Biennio rosso in Italia

eventi del biennio 1919-20
Voce principale: Biennio rosso in Europa.

Il biennio rosso in Italia è il periodo della storia d'Italia compreso fra il 1919 e il 1920, caratterizzato da una serie di lotte operaie e contadine che ebbero il loro culmine e la loro conclusione con l'occupazione delle fabbriche nel settembre 1920[1].

Biennio rosso in Italia
parte del Biennio rosso in Europa e delle rivoluzioni del 1917-1923
Settembre 1920: a Milano operai armati occupano le fabbriche dell'Alfa Romeo
Data1919 - 1920
LuogoItalia
CausaCrisi economica ed elevata povertà causate dalla prima guerra mondiale
EsitoFine pacifica o soppressione violenta delle rivolte
Schieramenti
Rivoluzionari
Consigli dei lavoratori
Milizie di sinistra
Italia Italia
Milizie di destra
Voci di sommosse presenti su Wikipedia

In tale periodo si verificarono, soprattutto nell'Italia centro-settentrionale, mobilitazioni contadine, tumulti annonari, manifestazioni operaie, occupazioni di terreni e fabbriche con, in alcuni casi, tentativi di autogestione. Le agitazioni si estesero anche alle zone rurali e furono spesso accompagnate da scioperi, picchetti e scontri. Una parte della storiografia estende la locuzione ad altri paesi europei, interessati, nello stesso periodo, da analoghi moti[2].

L'espressione "biennio rosso" entrò nell'uso comune già nei primi anni venti, con accezione negativa; venne infatti utilizzata da pubblicisti di parte borghese per sottolineare il grande timore suscitato, nelle classi possidenti, dalle lotte operaie e contadine che ebbero luogo nel 1919-20, e quindi per giustificare la reazione fascista che ne seguì[1]. Negli anni settanta, il termine "biennio rosso", questa volta con connotazioni positive, venne ripreso da una parte della storiografia, politicamente impegnata a sinistra, che incentrò la sua attenzione sulle agitazioni del 1919-20, considerandole come uno dei momenti di più forte scontro di classe e come esperienza esemplare nella storia delle relazioni che intercorrono fra l'organizzazione della classe operaia e la spontaneità delle sue lotte[1].

La crisi economicaModifica

 
Manifestazione di protesta organizzata dall'"Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra".

L'economia italiana si trovava in una situazione di grave crisi, iniziata già durante la guerra e che si protrasse a lungo; infatti, nel biennio 1917-1918 il reddito nazionale netto era sceso drasticamente, e rimase, fino a tutto il 1923, ben al di sotto del livello d'anteguerra[3], mentre il tenore di vita delle classi popolari era, durante la guerra, nettamente peggiorato; secondo una statistica, fatto pari a 100 il livello medio dei salari reali nel 1913, questo indice era sceso a 64,6 nel 1918[4]. Nell'immediato dopoguerra si verificarono inoltre un ingentissimo aumento del debito pubblico[5], un forte aggravio del deficit della bilancia dei pagamenti[6], il crollo del valore della lira[7] e un processo inflattivo che portò con sé la repentina diminuzione dei salari reali[6]. Il peggioramento delle condizioni di vita delle classi popolari (già duramente provate dalla guerra) fu la causa immediata dell'ondata di scioperi e di agitazioni, iniziata nella primavera del 1919, alla quale non rimase estranea nessuna categoria di lavoratori, sia nelle città sia nelle campagne, compresi i pubblici dipendenti, cosicché l'anno 1919 totalizzò complessivamente in Italia oltre 1 800 scioperi economici e più di 1 500 000 scioperanti[6].

Mentre gli operai scioperavano prevalentemente per ottenere aumenti salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro (la riduzione dell'orario di lavoro a otto ore giornaliere fu ottenuta, nelle grandi industrie, nell'aprile 1919)[8], gli scioperi nelle campagne, che coinvolsero nel 1919 più di 500 000 lavoratori, ebbero obiettivi diversi a seconda delle categorie: i sindacati dei braccianti lottavano per ottenere il monopolio del collocamento e l'imponibile di manodopera, mentre mezzadri e salariati fissi cercarono di ottenere dalla proprietà terriera nuovi patti a loro più favorevoli; contemporaneamente si verificarono, soprattutto nel Lazio e nel meridione, importanti lotte per l'occupazione delle terre incolte da parte di braccianti agricoli, coloni e contadini piccoli proprietari[9]. Si ebbe un'ondata di moti contro il carovita (in Toscana ricordati come "Bocci-Bocci") che attraversò tutta la penisola tra la primavera e l'estate del 1919, cui il governo non riuscì a mettere un freno.

Il reducismoModifica

Come in tutta l'Europa post-bellica, anche in Italia gli ex combattenti, costituiti in proprie associazioni, divennero un elemento importante del quadro politico. Le associazioni di reduci in Europa erano caratterizzate da alcune istanze comuni a tutte: la difesa del prestigio internazionale del proprio paese e la rivendicazione di importanti riforme politiche e sociali[10].

In Italia gli orientamenti politici degli ex combattenti furono vari. Solo una minoranza aderì ai Fasci di combattimento fondati da Mussolini nel 1919; molti di più furono i reduci che diedero il proprio consenso alle idealità democratiche espresse dai "quattordici punti" del presidente statunitense Woodrow Wilson; l'Associazione Nazionale Combattenti, nel suo congresso di fondazione che ebbe luogo nell'aprile 1919, propose l'elezione di un'Assemblea Costituente che avrebbe avuto il compito di deliberare un nuovo assetto democratico dello Stato. Una parte della storiografia ha ritenuto che l'incomprensione e l'ostilità, che il Partito Socialista riservò in quegli anni alle istanze espresse dai reduci, abbiano contribuito a spingere questi ultimi a destra, verso il nazionalismo e il fascismo[11]. Un'altra parte della storiografia ha rilevato, tuttavia, che l'atteggiamento socialista di opposizione alla guerra era in continuità con il pacifismo e il neutralismo che tale partito aveva già espresso prima e durante il grande conflitto, atteggiamento che era d'altronde largamente condiviso dai suoi elettori e che il partito molto difficilmente avrebbe potuto sconfessare a guerra finita[12]. Peraltro, sia nel 1915 sia nel 1919 l'orientamento neutralista (che fosse di matrice cattolica, giolittiana o socialista) era quello ampiamente maggioritario in Italia, cosicché l'interventismo e il bellicismo finirono per assumere più facilmente un carattere antidemocratico[13].

Due furono, comunque, i principali orientamenti politici nei quali si articolò il movimento degli ex combattenti: uno più radicale, che trovò espressione nell'associazione degli arditi e nei nazionalisti estremisti come D'Annunzio, Marinetti e Mussolini; e un secondo orientamento più moderato, rappresentato dalla Associazione Nazionale Combattenti, la quale in politica estera non condivideva lo sciovinismo dei nazionalfascisti mentre in politica interna era piuttosto vicina alle posizioni di Nitti e di Salvemini[14].

Gli ex combattenti furono anche protagonisti, in quegli anni, di importanti lotte sociali, soprattutto nell'Italia meridionale: specialmente in Calabria, in Puglia e nel centro-ovest della Sicilia ebbero luogo rilevanti occupazioni di terre già facenti parti di latifondi, per un'estensione che è stata stimata fra i quarantamila e i cinquantamila ettari nel biennio 1919-20; questi movimenti furono spesso guidati dalle associazioni dei reduci, a differenza dell'Italia settentrionale, dove i moti contadini ebbero prevalente carattere bracciantile e furono perlopiù egemonizzati dai socialisti[15].

Riflessi in Italia della rivoluzione russaModifica

La Rivoluzione russa che nel marzo 1917 aveva portato alla costituzione del Governo Provvisorio Russo sotto la guida di Aleksandr Kerenskij aveva subito ottenuto il sostegno morale dei socialisti italiani e dell'Avanti! che in essa intuivano già gli ulteriori sviluppi[16]. L'Avanti! il 19 marzo scrisse: "la bandiera rossa issata dal proletariato di Pietrogrado ha ben altro significato che un'adesione delle masse della Russia lavoratrice alla presente situazione creata dagli imperialismi di tutti i paesi"[17]. La notizia degli avvenimenti russi giunse in Italia in un momento particolarmente difficile, sia sul fronte militare sia nel settore economico e già alla fine di aprile in parte ispirarono disordini soprattutto a Milano causati dalla carenza del riso[18]. I socialisti accentuarono la richiesta di arrivare alla pace ma aggiungendo anche espliciti inviti alla ribellione[19]. Ad agosto a Torino, in occasione della visita di una delegazione russa in Italia, vi furono manifestazioni di operai che accolsero i delegati al grido di "Viva Lenin"[19] e che in poche settimane raggiunsero il culmine con la più violenta sommossa registrata in Italia durante la guerra[20]. I moti ebbero luogo fra il 22 e il 27 agosto e si chiusero con un bilancio di circa cinquanta morti fra i rivoltosi, circa dieci fra le forze dell'ordine e circa duecento feriti; vi furono un migliaio di arrestati; di essi, varie centinaia furono condannati alla reclusione in carcere[21]. La sommossa di Torino, indubbiamente spontanea in quanto causata dalla contingente mancanza di pane, era comunque frutto della intensa propaganda socialista[22] e della sconfitta del Regio Esercito nella battaglia di Caporetto aprì scenari che avrebbero favorito una rivoluzione in Italia[23]. L'esaltazione di Lenin e della Russia, che fece molta presa sulla classe operaia dell'epoca, fu soprattutto dovuta al direttore dell'Avanti! Giacinto Menotti Serrati e la rivoluzione russa, presso i massimalisti, fu considerata "uno sbocco necessario della situazione italiana"[24], ma in realtà i dirigenti socialisti davanti a una massa in parte politicizzata non avevano idea di come dirigerla e dopo averla fomentata tentarono inutilmente di ricondurla alla legalità[25]. Inoltre, il Partito Socialista nell'ultimo anno di guerra accentuò le proprie divisioni interne e anche alla sua sinistra nacque una corrente "intransigente rivoluzionaria" che scavalcò anche i massimalisti a sinistra mentre l'ala riformista di destra a seguito di Caporetto sentì il dovere di sostenere lo sforzo bellico contro l'invasione nemica[26]. Note sono le parole del leader riformista Filippo Turati al Parlamento: "L'onorevole Orlando ha detto: Al Monte Grappa è la Patria. A nome dei miei amici ripeto: Al Monte Grappa è la Patria"[27]. La Rivoluzione d'ottobre in Russia in ogni caso rafforzò la corrente massimalista, ma soprattutto quella intransigente del Partito Socialista che aveva i suoi principali centri a Roma, Torino, Milano, Napoli e Firenze e di cui divenne la vera e propria avanguardia[28].

