatore Buttà
  121. ^ Raffaele De Cesare, La fine di un regno, Vol. 2, Città di Castello, Scipione Lapi, 1909, pag. 233.
  122. ^ Gigi Di Fiore, Controstoria dell'unità d'Italia: fatti e misfatti del Risorgimento, Napoli, Rizzoli Editore, 2007, pag. 114, ISBN 88-17-01846-5.
  123. ^ * Carlo Agrati, I mille nella storia e nella leggenda, Milano, Mondadori, 1933, p. 172. ISBN non esistente
  124. ^ Lorenzo Del Boca, Indietro Savoia!, Milano, 2003, p. 78-79.
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  126. ^ Angela Pellicciari, Risorgimento da riscrivere: liberali & massoni contro la Chiesa, Roma, Edizioni Ares, 1998, p. 314, 88-8155-156-X.
  127. ^ Carlo Pellion di Persano, La presa di Ancona: Diario privato politico-militare (1860), Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1990, p. 91, ISBN 88-7692-210-5. URL consultato il 23 febbraio 2011.
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  133. ^ Sergio Boschiero ha chiuso il 62° ciclo di conferenze del circolo Rex, in www.monarchia.it. URL consultato l'08-01-2011.
  134. ^ Francesco Mario Agnoli, Dossier brigantaggio, p.21.
  135. ^ Entrambe le citazioni sono tratte da: Emilio Gentile, Italiani senza Padre, Intervista sul Risorgimento, Roma-Bari, Laterza, 2011, pag. 117 e 118, ISBN 978-88-420-9499-9.
  136. ^ Indro Montanelli, Storia d'Italia, vol. 30, Fabbri editori, p. 178.
  137. ^ La guerra contro il brigantaggio, insorto contro lo Stato unitario, costò piú morti di tutti quelli del Risorgimento. Abbiamo sempre vissuto dei falsi: il falso del Risorgimento che assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola (Indro Montanelli), citato in Stefano Preite, Il Risorgimento, ovvero, un passato che pesa sul presente, P. Lacaita, 2009
  138. ^ Napolitano:"Penoso liquidare l'Unità d'Italia, su ilgiornale.it, Il Giornale, 11-5-2010.

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