Il Congresso di Roma del 1°-5 settembre 1918 sancì ufficialmente la nuova linea politica del Partito Socialista che avrebbe dovuto "esplicarsi esclusivamente sul terreno della lotta di classe" ed espulsione dal partito per chi "renda omaggio alle istituzioni monarchiche, partecipi od indulga a manifestazioni patriottiche o di solidarietà nazionale"[29].

Alla fine della prima guerra mondiale e per buona parte del 1919 il peso dei socialisti intransigenti si manifestò più apertamente guadagnando sempre più posizioni. A Torino il PSI locale è guidato da Giovanni Boero, leader locale degli intransigenti, a Napoli divenne una figura di spicco Amadeo Bordiga, che fondò il suo settimanale Soviet, a Roma è "intransigente" la federazione giovanile[30]. Su posizioni estreme è anche il settimanale La Difesa di Firenze, città che il 9 febbraio 1919 vide la vittoria del gruppo intransigente all'interno della federazione socialista, così come a Milano l'11 marzo, nonostante che sindaco della città fosse il socialista moderato Emilio Caldara[31]. Il prevalere degli intransigenti all'interno del Partito Socialista comportò una radicalizzazione delle posizioni e parole come "Repubblica socialista" e "Dittatura del proletariato" furono sempre più spesso usate[32]. Le tesi di Lenin sulle guerre, viste solo come lotte tra imperialismi destinate infine a rinforzare esclusivamente le forze della reazione, evidenziano come lo scontro a questo punto per i socialisti possa essere solo tra "conservazione" e "rivoluzione"[33].
Un ruolo di rilievo nel radicalizzare le mobilitazioni popolari lo ebbe anche il rientro in Italia (dicembre 1919) dell'agitatore anarchico Errico Malatesta (salutato dalle folle come il "Lenin italiano")[34], la nascita a Milano (febbraio 1920) del quotidiano anarchico Umanità Nova, da lui diretto, e la nascita dell'Unione anarchica italiana[35].

La reazione antisocialistaModifica

 
Copia de L'Ardito, rivista fondata da Ferruccio Vecchi. L'assalto all'Avanti! assunse una valenza fondante nell'immaginario antisocialista[36]

La radicalizzazione delle posizioni politiche socialiste polemiche con la guerra appena conclusa giocava inoltre a favore delle organizzazioni nazionaliste che si ersero a difesa della vittoria e a custodi dell'ordine[37]. L'antisocialismo dei nazionalisti, ribattezzato "antibolscevismo", che seppur avesse radici più lontane, trovò nuova linfa nell'ostilità dimostrata dai socialisti nei confronti della "Vittoria" di una Patria definita come un'"inganno borghese"[38] rendendo presso i nazionalisti il concetto di patriottismo indissolubilmente legato a quello di antisocialismo[38]. Per tutto il 1918 e fino alla seconda metà di febbraio del 1919, a parte sporadiche polemiche antisocialiste, non vi fu un'effettiva contrapposizione. Le cose cambiarono il 16 febbraio 1919, dopo che un imponente corteo socialista svoltosi a Milano sfilò ordinato per il centro cittadino. Le forze interventiste reagirono chiamando all'unità di tutti i gruppi nazionalisti e Mussolini su Il Popolo d'Italia pubblicò un duro articolo intitolato "Contro la bestia ritornante..."[39]. Le manifestazioni socialiste cominciarono a moltiplicarsi e oltre alla polemica contro la guerra si aggiunse la polemica contro i "combattenti" e sempre più presente divenne l'esaltazione di Lenin e del Bolscevismo[40] che unita alla violenza verbale dei giornali socialisti e dell'Avanti! con dichiarazioni di guerra allo "Stato borghese" mischiate all'esaltazione della Rivoluzione d'Ottobre mettevano in allarme gli organi dello Stato[41].

La contrapposizione tra socialisti e interventisti scoppiò violenta a Milano il 15 aprile 1919 dopo una giornata di scontri, che culminò nell'assalto squadrista all'Avanti! tra manifestanti del Partito Socialista e contromanifestanti, arditi, futuristi (vicini agli anarchici) e i primi elementi fascisti dei neocostituiti Fasci italiani di combattimento che si fecero notare per la prima volta a livello nazionale[42]. A partire dalla primavera del 1919 si costituirono numerose associazioni patriottiche e studentesche, di reduci oppure nazionaliste tutte accomunate dall'antisocialismo le quali iniziano a manifestare, pubblicare riviste oppure a organizzare riunioni[43]. Alle associazioni combattentistiche antisocialiste, oltre alle formazioni più audaci e a carattere volontario degli arditi, presero parte soprattutto reduci animati anch'essi da patriottismo che si sentivano offesi dalle offensive svalutazioni fatte dall'Avanti![44][45].

Il Governo NittiModifica

Il nuovo presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti cercò di venire incontro alle istanze degli operai e dei contadini operando però un netto discrimine tra le agitazioni sociali. Distinguendo tra agitazioni economiche che le forze dell'ordine avrebbero dovuto mantenere nella legalità ma verso le quali il Governo intendeva cercare una mediazione e le agitazioni politiche considerate "sovversive" che non sarebbero state tollerate[46]. L'intendimento di Nitti però si scontrò con il Partito Socialista che, accusandolo di essere "giolittiano", si rifiutò di scendere a compromessi con rappresentanti della borghesia:"Siamo lieti di trovarci di fronte ad altro governo di coalizione borghese, perché ancora e sempre il nostro bersaglio non sarà l'uno o l'altro partito, ma tutti i partiti borghesi. E faremo altrettanto contro i governi che si ergeranno a sostituire l'attuale..."[47]. L'intransigenza socialista portò il partito a convergere sempre più con gli anarchici ingenerando la convinzione nei contemporanei della nascita di un "bolscevismo italiano"[48] in cui le bandiere rosse socialiste si affiancarono sempre più spesso le rosso-nere anarchiche. Uniti sul piano politico i socialisti e gli anarchici divergono nell'atteggiamento da tenere nei confronti dei tumulti. I socialisti fecero il possibile per mantenerli nei limiti della legge ed evitare le degenerazioni dei saccheggi mentre gli anarchici ritennero i tumulti un'occasione da sfruttare per arrivare alla "rivoluzione" e pertanto fecero il possibile per fomentarli[49]. Pur in disaccordo con i metodi anarchici i socialisti non ne sconfessarono le azioni pubblicamente insistendo anzi sulle riviste socialiste sulla Rivoluzione imminente e denominando i comitati di fabbrica "soviet" secondo l'esempio russo, come l'istituzione Guardie Rosse[50].

Lo sciopero generale del 20-21 luglio 1919Modifica

Il 9 giugno 1919 fu indetta per il 20-21 luglio la prima grande manifestazione socialista in concomitanza con uno sciopero generale e i socialisti riuscirono a rintuzzare i tentativi degli anarchici di non fissare un termine allo sciopero. Ciononostante il clima incandescente nell'immaginario fece assumere allo sciopero una valenza "rivoluzionaria" e nonostante i toni cauti dell'Avanti! la base si convinse che stesse per scattare la "grande ora"[51]. In realtà però lo sciopero generale si svolse in totale tranquillità grazie anche ai ripetuti appelli dei socialisti e quasi ovunque i servizi continuarono a funzionare[52]. La mancata rivoluzione annunciata, dopo i ripetuti proclami degli anarchici e dei fogli socialisti legati al massimalismo, sfiduciò il proletariato e rinvigorì invece il fronte antisocialista. Secondo Salvemini il Governo Nitti fu quello che trasse il maggior vantaggio potendosi presentare al paese, dopo i ripetuti proclami rivoluzionari, come il garante dell'"ordine"[53], infatti Nitti, fermo alla sua politica di discrimine, aveva nei giorni precedenti provveduto a far arrestare preventivamente i capi anarchici senza toccare invece i socialisti[54]. Secondo Ludovico D'Aragona, segretario della Confederazione Generale del Lavoro:

«La propaganda fatta da parecchi mesi dagli elementi estremisti aveva creato la speranza del prossimissimo fatto rivoluzionario che doveva dare il potere alla dittatura del proletariato. Questo stato d'animo era diffusissimo nelle folle, e poiché a queste non si può attribuire una capacità di valutare in tutta la complessità loro i fatti storici avvenuti o che avvengono, si comprende facilmente il perché l'annuncio dello sciopero di protesta apparve-anche perché da taluno così venne chiamato- lo sciopero "espropriatore". Il non avvenuto fatto rivoluzionario portò non diciamo uno scoramento, ma una violenta correzione alle speranze degli operai e, contemporaneamente, rialzò la debole volontà industriale di lanciarsi in una lotta che stroncasse la potenza del sindacato operaio.»

(Ludovico D'Aragona segretario della Confederazione Generale del Lavoro[55])

Inoltre l'allarmismo, causato dai continui richiami rivoluzionari e dagli echi della Terza Internazionale, contribuì a creare in seno alle forze armate e al governo una sostanziale avversione contro le iniziative definite "sovversive" nelle quali, indistintamente, venivano compresi sia i socialisti che gli anarchici[56]. Per di più, proprio in occasione dello sciopero del 20-21 luglio numerose informative riservate segnalavano al Governo intenti rivoluzionari finalizzati alla conquista del potere da parte dei cosiddetti "sovversivi"[57] e una pericolosa propaganda tra le truppe[57]. Oltre a ciò si aggiunsero ulteriori segnalazioni circa l'arrivo in Italia di inviati del comintern con il compito di attuare un'insurrezione[57]. Al fine di fronteggiare una possibile insurrezione, Francesco Saverio Nitti, già in data 14 luglio 1919 aveva dato disposizione ai prefetti del Regno di aprire i contatti con tutte le associazioni e i partiti politici d'"ordine"[58].

«Nella imminenza dello sciopero generale e dei disordini minacciati dai gruppi più accesi degli estremisti, è opportuno che i prefetti cerchino in ogni modo di tenersi a contatto con coloro che hanno maggiore seguito e fiducia nei partiti liberali, sia perché essi bene guidati e sorretti tengano alto lo spirito degli elementi d'ordine, sia per ottenerne la cooperazione in un momento in cui autorità non possono tenersi isolate nel contare unicamente sui funzionari e sulla forza pubblica. Nelle città dove esistono fasci ed associazioni combattenti ... se essi intendono cooperare mantenimento ordine pubblico ed alla repressione violenza e tentativi rivoluzionari, faranno opera patriottica mettendosi volontariamente disposizione autorità medesime e accettandone con animo disciplinato la direzione, la quale non può essere che unica.»

(Il presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti nelle circolare inviata ai prefetti il 14 luglio 1919[59])

Secondo Roberto Vivarelli, anche se non esiste riscontro documentale è presumibile ritenere che i Fasci Italiani di Combattimento da questo momento entrarono a far parte dei cosiddetti Partiti d'Ordine[60].

Il Congresso socialista di BolognaModifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: XVI Congresso del Partito Socialista Italiano.
 
Amadeo Bordiga fu il vincitore morale del congresso[61], infatti molte sue tesi furono assunte dalla maggioritaria corrente massimalista

Il Partito Socialista Italiano tenne il suo sedicesimo congresso nazionale a Bologna tra il 5-8 ottobre 1919; considerato superato il vecchio Programma di Genova[62], in esso si fronteggiarono tre mozioni, quella dei massimalisti che erano maggioritari nel partito, quella del segretario nazionale Lazzari (su cui confluirono i riformisti di Turati) e quella della minoranza intransigente di Bordiga:

  1. la mozione dei massimalisti di Giacinto Menotti Serrati, che avevano come obiettivo immediato la creazione di una "repubblica socialista" su modello sovietico[63] si distingueva da quella di Amadeo Bordiga per pochi particolari, infatti sia Serrati che Bordiga proponevano l'adesione del partito alla Terza Internazionale[64]; tuttavia, mentre i massimalisti di Serrati ritenevano che la rivoluzione fosse comunque inevitabile e l'attendevano passivamente[65], l'estrema sinistra di Bordiga, in polemica con i massimalisti, e in modo più coerente con l'esempio sovietico, riteneva doveroso impegnarsi attivamente per la riuscita della rivoluzione[66].
  2. la mozione di Costantino Lazzari, che concordava con Serrati sull'obiettivo finale della rivoluzione proletaria da raggiungersi con l'"azione rivoluzionaria"[67] e l'abbattimento del sistema democratico, riaffermava il principio secondo cui nel partito dovevano continuare ad avere cittadinanza anche i riformisti. La mozione di Lazzari era l'unica a non citare espressamente la Rivoluzione d'Ottobre e la Terza Internazionale[68] anche se nel suo intervento congressuale la rivoluzione veniva definita come "la via che dobbiamo seguire anche a costo di essere ritenuti noi, socialisti italiani, i bolscevichi del nostro paese"[68]. In ogni caso Lazzari dopo le reiterate proposte di ricorrere alla violenza per abbattere lo Stato borghese ribadì la necessità di ricorrere esclusivamente ai metodi legali[69].
  3. la mozione di Amadeo Bordiga, che aderente ai principi della rivoluzione d'Ottobre, in cui vedeva la corretta rotta che avrebbe dovuto seguire il Partito Socialista Italiano, proponeva di cambiare il nome del partito con quello di "Partito Comunista"[70] e di espellerne i "socialisti riformisti" di Turati[70]. Infatti Bordiga, convinto dell'incompatibilità tra socialismo e democrazia[71], dato che "il proletariato poteva davvero impadronirsi del potere politico solo strappandolo alla minoranza capitalista con la lotta armata, con l'azione rivoluzionaria"[72], riteneva che il partito non avrebbe dovuto partecipare alle elezioni. La sua corrente fu detta "comunista astensionista"[73].

Delle tre mozioni, fu quella massimalista elezionista di Serrati ad ottenere la maggioranza assoluta dei voti[62] e ad esprimere la direzione del partito; la minoritaria corrente riformista (i cui esponenti principali erano Filippo Turati e Claudio Treves), che non credeva nella possibilità di uno sbocco rivoluzionario della crisi, fece confluire i suoi voti sulla mozione di Lazzari[64] Ma l'approvazione avvenuta all'unanimità dell'adesione alla Terza Internazionale pose in sostanza i "socialisti riformisti" fuori dal partito[69].

Due furono sostanzialmente le novità introdotte nel Congresso bolognese: innanzitutto si individuò come punto di riferimento concreto la Rivoluzione di Ottobre elemento che prima mancava. Accettandone anche tutti i previsti sviluppi successivi destinati a sfociare nel "bolscevismo"[74]. Si accettarono inoltre della Rivoluzione di ottobre anche la soppressione del Parlamento e la nascita della dittatura in Russia. Le poche voci discordi furono quelle dei socialisti riformisti guidati da Filippo Turati ma che furono sconfitti da una mozione di Serrati che impegnava il Partito Socialista Italiano a ergersi difensore dei "Soviet"[75]. Inoltre la crisi delle democrazie indicava, secondo i socialisti, come l'unica soluzione da perseguirsi fosse quella "rivoluzionaria" che portava al socialismo e il modo per raggiungerla fosse la "guerra civile"[76].

«Quale è oggi la realtà se non la rivoluzione? Che cosa c'è di più reale, di più vero al giorno d'oggi che questo risorgere in ogni paese delle classi proletarie alla conquista della loro completa emancipazione? Che cosa c'è di più vero nel mondo odierno che il fallimento della borghesia ed il trionfo della rivoluzione? Ed allora noi siamo nella realtà, siamo sul terreno dei fatti e voi, cari compagni riformisti, voi compagni dell'ala destra, siete fuori dei vostri tempi, siete fuori della realtà.»

(Giacinto Menotti Serrati rivolto ai riformisti di Filippo Turati[77])

La contestazione alla classe borghese, di cui la guerra era considerata un'espressione, all'interno del Partito si spinse a richiedere l'espulsione dei socialisti che erano stati interventisti o volontari di guerra. Il deputato Mario Cavallari che era stato interventista e volontario di guerra era già stato espulso nell'agosto[78]. Al di fuori invece si decise di escludere in qualsiasi modo ogni rapporto con tutti i partiti non socialisti[79].

Notevole, inoltre, fu l'accettazione del ricorso alla violenza, considerata come necessaria "levatrice della storia"[79]. Nel congresso di Bologna questo mutamento venne ufficialmente rivendicato[80] e soprattutto questa deriva sancì la vittoria del massimalismo che puntava non ad una vittoria elettorale quanto all'abbattimento dello stato borghese per poter creare la "Repubblica socialista"[81].

Le tesi approvate nel Congresso di Bologna non giungevano nuove ma in realtà erano il frutto di un lungo processo iniziato già da alcuni anni e che aveva visto aumentare i consensi dei "massimalisti" e quindi si deliberò in base a ciò che già da mesi era nell'aria[82]. Il Partito Socialista Italiano dopo Bologna si staccò nettamente dalla tradizione risorgimentale, cui pure aveva partecipato, mettendo in difficoltà anche i politici socialisti che in diverse città erano stati chiamati ad amministrare. L'isolamento del Partito Socialista Italiano, con le nuove deliberazioni, divenne totale[81]. Nessuna delle correnti del Partito socialista, pur richiamandosi più o meno genericamente all'esigenza di superare il capitalismo e instaurare il socialismo, seppe proporre alcun obiettivo concreto e immediato alle lotte in cui erano frattanto impegnati il movimento operaio e quello contadino, i quali rimasero pertanto sostanzialmente privi, durante tutto il Biennio rosso, di un'efficace direzione politica[83]. In particolare, è stata spesso sottolineata l'inettitudine della direzione massimalista, la quale diede prova di un estremismo solamente verbale e di un rivoluzionarismo velleitario che non riuscì mai a far seguire alle parole i fatti[84].

«Il partito continua a ubriacarsi di parole, a redigere sulla carta dei progetti di Soviet, abbandonando a se stesse le commissioni di fabbrica nel Nord e i contadini affamati di terra nel Mezzogiorno.»

(Angelo Tasca[85])

Le elezioni del 1919Modifica

Le elezioni politiche italiane del 1919, che per la prima volta utilizzavano il sistema proporzionale, videro una forte affermazione del Partito socialista italiano che riscosse il 32,4% dei voti, mentre il Partito popolare ebbe il 20,6%; la maggioranza dei voti andò così ai due partiti di massa, mentre le varie liste liberali e liberaldemocratiche (che fino ad allora avevano dominato il parlamento italiano post-unitario) per la prima volta persero la maggioranza dei seggi alla Camera. Le liste di ex combattenti (presenti in diciotto collegi) ottennero il 3,37% del totale dei voti; i fascisti non ebbero nessun parlamentare eletto[86]. I vari governi liberali che si succedettero fra il novembre 1919 e l'ottobre 1922 poterono reggersi solo grazie all'appoggio esterno del Partito Popolare[87].

La scelta "eversiva" fatta dal Partito Socialista Italiano e la contestazione alle istituzioni[81] lo poneva automaticamente all'opposizione senza possibilità di stabilire alleanze con gli altri partiti bollati come "borghesi" annullando di fatto il grande successo elettorale[88] e scontentava parte dell'elettorato che desiderava imprimere un cambiamento nella politica nazionale[88].

Gli scioperi del 1920Modifica

 
Napoli: il corteo del 1º maggio 1920 è disperso dalle guardie regie

Il movimento rivendicativo che aveva caratterizzato il 1919 si intensificò ulteriormente nel 1920, quando vi furono in Italia più di 2.000 scioperi e più di 2.300.000 scioperanti; nello stesso anno, i lavoratori organizzati in sindacati ammontavano a più di 3.500.000, di cui 2.150.000 nella sola C.G.d.L.[89]. In parallelo il padronato industriale e agrario si organizzò a livello nazionale: la Confederazione generale dell'industria, che era stata fondata il 5 maggio 1910, nel 1919 spostò la propria sede a Roma, e nel dicembre 1920 nacque la Confederazione generale dell'agricoltura[90].

Nel marzo 1920 scoppiarono importanti scioperi, in particolare, presso la FIAT di Torino, il cosiddetto sciopero delle lancette, cosiddetto per l'episodio che diede origine alla vertenza. Gli operai di Torino della FIAT avevano chiesto alla direzione dello stabilimento, in concomitanza con l'entrata in vigore dell'ora legale, di posticipare di un'ora l'ingresso al lavoro. Dopo il diniego da parte della proprietà, la Commissione interna dell'officina Industrie Metallurgiche aveva proceduto, di sua iniziativa, a spostare di un'ora indietro l'orologio della fabbrica. In seguito a ciò, la direzione licenziò tre membri della Commissione interna; gli operai risposero con uno sciopero di solidarietà che, il 29 marzo 1920, coinvolse tutte le officine metallurgiche di Torino ed al quale gli industriali risposero a loro volta con una serrata, pretendendo, come condizione per riprendere il lavoro negli stabilimenti, che venissero sciolti i Consigli di fabbrica[91]. Lo sciopero generale, indetto alla metà di aprile, coinvolse circa 120.000 lavoratori di Torino e provincia. Tuttavia, tanto la direzione nazionale della CGdL quanto quella del Partito socialista si rifiutarono di dare il loro appoggio al movimento torinese, né vollero estendere la vertenza al resto d'Italia mediante la proclamazione di uno sciopero generale. Inoltre in quei giorni il governo inviò a presidiare la città una truppa di circa 50.000 militari. Isolati a livello nazionale e sotto la minaccia delle armi, gli operai di Torino dovettero capitolare: la vertenza si chiuse con un concordato che prevedeva un forte ridimensionamento dei Consigli di fabbrica[92]. Lo sciopero terminò così il 24 aprile senza che i lavoratori coinvolti avessero visto riconosciute le proprie richieste, fra cui il riconoscimento, da parte degli industriali, dei Consigli di fabbrica[93]. Antonio Gramsci, dalla rivista L'Ordine Nuovo, ammise la momentanea sconfitta:

«La classe operaia torinese ha già dimostrato di non essere uscita dalla lotta con la volontà spezzata, con la coscienza disfatta. Continuerà nella lotta: su due fronti. Lotta per la conquista del potere di Stato e del potere industriale; lotta per la conquista delle organizzazioni sindacali e per l'unità proletaria.»

(Antonio Gramsci[94])

A Fiume, il 20 aprile gli autonomisti di Riccardo Zanella, ostili ai legionari dannunziani, con l'appoggio dei socialisti, proclamarono lo sciopero generale.[95]

Il 1º maggio, in occasione della festa dei lavoratori furono indetti cortei nelle principali città che in alcuni casi furono dispersi dalla polizia come a Torino e a Napoli. Un nuovo sciopero indetto contro l'aumento del prezzo del pane indebolì il secondo governo Nitti, che si dimise il 9 giugno 1920 per lasciare il posto all'ottantenne Giovanni Giolitti che formò il suo quinto esecutivo. Manifestazioni e cortei proseguirono ininterrotti per lungo tempo con vittime sia tra i militari che tra i manifestanti.

La Rivolta dei BersaglieriModifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Rivolta dei Bersaglieri.
 
L'estensione della rivolta dei Bersaglieri da Ancona ad altre città italiane (26-29 giugno 1920)

Uno degli eventi più significativi di tutto il biennio rosso fu la rivolta dei Bersaglieri che scoppiò ad Ancona nel giugno del 1920, preceduta da una di minore entità a Trieste l'11 giugno, in cui un gruppo di arditi di un reggimento d'assalto in attesa di imbarcarsi per l'Albania usò le armi contro gli ufficiali, causando due morti e diversi feriti.[96]

Anche ad Ancona la scintilla che provocò la rivolta fu l'ammutinamento dei bersaglieri di una caserma cittadina che non volevano partire per l'Albania, dove era in corso un'occupazione militare decisa dal governo Giolitti. Al contrario di altre manifestazioni del biennio, la Rivolta dei Bersaglieri fu una vera ribellione armata e coinvolse truppe di varie forze che solidarizzarono con i ribelli; dopo la resa dei bersaglieri della caserma, la rivolta continuò nelle piazze, sostenuta da una fetta della popolazione civile, unita dal motto "Via da Valona", chiedendo la fine del Protettorato italiano dell'Albania, visto come un attacco alla libertà dei popoli.

Da Ancona la rivolta divampò in tutte le Marche, in Romagna (fino al suo cuore, Forlì), in Umbria (Terni e Narni), in Lombardia (Cremona e Milano) e a Roma. Quando il re, ordinò l'invio delle guardie regie per ristabilire l'ordine, fu indetto uno sciopero nazionale da parte del sindacato dei ferrovieri per impedire che i militi potessero arrivare ad Ancona.

Infine il moto fu sedato solo grazie all'intervento della marina militare, intervenuta per bombardare la città[97].

Il fatto però convinse il governo italiano a rinunciare all'occupazione: con il Trattato di Tirana (20 luglio 1920) e il successivo trattato di amicizia con gli albanesi (2 agosto 1920), l'Italia riconobbe l'indipendenza e la piena sovranità dello Stato albanese e le truppe italiane lasciarono il Paese. Inoltre il trattato sancì il ritiro italiano da Valona, con il mantenimento dell'isolotto di Saseno, a garanzia del controllo militare italiano sul canale di Otranto[98]

Le occupazioni delle fabbricheModifica

 
1920: fabbriche presidiate dalle Guardie rosse

L'inizio della vertenzaModifica

Il 18 giugno 1920 la FIOM presentò alla Federazione degli industriali meccanici e metallurgici un memorandum di richieste, che fu seguito da analoghi memoriali da parte degli altri sindacati operai. Tutti i memoriali concordavano nella richiesta di significativi incrementi salariali volti a compensare l'aumentato costo della vita[99]. L'atteggiamento degli industriali di fronte a tali richieste fu di assoluta e totale chiusura[100][101][102]; a detta degli imprenditori, il costo derivante dagli aumenti salariali sarebbe stato insostenibile per un settore produttivo che versava già in stato di crisi[103]. A ciò i sindacalisti della F.I.O.M. risposero ricordando gli ingentissimi profitti accumulati durante la guerra dalle industrie meccaniche e metallurgiche grazie alle commesse belliche[104].

Il 13 agosto 1920 gli industriali ruppero le trattative.

«Quando la delegazione operaia ebbe terminata la confutazione delle affermazioni della delegazione padronale, il capo di questa, avvocato Rotigliano - allora nazionalista e in seguito divenuto fascista - pose fine al contraddittorio con questa dichiarazione provocatoria: "Ogni discussione è inutile. Gli industriali sono contrari alla concessione di qualsiasi miglioramento. Da quando è finita la guerra essi hanno continuato a calare i pantaloni. Ora basta e cominciamo da voi."»

(Bruno Buozzi[105])

La F.I.O.M. deliberò a questo punto di procedere all'ostruzionismo: evitando ogni forma di sabotaggio, gli operai avrebbero dovuto ridurre la produzione, rallentando l'attività, astenendosi dal cottimo e applicando minuziosamente le norme sulla sicurezza del lavoro. Qualora gli imprenditori avessero risposto con la serrata, gli operai avrebbero dovuto occupare gli stabilimenti[106].

Le direttive della F.I.O.M. vennero eseguite con zelo dagli operai e condussero ad un calo molto significativo della produzione[107]. Il 30 agosto si ebbe la prima contromossa da parte padronale: le Officine Romeo & C. di Milano iniziarono la serrata, benché il Prefetto del capoluogo lombardo avesse espressamente chiesto all'ing. Nicola Romeo di non assumere tale iniziativa[108]. Lo stesso giorno la sezione milanese della F.I.O.M. deliberò l'occupazione delle officine metallurgiche della città[109]. Poche ore dopo anche gli opifici della Isotta Fraschini vennero occupati e i dirigenti sequestrati negli uffici. Tra loro anche i fondatori e proprietari Cesare Isotta e Vincenzo Fraschini[110]. Il 31 agosto la Confindustria ordinò la serrata a livello nazionale[111]. La stessa deliberazione era stata assunta, il giorno precedente, dagli industriali metallurgici inglesi.[112]

Le fabbriche occupateModifica

Ovunque, la serrata fu puntualmente seguita dall'occupazione degli stabilimenti da parte degli operai. Fra l'1 e il 4 settembre 1920 quasi tutte le fabbriche metallurgiche in Italia furono occupate. Gli operai coinvolti furono più di 400.000 e salirono poi a circa 500.000 quando l'occupazione si estese ad alcuni stabilimenti non metallurgici[113].

L'occupazione delle fabbriche avvenne (e proseguì) quasi ovunque pacificamente[114][115], anche grazie alla decisione, presa dal governo Giolitti, di non tentare azioni di forza; le forze dell'ordine si limitarono a sorvegliare dall'esterno gli stabilimenti senza intervenire[116]. Giolitti intendeva infatti evitare un conflitto armato, che sarebbe potuto sfociare in una guerra civile, e confidava nella possibilità di mantenere il confronto tra operai e imprenditori su di un piano puramente sindacale, in cui il governo avrebbe potuto fungere da mediatore[117]. Su questo punto Giolitti si trovò d'accordo con la dirigenza nazionale della C.G.d.L., che era di orientamento riformista[118].

Nei primi giorni di occupazione, tuttavia, un fatto di sangue avvenne a Genova; il 2 settembre le guardie regie che presidiavano un cantiere navale spararono contro gli operai che cercavano di occuparlo; il calderaio trentacinquenne Domenico Martelli rimase ucciso e altri due operai furono gravemente feriti[119]. Alcune guardie regie fra quelle che avevano aperto il fuoco furono arrestate, ma vennero scarcerate il giorno successivo[120].

Nelle fabbriche occupate la produzione continuò, anche se in misura ridotta a causa delle difficoltà di approvvigionamento e dell'assenza del personale tecnico e impiegatizio[121]. Torino fu la città in cui l'organizzazione operaia (basata sul sistema dei Consigli di fabbrica) si rivelò più efficiente; furono creati presso la Camera del Lavoro vari organismi (comitati) per coordinare a livello cittadino la produzione, gli scambi, i rifornimenti[122], e funzionò anche un comitato militare[123]. In almeno un caso (l'officina Fiat Centro) la produzione raggiunse ragguardevoli livelli, toccando il 70 per cento dell'output di prima della vertenza[124].

A Torino e a Milano, gli operai, tramite le locali Camere del lavoro, tentarono di assicurarsi i necessari mezzi di sostentamento mediante la vendita dei prodotti delle fabbriche occupate; ma i risultati furono trascurabili. Più efficaci a questo scopo furono l'aiuto da parte delle Cooperative (sotto forma di finanziamenti in denaro ed elargizione di generi alimentari) e la solidarietà degli altri lavoratori, che si manifestò mediante collette, allestimento di "cucine comuniste" per gli occupanti e altre iniziative di sostegno[125].

Durante l'occupazione corsero, sull'armamento operaio, notizie incontrollate che destarono preoccupazione anche in ambito governativo; tuttavia sembra che, generalmente, la forza e la capacità militare degli occupanti non siano andate oltre la mera difesa degli stabilimenti occupati, tranne forse che a Torino, dove gli operai erano, anche militarmente, meglio organizzati che altrove[126]. All'interno delle officine della Società Piemontese Automobili si iniziarono anche a produrre bombe a mano[127].

Gli operai organizzarono comunque servizi armati di vigilanza, disposti a scendere allo scontro anche con l'esercito, che assunsero il nome di Guardie Rosse[128]. A favore degli scioperanti intervennero spesso i sindacati dei ferrovieri che organizzarono picchetti armati presso i nodi ferroviari per impedire l'intervento delle guardie regie[129]. Inoltre i sindacati dei ferrovieri collaborarono spesso con gli occupanti, assicurando loro rifornimenti di materie prime e di combustibili[130].

La conclusione della vertenzaModifica

Benché nato come vertenza sindacale, il movimento di occupazione delle fabbriche ebbe fin dall'inizio una tale estensione e una tale risonanza da fare sorgere l'esigenza di una sua soluzione politica[118]. Mentre gli industriali ponevano lo sgombero degli stabilimenti come pregiudiziale per una ripresa delle trattative con gli operai[131], gli organismi dirigenti di questi ultimi decisero sul da farsi in una serie di tese e drammatiche riunioni che ebbero luogo a Milano fra il 9 e l'11 settembre 1920.

Il 9 settembre si riunì il Consiglio direttivo della C.G.d.L., ove venne in discussione l'ipotesi di un'iniziativa insurrezionale (cui comunque i vertici del sindacato, come si è detto, erano contrari); erano presenti due dirigenti del P.S.I. torinese, uno dei quali era Palmiro Togliatti che, a una precisa domanda, rispose che, in ogni caso, non sarebbero stati gli operai di Torino a cominciare da soli l'insurrezione. Gli ordinovisti temevano, in effetti, che una loro eventuale sortita sarebbe stata sconfessata, a livello nazionale, sia dal partito sia dal sindacato (come del resto era già accaduto in aprile in occasione dello sciopero delle lancette), cosicché il movimento torinese, rimasto ancora una volta isolato, sarebbe stato schiacciato militarmente[132].

Il 10 settembre, in una riunione congiunta fra la direzione della C.G.d.L. e quella del P.S.I., i massimi dirigenti del sindacato manifestarono l'intenzione di dimettersi qualora il partito volesse assumersi la responsabilità di avocare a sé la guida del movimento per condurlo a un esito rivoluzionario. Ma la segreteria del P.S.I., di fatto, lasciò cadere la proposta, demandandone la decisione al Consiglio nazionale della C.G.d.L. che si sarebbe riunito l'indomani[133].

Fu così che, l'11 settembre 1920, ebbe luogo la cruciale seduta in cui il Consiglio nazionale della C.G.d.L. fu chiamato a deliberare su due mozioni contrapposte: una prevedeva di demandare "alla Direzione del Partito l'incarico di dirigere il movimento indirizzandolo alle soluzioni massime del programma socialista, e cioè la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio"[134]; l'altra mozione, proposta dalla stessa segreteria della C.G.d.L., prevedeva invece, quale obiettivo immediato della lotta, non la rivoluzione socialista bensì solamente "il riconoscimento da parte del padronato del principio del controllo sindacale delle aziende"[135]. Prevalse a maggioranza quest'ultima mozione[136], che sanciva la rinuncia a fare dell'occupazione la prima fase di un più ampio moto rivoluzionario[137].

Anche dopo il voto, il P.S.I. avrebbe potuto (in base al patto d'alleanza stipulato con la C.G.d.L. nel 1918) assumersi d'autorità la guida del movimento, esautorando il sindacato. Ma il segretario del P.S.I. Egidio Gennari dichiarò che il suo partito non intendeva per il momento avvalersi di tale facoltà[136].

Intanto nelle fabbriche occupate la tensione rimaneva alta. La notte del 13 settembre un industriale torinese, in uno scontro a fuoco, uccise a fucilate i due operai Raffaele Vandich e Tommaso Gatti[138].

Quando fu chiaro che i massimi organi dirigenti del movimento operaio italiano avevano di fatto rinunciato ad ogni ipotesi rivoluzionaria[139], Giovanni Giolitti ebbe campo libero per spiegare la sua attività di mediazione fra la Confindustria e la C.G.d.L. (essendo ormai il P.S.I. fuori dal gioco). Si arrivò così, non senza resistenze da parte confindustriale, all'accordo di massima siglato a Roma il 19 settembre 1920, accordo che fu per gli operai, sul piano strettamente sindacale, un buon successo (perché stabiliva significativi aumenti salariali e miglioramenti normativi in materia di ferie, di licenziamenti ecc.)[140], ma allo stesso tempo una netta sconfitta politica[141][142], perché prevedeva lo sgombero delle fabbriche occupate e impegnava soltanto il governo ad approntare un disegno di legge sul controllo operaio (disegno di legge che peraltro non fu mai approvato)[143].

I giorni a ridosso dell'accordo fra industriali e sindacato furono caratterizzati da un acuirsi della tensione a Torino, dove, il 19 settembre, un operaio rimase ucciso in uno scontro fra Guardie rosse e forze dell'ordine; il 22, in altri scontri a fuoco, morirono un brigadiere dei carabinieri, una guardia regia e un passante; il 23 settembre venne alla luce un grave fatto di sangue: furono rinvenuti i cadaveri di un giovane nazionalista e di una guardia carceraria[144]. Più precisamente, si scoprì che l'impiegato oleggese Mario Sonzini, sindacalista e membro della commissione interna alle Officine Metallurgiche, era stato sequestrato dalle Guardie rosse e, dopo una sorta di processo sommario, era stato ucciso a pistolettate, sorte condivisa a poche ore di distanza anche dalla guardia carceraria Costantino Scimula. Dalle seguenti indagini si venne a scoprire che i due uccisi non erano stati gli unici sequestrati dalle Guardie rosse in quei giorni a Torino[145]. La dinamica di questo delitto, che presentava caratteri di particolare efferatezza, fu poi chiarita dal processo penale che ebbe luogo nel 1922 e che si concluse con la condanna di undici imputati a pene che andarono da un anno a trenta anni di reclusione[146]. Le indagini e il processo furono seguiti con grande enfasi dalla stampa, e il tragico caso di Sonzini e Scimula divenne, in quegli anni, uno dei cavalli di battaglia della propaganda anticomunista[147].

Fra il 25 e il 30 settembre gli occupanti sgomberarono pacificamente le fabbriche, riconsegnandole agli industriali[148]. Il 27 settembre, quando l'occupazione si poteva già considerare conclusa, l'edizione torinese dell'Avanti! pubblicò un editoriale in cui, oltre ad ammettere la sconfitta degli operai, si accusavano i dirigenti riformisti di essere responsabili della medesima[149]. Dopo la ratifica dell'accordo da parte delle rispettive organizzazioni, i dirigenti della F.I.O.M. e della Confindustria firmarono il concordato definitivo a Milano il 1º ottobre 1920[150].

Gli esiti politiciModifica

Le occupazioni, intese come l'inizio di un processo rivoluzionario, non riuscirono a produrre cambiamenti sensibili, soprattutto a causa della mancanza di strategia della classe dirigente socialista e dell'incapacità di diffusione del movimento nel resto della società. Giolitti assunse un atteggiamento neutrale, nonostante le pressioni degli industriali per sgomberare le fabbriche con l'esercito, presumendo che gli operai, non essendo in grado di gestire le fabbriche, avrebbero prima o poi accettato di trattare.[151].

Giovanni Giolitti sintetizzò così la sua linea politica nei confronti dell'occupazione delle fabbriche:

«Ho voluto che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l'apporto di capitali, senza tecnici e senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciò li guarirà da pericolose illusioni.»

(Giovanni Giolitti[152])

Del tutto opposta la valutazione offerta, alcuni anni dopo i fatti, da un altro protagonista della vicenda, Antonio Gramsci, il quale affermò che, nei giorni dell'occupazione, la classe operaia aveva dimostrato la sua capacità di autogovernarsi, aveva saputo mantenere e superare i livelli produttivi del capitalismo, e aveva dato prova di iniziativa e di creatività a tutti i livelli; la sconfitta era stata determinata, secondo l'opinione di Gramsci, non da una presunta "incapacità" degli operai, bensì da quella dei loro dirigenti politici e sindacali:

«Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, pretestando l'immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista.»

(Antonio Gramsci[153])

La vicenda dell'occupazione delle fabbriche ingenerò rabbia e frustrazione negli industriali, i quali, per quasi un mese, si erano visti spossessati dei propri stabilimenti, e che avevano dovuto alla fine accettare le richieste sindacali operaie, e alimentò i loro propositi di rivalsa, anche nei confronti del governo e dello stesso Stato liberale che (secondo loro) non li aveva sufficientemente tutelati; la classe operaia, invece, subì un contraccolpo psicologico di delusione e di scoraggiamento, in quanto aveva dovuto restituire agli industriali il possesso delle fabbriche senza ottenere alcun reale avanzamento politico[154]. La conclusione della vicenda portò inoltre ad una crisi il Partito socialista, che si divise tra coloro che ritenevano opportuno continuare la lotta e i dirigenti che avevano accettato l'accordo[155].

In seguito, la pubblicistica del fascismo dipinse l'occupazione delle fabbriche come emblematica di un'epoca di profondo disordine, caratterizzata da gravi e massicce violenze operaie e dal pericolo incombente di una rivoluzione bolscevica, pericolo che, in Italia, sarebbe stato sventato - secondo questa interpretazione - solo dall'avvento al potere di Mussolini[156]. Dopo la caduta del fascismo, più di uno storico ha invece negato che l'occupazione delle fabbriche potesse avere realmente la possibilità di costituire l'occasione di una rivoluzione proletaria vittoriosa[157][158].

Le elezioni amministrative del novembre 1920 e la fine del biennio rossoModifica

Il Partito socialista italiano ottenne ancora un successo nelle elezioni generali amministrative che si tennero nell'ottobre e novembre del 1920, raggiungendo la maggioranza in 26 dei 69 consigli provinciali e in 2 022 comuni su 8 346; in particolare, la maggior parte delle amministrazioni comunali dell'Emilia e della Toscana furono conquistate dai socialisti[159]. In questi centri i sindaci e gli amministratori socialisti poterono esercitare una serie di importanti funzioni, fra cui l'assistenza sociale, la riscossione e l'impiego dei tributi locali e la gestione dei beni di proprietà del comune[160].

Tuttavia i risultati elettorali del P.S.I. furono meno brillanti di quelli conseguiti nelle elezioni politiche del novembre 1919. Nelle elezioni amministrative del 1920 si verificò inoltre la tendenza dei partiti borghesi a coalizzarsi in funzione antisocialista, nei cosiddetti "blocchi nazionali" o "blocchi patriottici" che spesso comprendevano anche i fascisti[161]. Ciò fu indice del crescente orientamento di certi settori della borghesia verso soluzioni apertamente anti-socialiste e autoritarie.

L'avversione della piccola borghesia verso i moti operai era stata alimentata, fra l'altro, dall'atteggiamento di ostilità del partito socialista nei confronti degli ufficiali delle forze armate[162]; questi reduci furono spesso insultati per strada, in quanto ritenuti responsabili dello scoppio della guerra[163]. Ad esempio Piero Operti, che nell'ottobre 1920 a Torino era insieme ad altri reduci degenti nel locale ospedale, riferisce di aver subito un'aggressione da parte di militanti socialisti; secondo il suo resoconto, le medaglie gli furono strappate e, gettate al suolo, gli furono calpestate.[164] Benché gli episodi di questo tipo fossero in realtà meno gravi e meno frequenti di quanto affermasse la pubblicistica antisocialista dell'epoca, essi contribuirono potentemente ad alienare al P.S.I. le simpatie di vasti strati della piccola e media borghesia, da cui provenivano la gran parte degli ex ufficiali e sottufficiali[165].

Di fatto, verso la fine del 1920, dopo la conclusione della vicenda dell'occupazione delle fabbriche e dopo le elezioni amministrative, il movimento fascista, che fino ad allora aveva avuto un ruolo piuttosto marginale[166][167], iniziò la sua tumultuosa ascesa politica[168] che fu caratterizzata dal ricorso massiccio e sistematico alle azioni squadristiche[169].

Un tentativo di quantificare i costi, in termini di vite umane, delle agitazioni del Biennio rosso fu compiuto da Gaetano Salvemini: questo storico, basandosi sulle cronache giornalistiche dell'epoca, calcolò in 65 le vittime complessive delle violenze operaie nel biennio, mentre nello stesso periodo 109 militanti di parte operaia morirono per mano delle forze dell'ordine durante scontri di piazza, e altri 22 furono uccisi da altre persone[170].

La repressione dei moti popolari fu particolarmente cruenta nelle campagne. Sicuramente l'episodio più efferato fu l'eccidio di Canneto Sabino in provincia di Rieti in cui restarono uccisi undici braccianti, tra cui due donne[171].

Il 15 gennaio 1921 a Livorno si aprì il XVII Congresso Nazionale del Partito socialista che terminò con la scissione della componente comunista che il 21 gennaio diede vita al Partito Comunista d'Italia. Tra i fondatori del nuovo partito vi furono personaggi di spicco messisi in evidenza durante i moti come Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci.

NoteModifica

  1. ^ a b c Brunella Dalla Casa, Composizione di classe, rivendicazioni e professionalità nelle lotte del "biennio rosso" a Bologna, in: AA. VV, Bologna 1920; le origini del fascismo, a cura di Luciano Casali, Cappelli, Bologna 1982, pag. 179.
  2. ^ AA. VV., Le rivoluzioni sconfitte, 1919/20, a cura di Eliana Bouchard, Rina Gagliardi, Gabriele Polo, supplemento a "il manifesto", Roma, s.d. (ma 1993), pp. 20-24.
  3. ^ Giorgio Candeloro, Storia dell'Italia moderna. Volume ottavo. La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l'avvento del fascismo, Feltrinelli, Milano 1996 (sesta edizione), p. 229.
  4. ^ G. Candeloro, op. cit., p. 236.
  5. ^ G. Candeloro, op. cit., p. 225.
  6. ^ a b c G. Candeloro, op. cit., p. 281.
  7. ^ G. Candeloro, op. cit., p. 229.
  8. ^ G. Candeloro, op. cit., p. 263.
  9. ^ G. Candeloro, op. cit., p. 283.
  10. ^ Alceo Riosa e Barbara Bracco, Storia d'Europa nel Novecento, Mondadori Università, Milano 2004, pagg. 68-9.
  11. ^ Alceo Riosa e Barbara Bracco, Storia d'Europa nel Novecento, Mondadori Università, Milano 2004, pag. 69.
  12. ^ Salvatore Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Feltrinelli, Milano 2013, pagg. 51-2.
  13. ^ Salvatore Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Feltrinelli, Milano 2013, pag. 54.
  14. ^ Salvatore Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Feltrinelli, Milano 2013, pag. 43.
  15. ^ Salvatore Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Feltrinelli, Milano 2013, pag. 49
  16. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pag. 106: "I socialisti italiani e la classe operaia videro oltre, e quasi anticiparono quello che poi fu realmente lo sviluppo della rivoluzione di marzo, compresero che la lezione della Russia era qualcosa di nuovo"
  17. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pag. 106.
  18. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pag. 107.
  19. ^ a b Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pag. 108.
  20. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pp. 108-109.
  21. ^ Giorgio Candeloro, Storia dell'Italia moderna. Volume ottavo. La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l'avvento del fascismo, Feltrinelli, Milano 1996 (sesta edizione), p. 172.
  22. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pag. 113-114.
  23. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 116.
  24. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pp. 110-111
  25. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 114: "Di fatto, l'iniziativa rivoluzionaria delle masse rimase del tutto abbandonata a se stessa, condannata ad estinguersi come un fuoco di paglia, e i dirigenti socialisti, pur senza sconfessare l'azione popolare alla quale anzi concedevano il loro plauso sentimentale, si adoperarono per ricondurre le masse all'ordine."
  26. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 117.
  27. ^ "Monte Grappa tu sei la mia Patria", su Storia illustrata n° 299, ottobre 1982, p. 13
  28. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pp. 120-121.
  29. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 124.
  30. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pp. 353-353.
  31. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pp. 352-353.
  32. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 354: "la bandiera che si agita ripete la formula dei deliberati della direzione del partito, "Repubblica socialista" e "Dittatura del proletariato""
  33. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 354.
  34. ^ Seton-Watson, p. 603.
  35. ^ Cronache anarchiche, pp. 17-35; Berti, pp. 616-632; UAI.
  36. ^ Franzinelli, p. 26.
  37. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pag 357
  38. ^ a b Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 358
  39. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 360
  40. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pag 361
  41. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 362
  42. ^ Giordano Bruno Guerri, Fascisti, Le Scie Mondadori, Milano, 1995, p. 70
  43. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 365
  44. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pp. 365-366:"...l'antisocialismo trova ora schierati più vasti ambienti e ceti sociali, soprattutto esso raccoglie una parte cospicua delle forze combattentistiche, e non solo le più spregiudicate, le più audaci, gli amanti dell'avventura e della violenza, ma anche quella parte meno eccentrica e certo più numerosa, animata da un patriottismo sincero e spesso istintivo, nella quale quanto più era sentita la somma dei sacrifici e di dolori che la guerra era costata, tanto più se ne rivendicava il senso e il valore, di contro alla ingiuriosa svalutazione dei socialisti"
  45. ^ In nota Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 366:"Va sottolineato che l'atteggiamento dei socialisti nei confronti della guerra, di cui si facevano strumento di illustrazione e divulgazione le vignette di Scalarini, provocava profondo risentimento pur in chi più amaramente avvertiva la delusione patita dalle idealità e dalle speranze che avevano animato i combattenti, e riconosceva quindi l'inganno della guerra"
  46. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 471
  47. ^ In nota Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 472
  48. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 473
  49. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 476
  50. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pp. 477-478
  51. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 480
  52. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 481
  53. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pp. 482-483
  54. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 483
  55. ^ In nota Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 482
  56. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 484
  57. ^ a b c Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 486
  58. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, pp. 487-488
  59. ^ In nota Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 623
  60. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume I, Il Mulino, 2012, p. 488
  61. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, p. 226
  62. ^ a b Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, p. 211
  63. ^ G. Sabbatucci e V. Vidotto, Storia contemporanea, il novecento, Bari, Edizioni Laterza, 2008, p. 70: "I massimalisti (...) si ponevano come obiettivo immediato l'instaurazione della repubblica socialista fondata sulla dittatura del proletariato e si dichiaravano ammiratori entusiasti della rivoluzione bolscevica"
  64. ^ a b G. Candeloro, op. cit., p. 299.
  65. ^ G. Sabbatucci e V. Vidotto, Storia contemporanea, il novecento, Bari, Edizioni Laterza, 2008, p. 71: "Più che preparare la rivoluzione la aspettavano, ritenendola comunque inevitabile."
  66. ^ G. Sabbatucci e V. Vidotto, Storia contemporanea, il novecento, Bari, Edizioni Laterza, 2008, p. 71: "In polemica con questa impostazione, si formarono nel Psi gruppi di estrema sinistra, composti per lo più da giovani, che si battevano per un più coerente impegno rivoluzionario e per una più stretta adesione all'esempio russo."
  67. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, pag 229
  68. ^ a b Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, p. 230
  69. ^ a b Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, p. 231
  70. ^ a b Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, p. 228
  71. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, p. 224: "Si doveva ancora a Bordiga la formulazione più chiara della assoluta incompatibilità tra socialismo e democrazia"
  72. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, pag 224
  73. ^ G. Candeloro, op. cit., pp. 298-300.
  74. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, p. 213
  75. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, p. 214
  76. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, pp. 216-217
  77. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, p. 216
  78. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, p. 217
  79. ^ a b Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, p. 218
  80. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, p. 219
  81. ^ a b c Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, p. 220
  82. ^ Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, p. 227
  83. ^ G. Candeloro, op. cit., p. 300.
  84. ^ Alceo Riosa - Barbara Bracco, Storia d'Europa nel Novecento, Mondadori Università, Milano 2004, p. 73: "La cultura politica socialista sembrò affidarsi [...] alle circostanze esterne, più che a una preparazione consapevole della rivoluzione. La dirigenza riteneva prossimo il salto rivoluzionario, ma poco o nulla fece per prepararne le condizioni del successo e per stabilire le necessarie alleanze sociali. Incapace di coordinare le lotte nel mondo dell'industria, non riuscì nemmeno a porsi con forza alla testa del movimento di occupazione delle terre a opera degli ex combattenti, che investì varie parti del paese".
  85. ^ Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L'Italia dal 1918 al 1922, volume I, Laterza, Bari 1967, p. 96.
  86. ^ G. Candeloro, op. cit., pp. 301-2.
  87. ^ G. Candeloro, op. cit., p. 303.
  88. ^ a b Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, volume II, Il Mulino, 2012, p. 221
  89. ^ G. Candeloro, op. cit., p. 304.
  90. ^ A. Tasca, op. cit., p. 119.
  91. ^ Paolo Spriano, "L'Ordine Nuovo" e i Consigli di fabbrica, Torino, Einaudi, 1971 (seconda edizione), pp. 95-96. Circa la causa scatenante della vertenza, Spriano spiega che l'ora legale era considerata un retaggio della guerra ed era all'epoca "largamente impopolare".
  92. ^ G. Candeloro, op. cit. pp. 309-10.
  93. ^ Enzo Biagi, Storia del Fascismo, Firenze, Sadea Della Volpe Editori, 1964, p. 108: "Il 24 aprile le organizzazioni sindacali ordinano la ripresa del lavoro senza aver ottenuto il riconoscimento delle commissioni interne (i "consigli di fabbrica")."
  94. ^ Antonio Gramsci, Superstizione e realtà (editoriale non firmato) in "L'Ordine Nuovo", anno II n. 1, 8 maggio 1920. L'articolo è ora raccolto in Antonio Gramsci, L'Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, Torino 1987, pp. 502 sgg.
  95. ^ Mimmo Franzinelli e Paolo Cavassini, Fiume, l'ultima impresa di D'Annunzio, Milano, Le scie Mondadori, 2009, p. 218
  96. ^ Angelo Visintin, Una città in grigioverde, in Storia e Dossier, p. 16, ottobre 1992.
  97. ^ Ruggero Giacomini, La rivolta dei bersaglieri e le giornate rosse. I moti di Ancona dell'estate 1920 e l'indipendenza dell'Albania, Ancona, Assemblea legislativa delle Marche/ Centro culturale "La Città futura", 2010.
  98. ^ Carlo Sforza, Jugoslavia, storia e ricordi, Donatello De Luigi, Milano, 1948, pagg. 115-119
  99. ^ Paolo Spriano, L'occupazione delle fabbriche. Settembre 1920, Einaudi, Torino 1973 (quarta edizione), pp. 35-7.
  100. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., pp. 37-38.
  101. ^ A. Tasca, op. cit., p. 124.
  102. ^ G. Candeloro, op. cit., p. 325
  103. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., p. 38.
  104. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche cit., pp. 38, 40-1. Secondo i dati riportati da Spriano, ad esempio, il capitale dell'Ilva era decuplicato fra il 1916 e il 1918; il capitale della FIAT era passato da lire 17.000.000 nel 1914 a lire 200.000.000 nel 1919; il capitale dell'Ansaldo era aumentato da lire 30.000.000 nel 1914 a lire 500.000.000 nel 1919.
  105. ^ Bruno Buozzi, citato in P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., p. 43. Le ultime frasi della dichiarazione di Rotigliano sono anche riportate, con lievi varianti, in A. Tasca, op. cit., p. 124.
  106. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., p. 44.
  107. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., pp. 51-3.
  108. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche cit., p. 53.
  109. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., p. 54.
  110. ^ Una prima "serrata" a Milano, La Stampa, 31 agosto 1920, p. 1: "L'occupazione è avvenuta senza violenze personali. Dopo aver sequestrato negli uffici i dirigenti, i capi servizio, gli operai hanno posto anche una loro guardia alle casseforti per impedire che ne fossero distolti da chicchessia i valori. Allo stabilimento Isotta Fraschini furono sequestrati nei loro uffici anche l'avv. Isotta e il signor Vincenzo Fraschini verso i quali gli operai usarono ogni riguardo [...] L'occupazione come dicemmo è avvenuta tranquillamente. Alla Questura non pervennero che le rimostranze di quelli che si vedevano sequestrati."
  111. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche cit., p. 56.
  112. ^ La serrata in tutte le officine metallurgiche in Inghilterra, La Stampa, 31 agosto 1920, p. 1
  113. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, nel 1920. cit., p. 63.
  114. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche cit., p. 56; p. 63; pp. 66-7; pp. 158-9 e passim.
  115. ^ A. Tasca, op. cit., p. 126: "Gli episodi di violenza - ingegneri tenuti a forza nelle officine - son tuttavia minimi e presto frenati; non s'è quasi versato sangue; i morti si contano sulle dita di una sola mano, e son tutti dovuti ad iniziative isolate di qualche scalmanato. Poca cosa, se si tien conto dell'estensione e della gravità del sommovimento che si sta producendo, e delle migliaia di officine e dei milioni di operai che l'occupazione ha coinvolto."
  116. ^ G. Candeloro, op. cit., p. 328.
  117. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., pp. 57-58.
  118. ^ a b G. Candeloro, op. cit., p. 329.
  119. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., p. 73.
  120. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., p. 74.
  121. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., pp. 66, 68.
  122. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche cit., pp. 69, 148.
  123. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., pp. 88-89.
  124. ^ P. Spriano, "L'Ordine Nuovo" e i Consigli di fabbrica, cit., p. 120.
  125. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., pp. 98-99, 124.
  126. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., pp. 86-89.
  127. ^ Battista Santhià, Con Gramsci all'Ordine Nuovo, Firenze, Editori Riuniti, giugno 1956, p. 99: "Finalmente si giunse ad una decisione: costruire bombe. Sapevamo dove reperire gelatina, balistite, capsule e miccia in quantità. Avevamo tutto il necessario, mancavano però i tecnici. Ma con buona volontà e l'energia tutto fu risolto."
  128. ^ Enzo Biagi, Storia del Fascismo, Firenze, Sadea Della Volpe Editori, 1964, p. 100: "Vengono quindi istituiti dei corpi di volontari che si impegnano a difendere anche con le armi gli stabilimenti occupati. Nasce "la Guardia Rossa", organizzata, armata, decisa anche allo scontro con le truppe"
  129. ^ Enzo Biagi, Storia del Fascismo, Firenze, Sadea Della Volpe Editori, 1964, p. 107: "Nel 1920, in tutti i nodi ferroviari della penisola, si potevano trovare, durante i grandi scioperi e le occupazioni delle fabbriche, i picchetti armati di ferrovieri."
  130. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., p. 89.
  131. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche cit., p. 92.
  132. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., pp. 103-105.
  133. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., pp. 108-109.
  134. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., pp. 110-111.
  135. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche cit., p. 107.
  136. ^ a b P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., p. 112.
  137. ^ A. Tasca, op. cit., p. 128: "Porre come obiettivo il controllo, equivale a dichiarare che non vi è l'intenzione di spingersi oltre; è dichiarare che si evacueranno le officine, una volta che esso sarà raggiunto."
  138. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche cit., p. 125 e n.
  139. ^ A. Tasca, op. cit., pp. 128-9: "Dietro questo bizantineggiare si nasconde la paura comune delle responsabilità: la C.G.L. offre ai massimalisti ed ai comunisti che sono alla testa del partito di prendere la direzione del movimento, sapendo assai bene che non hanno alcuna intenzione di assumerla. [...] La Direzione del partito ha perduto dei mesi interi a predicare la rivoluzione, non ha niente previsto, niente preparato: quando i voti di Milano dànno la maggioranza alla tesi confederale, i dirigenti del partito tirano un sospiro di sollievo. Liberati adesso da ogni responsabilità, possono gridare a piena gola al tradimento della C.G.L.; hanno così qualche cosa da offrire alle masse che hanno abbandonato al momento decisivo, felici che un tale epilogo permetta loro di salvare la faccia".
  140. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., pp. 132-133.
  141. ^ G. Candeloro, op. cit., p. 333.
  142. ^ A. Tasca, op. cit., p. 130.
  143. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., pp. 166-167.
  144. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., p. 149.
  145. ^ I drammatici particolari rivelati dall'indagine giudiziaria nell'assassinio dell'impiegato Sonzini e della guardia carceraria Scimula, in La Stampa, 12 ottobre 1920. URL consultato il 29 ottobre 2012. "Dall'arresto di due commissari della Ditta Nebiolo per stabilire in quali precise circostanze era stato formalo e giudicato il Sonzini, da documenti rinvenuti, risultò che in quella tragica sera lo Scimula ed il Sonzini non furono i due soli individui arrestati dagli arditi rossi, ma vi furono altresì l'ufficiale di artiglieria pesante Giuseppe Ghersi ed un vecchio signore svizzero, certo Zweifel Giovanni" (pagina 5).
  146. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., p. 149 e n.
  147. ^ Antonio Gramsci, Semplici riflessioni intorno a un processo, in "L'Ordine Nuovo", 3 marzo 1922, ora in: Id., Socialismo e fascismo. L'Ordine Nuovo 1921-1922, Torino, Einaudi, 1978 (settima edizione), p. 463: "Tutto l'apparecchio giornalistico borghese fu mobilitato per questo fine. Le elezioni municipali del novembre 1920 furono impostate dai blocchi reazionari sulla strage del Sonzini e del Scimula: a Milano, a Bologna, a Roma, a Firenze, a Napoli, a Palermo, i muri furono tappezzati di manifesti clamorosi, in cui il bolscevico col coltello fra i denti fu esposto alla pubblica esecrazione, raffigurato com'era nell'atto di eseguire la carneficina dei due giovani."
  148. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., p. 156.
  149. ^ Battista Santhià, Con Gramsci all'Ordine Nuovo, Firenze, Editori Riuniti, giugno 1956, p. 128: "Il 27 l'Avanti pubblicò un comunicato in cui apertamente si riconosceva che la lotta era finita con la sconfitta degli operai per colpa dei dirigenti riformisti."
  150. ^ G. Candeloro, op. cit., p. 332.
  151. ^ Enzo Biagi, Storia del Fascismo, Firenze, Sadea Della Volpe Editori, 1964, p. 100
  152. ^ Enzo Biagi, Storia del Fascismo, Firenze, Sadea Della Volpe Editori, 1964, p. 108
  153. ^ Antonio Gramsci, Ancora delle capacità organiche della classe operaia (articolo non firmato) in "l'Unità", 1º ottobre 1926; ora in Id., La costruzione del Partito comunista, 1923-1926, Torino, Einaudi, 1971, pp. 347-348.
  154. ^ P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., pp. 162-163.
  155. ^ Enzo Biagi, Storia del Fascismo, Firenze, Sadea Della Volpe Editori, 1964, p. 100: "Ma i socialisti, di fronte al compromesso, si trovano inevitabilmente divisi. Metà degli iscritti al Partito sono convinti che l'accordo con gli industriali non sia soddisfaciente e accusano la direzione del Partito e le organizzazioni sindacali di aver provocato il fallimento di quel moto che avrebbe potuto condurre la classe operaia alla conquista del potere."
  156. ^ Paolo Spriano, L'occupazione delle fabbriche. Settembre 1920, Torino, Einaudi, 1973 (quarta edizione), p. 178: "L'occupazione delle fabbriche doveva, nella pubblicistica fascista, evocare l'immagine del caos e della violenza, e giustificare, perciò stesso, la provvida reazione mussoliniana".
  157. ^ Giorgio Candeloro, Storia dell'Italia moderna. Volume ottavo. La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l'avvento del fascismo, Feltrinelli, Milano 1996 (sesta edizione), pp. 334-5.
  158. ^ Paolo Spriano, L'occupazione delle fabbriche. Settembre 1920, Torino, Einaudi, 1973 (quarta edizione), pp. 176-178.
  159. ^ G. Candeloro, op. cit., p. 335.
  160. ^ Sven Reichardt, Camicie nere, camicie brune, 2003, Società Editrice Il Mulino, Bologna, 2009, p. 174: "Potevano disporre del ricavato di imposte localmente stabilite sugli immobili, sulle attività produttive e a carico delle famiglie, potevano concedere in affitto i terreni comunali, esercitare la sorveglianza sulle attività produttive, e avevano competenza in materia di piani regolatori e di assistenza sociale."
  161. ^ G. Candeloro, op. cit., pp. 335-6.
  162. ^ G. Candeloro, op. cit., p. 272, sottolinea l'errore tattico commesso al riguardo dal P.S.I. con questo "atteggiamento che spesso non distingue tra quelli che hanno voluto la guerra e quelli che l'hanno combattuta con la coscienza di compiere un dovere".
  163. ^ Enzo Biagi, Storia del Fascismo, Firenze, Sadea Della Volpe Editori, 1964, pag 12: "Nelle città italiane c'è gente che insulta gli ufficiali. "Siete stati voi a volere la guerra, voi siete i responsabili di tutto questo. Nascono frequenti e gravi incidenti".
  164. ^ Piero Operti in Lettera aperta a Benedetto Croce riportata in Pino Rauti - Rutilio Sermonti, Storia del Fascismo, verso il Governo, Centro Editoriale Nazionale, Roma, p. 107: "Inermi e mancanti chi del braccio, chi della gamba, eravamo nell'impossibilità di opporre qualsiasi reazione: ci strapparono le medaglie; le calpestarono; non fecero di più, soddisfatti del gesto o spenta l'ira dalla nostra passività, e si scostarono. Noi raccogliemmo dalla polvere le nostre medaglie e tornammo all'Ospedale".
  165. ^ A. Tasca, op. cit., p. 159: "Quando si scorrono pazientemente i giornali dell'epoca, si può constatare che gli episodi di aggressione contro gli ufficiali sono stati relativamente poco numerosi. I più gravi si son prodotti a titolo di rappresaglia per le aggressioni, nelle vie di Roma, di deputati socialisti da parte di ufficiali nazionalisti o fascisti. Sarebbe tuttavia errato l'attenersi ad un semplice criterio statistico. Quando un ufficiale è ingiuriato o percosso, tutti gli altri si sentono umiliati e colpiti in lui, nel loro spirito e nella loro carne [...]. La stampa borghese si incarica di moltiplicarne e prolungarne la eco, di generalizzare e falsare l'episodio con invenzioni nefande, atte a suscitare l'odio e a renderlo irreducibile [...]".
  166. ^ A. Tasca, op. cit., p. 144.
  167. ^ Giampiero Carocci, Storia del fascismo, Roma, Newton Compton, 1994, p. 16.
  168. ^ A. Tasca, op. cit., p. 151.
  169. ^ G. Candeloro, op. cit., p. 345.
  170. ^ Gaetano Salvemini, La dittatura fascista in Italia, in Scritti sul fascismo, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 17-31; la statistica di Salvemini è riportata in P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, cit., p. 158.
  171. ^ Roberto Giorgi, Olive Amare, Monterotondo, Montegrappa Edizioni, 2013.

BibliografiaModifica

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  • Roberto Bianchi, Pace, pane, terra. Il 1919 in Italia, Roma, Odradek Edizioni, 2006
  • Giorgio Rochat, L'esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini 1919-1925, Roma-Bari, Laterza, 2006
  • Marco Mondini, La politica delle armi. Il ruolo dell'esercito nell'avvento del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2006
  • Andrea Baravelli, La vittoria smarrita. Legittimità e rappresentazioni della Grande Guerra nella crisi del sistema liberale (1919-1924), Roma, Carocci, 2006
  • Giulia Albanese, La marcia su Roma, Roma-Bari, Laterza, 2006
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